DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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ISIS, 12 domande e risposte



Dell’ISIS, cioè lo Stato Islamico, se ne sta occupando la stampa internazionale – e italiana – dalla scorsa estate. L’ISIS si è fatto conoscere per la diffusione di video particolarmente brutali che mostrano l’uccisione di ostaggi occidentali e arabi. Nonostante se ne parli parecchio, c’è molta confusione su cosa sia e cosa voglia lo Stato Islamico: negli ultimi mesi ci si è spesso concentrati su eventi singoli – la battaglia di Kobane, i video delle decapitazioni – e si è perso di vista il quadro generale. Abbiamo messo insieme 12 domande e altrettante risposte da cui partire per chiarire e capire cose in più dell’ISIS, e per non occuparsene solo con l’indignazione di chi ha visto un video terribile di una persona bruciata viva in una gabbia.
1. Quando è nato?
Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – il nome del gruppo prima che decidesse di chiamarsi “Stato Islamico” (IS) – è nato nell’aprile del 2013. Prima si chiamava al Qaida in Iraq (AQI), nome che indicava due cose: la sua alleanza con al Qaida e il fatto che agisse solo in Iraq.
2. Da dove arriva?
Nei primi anni Duemila era la divisione irachena di al Qaida. Abu Musab al-Zarqawi, fondatore del gruppo, voleva creare un califfato provocando una guerra civile in Iraq. Lo Stato Islamico ha cominciato a combattere anche in Siria nell’aprile del 2013: oggi è il più forte avversario del regime di Assad.
3. Chi è il capo?
Si chiama Abu Bakr al Baghdadi, è nato nel 1971 nella città irachena di Samarra. Negli anni Duemila ha combattuto i soldati americani in Iraq: è diventato capo dell’IS alla morte del suo predecessore, Abu Omar al Baghdadi, nell’aprile del 2010.
4. Perché viene chiamato con tanti acronomi diversi?
Al Post usiamo prevalentemente l’acronimo IS (che viene da “Islamic State”, “Stato Islamico”), perché è così che il gruppo si fa chiamare dal giugno 2014, quando ha proclamato il Califfato. Il governo americano usa ISIL (“Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, dove Levante è un’ampia regione che va dalla Turchia all’Egitto), perché ritiene che usando IS si dia legittimità al Califfato. Altre testate internazionali usano ISIS (“Stato Islamico dell’Iraq e della Siria”), che è praticamente uguale a ISIL (il nome arabo di Levante è al-Sham, da qui l’equivalenza nell’usare ISIS e ISIL). Ogni tanto si sente anche Daesh, l’acronimo arabo di ISIS.
5. Da quanti miliziani è formato?
Non si sa il numero con precisione ma potrebbero essere tra i 15mila e i 30mila. Il governo americano ha detto che dall’inizio degli attacchi aerei sono stati uccisi 6mila miliziani. L’intelligence dice che circa 4mila stranieri si sono uniti all’IS da settembre. Semplificando: il numero dei combattenti non sta diminuendo.
6. Dove opera?
Lo Stato Islamico controlla circa metà della Siria (mappa) e un terzo dell’Iraq (mappa). I confini del Califfato sono flessibili, a seconda delle vittorie e delle sconfitte militari. Ci sono anche delle “province”, o gruppi affiliatinel Sinai, in Algeria, in Libia, in Arabia Saudita e in Yemen.
7. Cosa vuole ottenere?
Un Califfato Islamico che venga governato sulla base di un’interpretazione molto rigida della sharia. L’IS non ha l’interesse prioritario a fare attentati in Occidente, a meno che questo sia funzionale ad alzare il livello dello scontro e reclutare nuovi miliziani.
8. Cosa c’entra col resto del terrorismo jihadista?
È nato come divisione di al Qaida in Iraq. Quando ha cominciato a combattere in Siria, si è alleato con il Fronte al Nusra, divisione siriana di al Qaida. Poi si è divisa del tutto da al Qaida, e i due gruppi sono diventati nemici: oggi competono per la supremazia nel mondo jihadista.
9. Perché le azioni dei suoi miliziani sono così brutali?
Il clima di contrapposizione totale con i nemici rende possibili alleanze con alcuni gruppi sunniti iracheni (contro gli sciiti per esempio) ed è funzionale alla creazione di un Califfato che, come lo immaginava Zarqawi, dovrebbe portare alla purificazione del mondo musulmano». Inoltre la guerra totale dell’IS è fatta per “superare a destra” al Qaida, principale avversario nel mondo jihadista.
10. Ha degli amici?
Nessuno stato al mondo si è finora alleato con l’IS: i suoi benefattori sono privati cittadini, soprattutto da Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, che per diverso tempo hanno sostenuto i gruppi che combattevano contro Assad, tra cui proprio lo Stato Islamico.
11. Come si mantiene?
Con un vasto sistema di tasse ed estorsioni, con la vendita di petrolio estratto soprattutto nella Siria orientale e in misura minore con i riscatti e le donazioni di privati. Buona parte dei traffici illeciti avviene attraverso il confine con la Turchia. E no: non ci sono gli Stati Uniti dietro all’IS.
12. Sta vincendo?
Ha subito di recente delle sconfitte militari importanti, per esempio a Kobane e nella provincia orientale irachena di Diyala. Il suo modello di stato sembra essere entrato in crisi. Non sembra però che i suoi nemici abbiano trovato una strategia per sconfiggerlo, né in Siria né in Iraq. Quindi no, non sta vincendo. Ma è difficile pensare che possa perdere nel breve periodo.

Il Post


Mogli a 9 anni. Ecco le regole delle jihadiste perfette. Pubblicato dall'Isis un volume che spiega alle donne del Califfato come comportarsi


La follia jihadista continua a invadere il web. L’ultima puntata di questo drammatico romanzo scritto in rete riguarda le donne. E’ stato infatti pubblicato un vero e proprio manuale che descrive come dovrebbe essere la moglie perfetta di un combattente della guerra santa. Un tentativo che le combattenti dell’Isis hanno fatto per attrarre tra le schiere dello Stato Islamico le “consorelle” che oggi, negli altri Paesi del Golfo, e in particolare in Arabia, vivono come “prostitute”. Devono essere istruite ma non troppo, sedentarie e pronte al matrimonio sin dai 9 anni. Il testo, scritto in arabo dalla Brigata Khansaa, gruppo di sostenitrici del Califfato in Iraq e Siria, è stato poi tradotto in inglese dal think-thank britannico Quilliam, da sempre schierato contro il terrorismo. Nel volume è condannato senz’appello lo stile di vita emancipato delle occidentali: una donna, si legge, dopo aver preso marito deve passare la sua vita in casa e non farsi vedere dal mondo. Vanno evitati lavori come quello di commessa in negozi di abbigliamento o in saloni da parrucchiere, abitati, secondo la pubblicazione, dal diavolo in persona.
La moglie non deve combattere, ma pensare a badare ai figli. Per agevolare l’indottrinamento delle destinatarie il libro cita anche l’esempio di Raqqa (capitale siriana dello Stato Islamico) definita un “paradiso dei migranti”, dove le famiglie vivono “lontane dalla fame, dai venti freddi e dal gelo”. Città dove non esistono nazionalismi e dove i ceceni vivono in armonia al fianco dei siriani, come i sauditi insieme ai kazachi. L’obiettivo è di attrarre soprattutto le saudite che nel loro paese si confronterebbero con “barbarie e ferocia”. Basta lavorare nei negozi al fianco di colleghi maschi – spiega il volume – basta farsi fotografare a volto scoperto per i documenti di identità, basta frequentare le scuole occidentali o “l’università della corruzione” che è a Gedda.

Kenji Goto, morte di un cristiano giapponese

di Stefano Magni

La Nuova Bussola Quotidiana


Il giornalista giapponese Kenji Goto, decapitato dagli jihadisti dell’Isis due giorni fa, era un coraggioso cristiano. La sua condotta e il suo comportamento di fronte alla morte fanno di lui un eroe moderno del Giappone e lasceranno il segno.

La vicenda di Kenji Goto si intreccia con quella dell’altro ostaggio nipponico nelle mani dei terroristi, Haruna Yukawa. Se il giornalista ha perso la vita, è soprattutto per cercare di salvare quest’ultimo. Personaggi così diversi non potevano esistere. Il signor Yukawa, fino a dieci anni fa era un imprenditore. Nel 2005 perse il suo primo pezzo di vita, quando la sua azienda fallì. Tre anni dopo, cercò di suicidarsi tagliandosi i genitali, un gesto che paragonò al suicidio rituale dei Samurai, ma che non gli procurò la morte. Cambiò vita e iniziò a sentirsi donna. Una donna in particolare: Haruna Yukawa (Haruna è un nome femminile che si è dato dopo l’autocastrazione) credeva di essere la reincarnazione di una nobildonna mancese che vestiva abiti maschili e lavorava come spia per l'Impero Giapponese. L’ultimo legame con la realtà, Haruna lo perse due anni fa, con la morte della moglie, la persona che lo aveva salvato per miracolo dalla morte per suicidio. Dopo una breve e infruttuosa frequentazione dell’estrema destra nazionalista, Yukawa, compiuti i 42 anni, prese armi, bagagli e tanta fantasia e partì per la Siria. Non aveva uno scopo preciso, solo quello di dare una “svolta elettrizzante” alla sua esistenza, fare una nuova esperienza in una guerra vera e riciclarsi, magari, come contractor per qualche compagnia giapponese.

E’ a questo punto, in questa surreale vicenda, che entra in scena il solido ed esperto Kenji Goto, giornalista, reporter di guerra dal 1996, cinque anni più anziano del suo connazionale. Più per compassione che per fascino, decide di mettersi sulle sue tracce e ad aprile trova Yukawa ad Aleppo, ostaggio di un gruppo di ribelli siriani. Grazie ai suoi contatti lo libera e rimane il tempo sufficiente per scoprire la nuova vita di questo strano personaggio. L'avventuriero ha infatti familiarizzato con i membri di un gruppo di ribelli siriani, in particolar modo con un volontario straniero di origine coreana-giapponese, sta imparando a combattere, viene accettato "per i suoi modi gentili". Goto offre parte della sua esperienza a Yukawa per dargli i rudimenti della sopravvivenza e dell’orientamento in un territorio di guerra. Nell'estate del 2014, l'avventuriero lavora come assistente del giornalista. I due uomini entrano in territorio iracheno, nelle regioni sconvolte dalla rapida offensiva dell’Isis. in quel caso va ancora tutto bene: Yukawa combatte la “sua guerra”, mandando video e scritti in Giappone, il giornalista Goto torna a casa sano e salvo.

Ma il 14 agosto, i guerriglieri dell’Isis, nel pieno della loro offensiva irachena, sconfiggono l’unità dell’esercito ribelle siriano di cui Yukawa fa parte e prendono il giapponese prigioniero. In Giappone il suo caso sparisce in fretta dai teleschermi. Si tratta di una persona che ha scelto di andare a rischiare e morire per una causa tutta sua, si è preso i suoi rischi e le sue responsabilità. I giapponesi, forti del loro senso di comunità, lo ritengono potenzialmente in grado di compromettere la sicurezza nazionale e preferiscono lasciar perdere un tentativo di salvataggio. Non la pensa così Kenji Goto, che si sente responsabile per la cattura del suo connazionale.

E’ qui che, probabilmente, entra in gioco lo spirito cristiano del giornalista Goto. Abbracciato il cristianesimo nel 1997, un anno dopo il suo primo reportage di guerra, diceva della sua conversione: “Ho visto luoghi orribili, ho rischiato la mia vita, ma io so che in ogni caso Dio mi salverà”. Lo aveva dichiarato in maggio, poco dopo il suo primo incontro con Yukawa. Nella stessa intervista precisava, comunque, che non avrebbe mai voluto correre rischi immotivati, citando la Bibbia: “Non tenterai il Signore Dio Tuo”. I numerosi critici del suo gesto, in Giappone, gli rimproverano proprio di aver tentato Dio, o comunque di essersi assunto un rischio non necessario. Ad ottobre, Kenji spiegava, in un video, il suo disperato tentativo di salvataggio di Yukawa. Pregava, prima di tutto, di non attribuire al popolo siriano ogni colpa per il rapimento e per l’eventuale omicidio di cittadini giapponesi. Goto ammetteva che la sua impresa fosse “abbastanza pericolosa” e si assumeva tutta la responsabilità personale per ciò che sarebbe potuto accadere, a lui e al suo strano amico. Vista la sua esperienza sul campo e i suoi numerosi contatti, il giornalista Goto pensava ancora di poter tornare vivo, nonostante i rischi. Un video dell’Isis, di lì a non molto, lo avrebbe invece mostrato in cattività, assieme all’altro cittadino giapponese.

La trattativa fra i terroristi e il governo giapponese si è subito caratterizzata per l’incomunicabilità. Il gruppo terrorista ha chiesto a Tokyo un riscatto impossibile: 200 milioni di dollari, l’equivalente degli aiuti militari forniti all’Iraq nell’ambito della coalizione anti-Isis. Il governo nipponico non ha mai inteso pagare questo riscatto, né negoziarne uno inferiore. Questo per rispettare il principio di evitare trattative con i terroristi, ma anche perché il Giappone non ha contatti in loco, come ha ammesso un funzionario governativo al Japan Time. La trattativa è stata dunque condotta interamente dal governo della Giordania, perché gli jihadisti, assieme ai due giapponesi detenevano anche un pilota giordano, il tenente Moaz al-Kasasbeh e chiedevano in cambio la liberazione della terrorista Sajida al-Rishawi, unica sopravvissuta del commando suicida che aveva condotto l’attentato di Amman nel 2005.

E’ così che si è consumata la tragedia sotto gli occhi del pubblico giapponese. A 72 ore dal primo ultimatum, Haruna Yukawa è stato decapitato. Il video non è stato diffuso: solo un’immagine di Goto con in mano la foto del suo defunto compagno di prigionia. Il governo Abe e i comuni cittadini giapponesi si sono resi conto solo in quel momento di aver perso un connazionale, un uomo strano, che aveva cercato la morte in Siria, ma comunque una vittima del terrorismo. Il padre di Haruna, che ha rifiutato di farsi riprendere il volto dalle telecamere, voltando le spalle al pubblico televisivo ha espresso la sua speranza che il figlio fosse ancora vivo e ha porto le sue scuse al Giappone per la difficile situazione da lui creata. Soprattutto dopo quella prima decapitazione l’opinione pubblica si è mobilitata per la liberazione di Goto: campagne stampa, solidarietà dei colleghi giornalisti, veglie di preghiera organizzate dai cristiani giapponesi, assieme alla piccolissima comunità musulmana e ai buddisti.

“Molti erano critici per la sua (di Kenji Goto, ndr) azione – spiegava al Christianity Today Atsuyoshi Fujiwara, professore di teologia dall’Università Saigakuin – alcuni restano tuttora scettici. In ogni caso, i mass media sono ancora dalla parte di Kenji e anche l’opinione pubblica nel suo complesso. Dicono che il suo viaggio sia comunque parte del suo lavoro. E Kenji è un bravo giornalista che si è assunto il rischio di andare a salvare Yukawa”. Per quanto riguarda la fede cristiana del giornalista, il professore commenta: “Kenji è cristiano. La popolazione cristiana in Giappone è inferiore all’1% del totale. Non solo la sua chiesa, la United Christian Church of Japan, ma anche tutte le altre chiese del Giappone pregano per lui. Noi pensiamo che Kenji stia facendo un lavoro importante per la pace”.

Kenji Goto è stato decapitato. Il video dell’Isis è stato diffuso in tutto il mondo sabato sera. Fino a due giorni prima c’era la speranza che il governo giordano potesse sbloccare la trattativa, liberando Sajida al-Rishawi. Ma si è impuntato, pretendendo anche la liberazione del suo pilota. Dimostrando ancora una volta di essere preciso e inflessibile nella sua crudeltà, il movimento jihadista ha portato a termine quel che ha annunciato, senza attendere un solo giorno in più. Hanno ucciso un coraggioso cristiano giapponese, un esempio di raro altruismo, un giornalista esperto. In Giappone lo shock è stato terribile. In Italia, alle prese proprio in questi mesi con storie di rapimenti e riscatti in Siria, questa vicenda dovrebbe far riflettere su molti suoi aspetti.




Era cristiano il giornalista giapponese ucciso dall'Is


GIORGIO BERNARDELLI


Era cristiano Kenji Goto, il giornalista giapponese decapitato dall'Isis. E proprio la volontà di dare voce agli ultimi era la principale motivazione del suo lavoro anche in Siria. Nel nuovo dramma della follia islamista rimbalzato attraverso immagini che paiono purtroppo attendibili c'è anche un aspetto che chiama in causa la fede religiosa oltre che la politica. Kenji Goto apparteneva alla piccolissima comunità cristiana del Giappone, meno dell'1 per cento della popolazione del Paese.

Quarantasette anni, originario di Sendai, Goto si era convertito al cristianesimo nel 1997, quando già da alcuni anni ormai lavorava come giornalista. Era entrato a far parte della United Church of Christ of Japan, la maggiore confessione evangelica giapponese, che conta circa 200 mila fedeli: frequentava la comunità di Den-en-chōfu, un sobborgo di Tokyo.

Proprio la sua fede cristiana, unita a una grande sensibilità sul tema della pace - diffusissima tra i cristiani giapponesi - aveva orientato la sua attività professionale. Aveva creato una sua società di produzione indipendente che concentrava la sua attenzione in maniera particolare sui bambini vittime della guerra. Nei suoi reportage si era occupato dei bambini soldato in Sierra Leone, del conflitto in Ruanda, della condizione delle bambine in Afghanistan. Era partito per la Siria nell'ottobre scorso con l'intenzione di mediare la liberazione dell'altro ostaggio giapponese dell'Isis Haruna Yukawa, decapitato nei giorni scorsi. 

«Prima di partire per la Siria - ha raccontato all'agenzia evangelica Christianity Today Atsuyoshi Fujiwara, un pastore di Tokyo - Kenji aveva lasciato un video messaggio nel quale si diceva consapevole del fatto che il suo tentativo era molto rischioso e si assumeva la piena responsabilità delle sue azioni». A unna rivista giapponese aveva dichiarato: «Ho visto cose e posti orribili e ho anche rischiato la vita, ma so che comunque in qualche modo Dio mi salverà».

La missione del giornalista in Siria ha sollevato perplessità in Giappone, al punto che già quando l'Isis mostrò le immagini di Goto e Yukawa entrambi prigionieri i genitori di entrambi si scusarono pubblicamente in tv per il disagio creato al Giappone. La reazione iniziale in Giappone - riferisce sempre Christianity Today citando altre sue fonti cristiane locali - era stata che i due si fossero cacciati nei guai andando dove non dovevano andare. «Ma una volta saputo che Goto è un cristiano e che la sua motivazione è sempre stata quella di dare voce ai bambini vittime della guerra – racconta l'agenzia – questo gli ha permesso di guadagnare almeno un po' di favore. Hanno capito che non era un avventuriero».

Vatican Insider


IL SOGNO DISPERATO DEL CALIFFATO ISLAMICO





di  Samir Khalil Samir

La retorica di Abu Bakr al Baghdadi  è fallimentare. Nessun musulmano vuole vivere in un califfato. Lo stesso "califfo" è rifiutato da tutti. Ma egli ha ragione nell'indicare la decadenza del mondo islamico, di cui i primi responsabili sono gli stessi musulmani. Israele e la teoria del "complotto". Restaurare l'islam attraverso il dialogo aperto nella società, basato sui valori universali e comuni. Altrimenti rischia di finire anche l'islam.

Beirut (AsiaNews) - L'annuncio dell'inaugurazione del Califfato islamico da parte di Abu Bakr al Baghdadi rivela un senso di disperazione. Il suo proclama ha una forte impronta ideologica, ma per inaugurare questa nuova epoca del califfato mondiale, ha dovuto cambiare area: non in Siria, dove l'Isis rischiava di essere eliminato dall'esercito di Bashar Assad, ma in Irak, nella parte debole, sunnita, dove il governo non aveva un esercito forte. E si sono fermati facendo questa dichiarazione presuntuosa.
Lo stesso fatto di ridefinirsi non più "Isis" in cui sono presenti i termini "Iraq e Siria", ma semplicemente Stato Islamico", come qualcosa di mondiale, è ridicolo dal punto di vista pratico. Nello stesso tempo, rivela la dimensione ideologica del progetto: si tratta di restaurare il califfato di Bagdad, considerato come il periodo più brillante dell'Islam.
Ma la maggioranza dei musulmani non sogna più il califfato, né un impero senza confini. Ognuno cerca di abitare in una nazione, tanto che anche i curdi stanno lavorando da anni per far nascere la loro nazione.

1. La fine del califfato e la nascita dei "Fratelli Musulmani"
La fine del califfato risale a Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna. Egli depose il 1° novembre 1922 il sultano Mehmet VI, e 18 giorni dopo fu eletto califfo Abdülmecid Efendi, per poco tempo. Ataturk fondò la Repubblica il 29 ottobre 1923 e dopo essere stato eletto presidente, ha proclamato l'abolìzione definitiva del califfato islamico il 3 marzo 1924.
Questa decisione simbolica fu uno shock per l'intero mondo islamico. Soprattutto in seguito alle decisioni prese da Ataturk, in particolare la laicizzazione dello Stato e la de-islamizzazione della società: parità dei sessi; divieto dell'uso del velo islamico nei locali pubblici; divieto del fez e del turbante; divieto della barba per i funzionari pubblici; adozione dell'alfabeto latino al posto dell'arabo; del calendario gregoriano al posto dell'anno dell'egira; della domenica come giorno festivo; del sistema metrico decimale, ecc.
Da allora molti gruppi hanno cercato di riportare in vita il califfato. Nel 1928, da un progetto di Hassan al-Banna guidato dall'imam azharita Rashid Rida, sono nati i Fratelli Musulmani" proprio per rimediare alla mancanza del califfato. Dopo diverse riflessioni e ricerche da loro svolte per istituire un nuovo califfato in Egitto o in Arabia, essi stessi hanno detto che "non è più possibile avere un califfato" e hanno cambiato rotta: occorre islamizzare i vari Paesi e governi, introducendo la sharia come nostra costituzione. Ciò è stato attuato specie in Arabia Saudita, che non ha una costituzione, ma la sharia. In altri Paesi è stata varata una legislazione che si "ispira" alla sharia. Oggigiorno si nota che la maggior parte dei Paesi musulmani, soprattutto i più sviluppati, non va in questo senso e non applica la sharia come un ideale.

2. Chi è Abu Bakr al-Baghdadi
Come tutti i terroristi musulmani, il nuovo "califfo" porta un "nome di guerra". Non si chiama Abu Bakr al-Baghdadi. Si chiama in realtà Ibrahim Awad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai, nato a Samarra nel 1971. Il suo nome di guerra completo è: Abu Bakr al-Baghdadi al-Husseini al-Qurashi.
Questo nome, per qualunque musulmano educato, è già un programma. Abu Bakr è il nome (più esattamente la kunyah) del primo califfo, cioè il primo successore di Maometto. Al-Baghdadi evoca il periodo più famoso del califfato islamico, quello abbasside, che aveva per capitale Baghdad (750-1258). Al-Husseini si riferisce a Hussein, figlio di Ali e Fatima, la figlia di Maometto, le figure più venerate dall'islam sciita. Infine, al-Qurashi, si riferisce alla tribù di Maometto, originaria di Quraysh. Secondo un hadith il califfo legittimo deve essere discendente di Maometto. Questi ultimi due nomi (due nisbah) significano che egli è il califfo legittimo per eccellenza , che soddisfa sia i sunniti che gli sciiti.

3. Califfato, il sogno nello scompiglio del mondo musulmano
Il califfato è un sogno e fa riferimento al califfato di Baghdad, quello abbasside. Non è un caso che Abu Bakr al Baghdadi sia irakeno. Per attuare i suoi progetti egli ha provato prima con al Qaida, ma ha dovuto staccarsi da essa. Gli altri gruppi fondamentalisti si sono staccati da lui e lo hanno combattuto in Siria. Anzi, ormai tutti i governi hanno deciso di combatterlo: Algeria, Tunisia, Egitto, Siria, Iraq… A sostenerlo rimangono i Paesi petroliferi - Qatar e altri - non perché condividano l'idea del califfato, ma per creare diversivi, distrazioni nel mondo arabo.
In ogni caso, il califfato non risponde più a quello che i musulmani arabi ricercano. In Egitto, anche i Fratelli musulmani - la cui maggioranza non è per nulla terrorista, anche se viene eliminata dal nuovo governo di Al Sissi - lo hanno sconfessato.
Chi conosce al Baghdadi dice che egli non ha doti per dirigere un grande movimento e non è capace di andare d'accordo con nessuno. Con il poco sostegno che riceve, è molto possibile che il suo ambizioso progetto di conquistare il mondo finisca nel nulla. L'unica cosa che l'Esercito islamico (Ei) possiede è la forza: i suoi militanti non sarebbero nulla senza le armi che i Paesi petroliferi e l'occidente hanno dato loro. Ma tali armi non possono resistere contro un vero esercito. L'Ei appare come vincitore perché ha avuto buona tattica ad attaccare le regioni più deboli e più facili da sottomettere, quelle indebolite dagli ultimi tre anni di guerre e terrorismo. Essi sognavano anche la Libia, ma nessuno li ha seguiti.

4. La decadenza del mondo arabo
In ogni caso la proclamazione del califfato mostra in che direzione si sta muovendo il mondo islamico. Leggendo il proclama di al-Baghdadi, emergono tre affermazioni: anzitutto, "Noi vogliamo restaurare la grandezza dell'islam"; in secondo luogo, "l'occidente ha ridotto il mondo islamico a nulla, uccidendo persone, creando vedove,… "; terzo, "riprendiamoci la nostra leadership con la forza".
Questo è il tipico discorso mitico dei fondamentalisti: prima eravamo bravissimi, poi ci hanno impoverito, adesso ci riprendiamo il potere con la forza.
Ecco come nella sua filippica di proclamazione, Abu Bakr dipinge la decadenza del mondo islamico: "La Ummah islamica cerca la vostra gihad con speranza. I vostri fratelli in molte parti del mondo, si vedono infliggere le peggiori forme di tortura. Il loro onore è violato e il loro sangue è sparso. I prigionieri gemono e urlano chiedendo aiuto. Gli orfani e le vedove lamentano il loro destino. Le donne che hanno perso i loro bambini piangono. Le moschee sono profanate e i santuari violati. I diritti dei musulmani sono sequestrati con la forza in Cina, India, Palestina, Somalia, Penisola Arabica, Caucaso, nel Sham (il Levante), in Egitto, Iraq, Indonesia, Afghanistan, Filippine, Iran, Pakistan, Tunisia, Libia, Algeria e Marocco, sia in Oriente che in Occidente…".
Lui parte da una constatazione molto condivisibile: la decadenza del mondo arabo e islamico, riconosciuta da intellettuali e persone di ogni livello sociale. Per rilevarlo, basta paragonare i Paesi musulmani con qualunque Paese occidentale su economia, politica, diritti umani, giustizia, vita sociale, attenzione ai deboli e ai poveri: siamo davvero in un periodo di decadenza. Anche dove abbiamo miliardi e siamo più ricchi di chiunque (si pensi ai Paesi arabi petroliferi), il livello culturale è molto basso e il contributo alla civilizzazione mondiale è nullo!
Di fronte a questo sfacelo nasce il sogno. Tale sogno di rinascita non trova alcun sostegno nei Paesi musulmani ricchi, i Paesi petroliferi, disinteressati a qualunque sviluppo umano integrale. Riflettendo su questo, il mondo arabo deve riconoscerlo: abbiamo soldi, ma sono in mano ad una minoranza; abbiamo i numeri, con centinaia di milioni di persone, ma sappiamo soltanto fare guerre.

5. Ricostruire una cultura aperta
In realtà, l'unica via per riconquistare la nostra dignità è ricostruire culturalmente l'uomo arabo e musulmano, ripensando le leggi, applicando i diritti umani, rafforzandoli, andando nel senso di una cultura aperta, che solidarizza con tutto il mondo. Invece vediamo il diffondersi di una cultura della divisione, che è un passo indietro.
Guardiamo al califfato abbasside e domandiamoci: da dove è venuta la sua grandezza? Essa è venuta dall'unione fra tutte le parti dell'antico impero musulmano. Dal punto di vista culturale più che gli arabi, vi hanno contribuito iraniani, afghani, balkh, cristiani di lingua siriaca… Era una visione aperta che dava spazio a tutti, pur privilegiando il mondo arabo islamico.
Oggi la cultura è basata sui diritti umani della persone e la solidarietà fra i popoli. E noi cosa facciamo? Cerchiamo di giustificare e riportare tutti a un modo di vivere che risale a un periodo passato (il VII secolo), tipico di una regione beduina e desertica: questo non può essere una soluzione per il XXI secolo.

6. L'errore ideologico dell'islam
L'errore del mondo islamico è a livello ideologico. Esso porta a guerre di tipo ideologico: culturale, religioso, storico, ma mai basate sulle vere esigenze della gente.
La gente araba chiede soluzioni ai bisogni essenziali; uguaglianza fra uomini e donne; fra musulmani e non musulmani; ricchi e poveri (nel mondo arabo il povero non ha mai voce!).
Invece di prendere il meglio della civiltà moderna e assimilarlo, noi cerchiamo la soluzione andando indietro.
A causare questo errore ideologico, vi è pure una responsabilità dell'occidente: esso deve migliorare la relazione con il mondo arabo. Fra di noi, l'occidente è visto come un luogo immorale, senza valori. E in parte è vero. L'occidente è visto come la guida del mondo, che però attua il suo dominio anche con le armi, con la legge del più forte. Guardando questi elementi, il mondo musulmano rifiuta il progetto occidentale, troppo "umano", e spera in un "progetto divino", che è la sharia.
In realtà la sharia non ha nulla di "divino": essa è la sedimentazione delle regole tribali e beduine del IX e X secolo, e nulla hanno a che fare con il Corano, che è del VII secolo, o con il profeta Muhammad.
Purtroppo anche se questa idea è condivisa dalla maggior parte della popolazione, i capi politici, soprattutto quelli più ricchi, continuano a mantenere viva questa idea della sharia come una cosa "santa", difendendo la cultura beduina e del deserto, essendo loro i discendenti di quell'epoca. Ma essi non sono e non potranno mai essere un modello per il mondo musulmano.

7. Israele, l'islam e la teoria del "complotto"
La crisi del mondo islamico si è acuita anche con la fondazione dello Stato d'Israele, una creazione ingiusta perché nata sul territorio di un altro Stato che non era per nulla colpevole della Shoah. La disfatta del 1948 e poi del 1967 ha mostrato fino a che punto il mondo arabo (e il mondo islamico) fosse in ritardo, e ha suscitato tutte le rivoluzioni arabe e l'animosità contro l'Occidente, oltre che l'odio per Israele (e per alcuni contro ebrei e cristiani).
Ma da questa creazione, essendo ormai un fatto storico, non si può tornare indietro. Per entrare nella prospettiva di maggiore collaborazione internazionale, dobbiamo lavorare per una soluzione alla questione israelo-palestinese. Ciò suppone, sia per gli israeliani che per i palestinesi, la decisione di cercare una soluzione giusta anche se mai perfetta, perché entrambi hanno ricevuto torti e procurato ferite.
Di fronte a questa situazione politico-militare, da noi molti vedono la mano d'Israele (e degli Stati Uniti) in tutto ciò che succede in Medio Oriente. Anche nella creazione dell'Ei, si sospetta il loro zampino per dividere il mondo arabo e rimescolare le carte della regione.
Io sono contro la teoria del "complotto", perché ci indebolisce di più, ci rende irresponsabili della nostra sfortuna. E se questa teoria è vera, allora siamo noi arabi gli stupidi: alla fine chi fa le guerre intestine, nella regione, nel mondo arabo? Siamo noi. E anche se ci lasciassimo abbindolare così facilmente, la nostra responsabilità rimarrebbe.
Che questa situazione di divisione del mondo arabo e islamico dia forza a chi è nemico del mondo arabo, è evidente. Ma favorire la divisione e la guerra è una cattiva politica perché elimina la pace per tutti, anche per Israele. Israele potrà continuare a espropriare territori ai palestinesi, ma arriverà al punto che dovrà tenersi, in uno stesso Stato, israeliani e palestinesi, assumendo quindi al suo interno elementi in lotta. L'unica via è la collaborazione.
Gli aderenti alla teoria del "complotto" accusano gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei di aver facilitato questo genocidio interno al mondo islamico. Di nuovo, la colpa è nostra. Il problema è nato da noi in Siria, perché il governo di Damasco, oltre che dittatoriale, è un governo della minoranza alauita. Un problema politico e sociale interno alla Siria, si è trasformato in una guerra religiosa fra sunniti e sciiti, una guerra che risale al settimo secolo!
Anche la soluzione proposta da Abu Bakr al-Baghdadi è quella del settimo secolo, quando Maometto si è messo a combattere tutte le tribù arabe che non credevano in Dio (e nella sua missione), organizzando più di sessanta razzie (= ghazwa) in una decina di anni (622-632) secondo la più antica biografia del Profeta dell' Islam, il Kitâb al-Maghâzî ("Libro delle spedizioni") di al-Wâqidî.

Conclusione: Ricostruire la società araba coi valori comuni
Se davvero vogliamo ricostruire la società araba, sono necessarie alcune scelte fondamentali:
1. Noi arabi dobbiamo imparare a convivere sulla base di valoricomuni, senza fare guerre a motivo di differenze religiose. E in secondo luogo, dobbiamo pensare alla solidarietà nei Paesi e nella regione. Non è possibile che vi siano arabi superricchi e gente che fa fatica a sopravvivere: queste differenze incoraggiano le guerre.
2. Ad un altro livello, c'è anche da collaborare in tutta la regione, soprattutto con Israele, per la pace coi palestinesi. Ogni passo verso la pace in questo senso potrà facilitare i rapporti anche con l'Occidente.
3. Un'altra urgenza è che i Paesi arabi stilino delle costituzioni ispirate alla giustizia, all'uguaglianza, ai diritti umani, alla pace, senza fare distinzioni tra sessi o religioni.
4. E infine occorre ripulire la società dalla corruzione. I nostri Paesi annegano nella corruzione. In Egitto, per esempio, molte persone non vanno in ospedale perché sanno che ogni servizio, anche il più semplice, può essere elargito solo se paghi una piccola bustarella. Per un intervento chirurgico, una pastiglia quotidiana, un'iniezione devi pagare, altrimenti non ti curano!

Questo movimento del califfato non rispetta nessuno di questi 4 principi. Perciò non avrà successo, anzi rafforzerà le discriminazioni basate su norme stabilite più di 1000 anni fa. La stragrande maggioranza dei musulmani vuol vivere secondo valori autentici e attuali; solo i salafiti vogliono tornare all'epoca medievale!
La soluzione è entrare in una visione di collaborazione internazionale interaraba, per costruire una civiltà nuova, integrando gli elementi positivi della modernità e i valori contenuti nella tradizione islamica. Fuori di questo, il mondo arabo non farà che regredire, e - ciò che è peggio - lo farà in nome della religione, cioè dell'Islam. E' tempo di salvare l'Islam, lottando contro il fanatismo religioso.

Roshan sposa a 10 anni, una delle circa 60 milioni di "spose bambine" nel mondo




Ultimamente ero stanca di orrori, ne ho visti così tanti e ne ho parlate così tante volte che mi sentivo solo ferita dalle storie terribili che leggevo e impotente, perchè nulla cambiava se ne parlavo. Nulla. Anzi sono sempre stati i post meno commentati.

Ogni giorno una dose di orrori che mi hanno sfiancato e sfiduciato.
Poi, ieri sera ho letto la storia di Roshan e mi sono vergognata, si...io ..donna occidentale privilegiata, avevo smesso di lottare, per vivere lontana da sofferenze immani e brutture tali, che non riuscivo più a gestire. Io mi sentivo ferita, io che ho tutto, in primis la LIBERTA' di gestire la mia vita e il mio corpo.
Davanti alla storia della piccola Roshan mi sono vergognata di me stessa...perchè avevo abbandonato tutte quello povere infelici, torturate, schiavizzate, ammazzate in modi orribili, dimenticate e occultate all'opinione pubblica, presa dai miei problemi e dalla stanchezza di "svuotare il mare con un ditale".
Sono sessanta milioni solo le spose bambine...sessanta milioni. Ho letto di bambine morte dissanguate la prima notte di nozze, altre morte di parto, o per le percosse o per le torture. Avevo inziato a denunciare questi orrori per Samia...ora riprendo per Roshan, per le sue sofferenze e per il suo coraggio.
Orpheus
Leggete...leggete tutto fino in fondo, Roshan ce l'ha fatta ma tante muoiono in questo modo barbaro.
La cerimonia è sbrigativa, gli sguardi pesanti, più dei vestiti ricamati. Sono le nozze di Roshan. Ha 10 anni. Wasir, il marito, ne ha 30 di più. È suo cognato. Solo sei mesi prima, aveva sposato Amina,la sorella maggiore, come seconda moglie. Ma la ragazza non è stato un buon affare, è scappata di casa. Nessuno l’ha più vista. Wasir, offeso, pretende Roshan come riparazione. Il padre non può rifiutare.Il torto va riparato e l’uomo ha i mezzi per essere convincente. È potente nel villaggio, poco a sud di Kabul. Roshan dovrà essere una sposa migliore della sorella. Nella nuova famiglia, deve trovare il suo posto in fretta, non c’è tempo per lo sgomento. Non è un buon posto, questo lo capisce subito. I muri alti della casa chiudono lo spazio. Le toccano i lavori più pesanti: prendere la legna, l`acqua, fare le pulizie, Wasir, la notte.
I muri della famiglia sono ancora più soffocanti. A loro piaceumiliarla, per quell’ombra di vergogna che si porta addosso per la fuga della sorella. Impara ad obbedire. La salvezza è nel fare tutto come vogliono loro, nei minimi particolari. Ma la routine a volte si inceppa. Basta poco. È mattina, il tandur, il forno, è acceso. Un buco profondo di argilla con il fuoco dentro, un vulcano addomesticato. Oggi tocca a Roshan fare il pane. Ha aiutato la mamma, sa come fare. La pasta, spianata, si lancia contro le pareti roventi, dove si attacca, per cuocere. Ha le lacrime agli occhi, per il fumo, per la paura di sbagliare. È inesperta e le tremano le mani.
La pasta rotola giù, sul fondo. È persa. Come lei. La suocera e il marito la buttano dentro, sulla brace. Le ustioni sono gravi ma nessuno la cura, per una settimana la pelle brucia. La famiglia di Roshan viene a saperlo. La portano in ospedale, ci rimane per mesi, sono necessarie diverse operazioni. Vede la madre solo all’inizio, due volte. Poi nessuno. Ad aspettarla, fuori dall’ospedale, c’è ancora Wasir. Il caso è liquidato: incidente. Anche la sua famiglia ritira le accuse, ha paura. Wasir ha minacciato di prendersi la terza sorella se Roshan non tornerà a casa. All’inizio le cose migliorano, ha le mani fasciate, le bende sulle gambe, non può lavorare, è inutile, la ignorano, come fosse un fantasma. I mesi passano e, lentamente, tutto ricomincia. C’è sempre un po’ d’acqua che cade dalla brocca sul pavimento, il tè troppo leggero o troppo forte, una parola inopportuna, qualche moneta persa.
Ha le mani grandi Wasir e una rabbia che scoppia come una mina, basta calpestarla per sbaglio. Nemmeno suo figlio cambierà le cose,nemmeno la bambina. Sono la sua debolezza, l’arma del ricatto.Wasir minaccia di portarglieli via se non si comporta bene. Fuori, al mercato, cammina nell’ombra di un uomo di famiglia. Gli odori, la polvere, i rumori che stordiscono, sotto il burka. Ruba immagini, cattura gesti. Forse c’è un’altra vita, oltre il cortile. Quella che cercava Amina. Resiste per i figli, fa troppo male lasciarli. Sogna, scappa via con la mente. Ma nemmeno con quella sa dove rifugiarsi.L’ultima volta che ha parlato con la vicina, ci ha rimesso due denti.A Wasir non piace. Non le permette di far visita ai suoi.
Vorrebbe vedere la madre, le sorelle. Il padre no. I giorni sono tutti uguali, come una rotaia di ferro dalla quale non si può uscire senza deragliare. Anzi no. Ci sono i giorni senza botte, i migliori. I pensieri cominciano a ingarbugliarsi. Il pianto dei bambini è insopportabile. Sembra che anche loro ce l’abbiano con lei. Una mattina, oltre il cortile, scoppiano le grida. Roshan non ne ha mai sentite così. La vicina, con cui aveva parlato, si è data fuoco. È sopravvissuta. La vede passare, il viso è una foglia secca. I pensieri impazziscono. Sparire da tutto, in una fiammata. Ci pensa, cerca la benzina, mette da parte i fiammiferi. Ma conosce già il morso del fuoco, ha paura. Forse c’è un’altra scelta, quella di Amina. Forse adesso è libera, non vuole pensare che sia morta. Il pomeriggio è caldo, tranquillo, è sola in casa. Mette a dormire i bambini, sul toshak, il cuscino fiorato, li bacia, come per sempre, infila il burka ed esce. Chiude la porta.
Ruba qualche spicciolo. I fiammiferi li ha sempre in tasca. Prende l’autobus, arriva a Kabul. Cammina fino a sfinirsi, non sa dove andare. Il buio arriva e ha paura. Si accoccola per terra, come fanno i cani. La trova la polizia. Racconta la sua storia, parole confuse, lacrime, il tremito che non dà pace. Ha fortuna, Roshan, il poliziotto è un brav’uomo. Impedisce agli altri di violentarla e la mette nella prigione temporanea, per proteggerla. La porta al Ministero per gli Affari Femminili. Viene affidata alle donne di Hawca. Con i gesti discreti, con le parole, accolgono. La portano allo «Shelter». Roshan è stordita. Il suono delle parole, diverso. Solo il suono, non riesce nemmeno a capire cosa dicono, la dottoressa, la psicologa, le insegnanti, le assistenti legali. Sono donne combattive, testarde,coraggiose. Non ne ha mai viste così.
Le ripetono che ce l’ha fatta, che è al sicuro. Quando la mente e il corpo sono più forti, le avvocatesse si danno da fare per il divorzio.Parlano con la famiglia. Il marito si oppone ma il caso sembra facile:il matrimonio prima dei 16 anni è contro la legge. Ma la legge del giudice è un’altra. Capiscono subito che è un osso duro. Wasir ha conoscenze anche a Kabul. Forse paga o minaccia o, semplicemente,trova solidarietà.«Devi restare con tuo marito anche se dovesse ammazzarti». È questo il verdetto. La sua colpa, la fuga, prevede sei mesi di prigione. Nega il divorzio e la condanna. Ma anche le donne di Hawca sono un osso duro. Ricorrono. Ci sarà un altro giudice. Se il marito è troppo crudele, il divorzio si può ottenere anche senza il suo consenso. Dove comincia il «troppo»? Wasir continua a fare pressioni sulla famiglia. Roshan non esce mai dallo «Shelter». Il suo corpo offeso la difende. I referti medici, stilati al suo arrivo, parlano chiaro. Questa volta il nuovo giudice applica la legge, concede il divorzio. Wasir è arrestato.
La porta si apre ma, di nuovo, Roshan non sa dove andare. Il padre non la vuole più. Una figlia divorziata è una vergogna. Roshan dovrà arrangiarsi. Lo farà ma le mancano i bambini. Ha diritto alla custodia dei figli, finché sono piccoli. Ma deve essere in grado di mantenerli, e, per ora, non può badare nemmeno a se stessa. Per questo rimane alla casa protetta. Tra poco arriveranno anche la madre e le due sorelle. Hanno paura di Wasir. È uscito dal carcere, dopo nemmeno un mese, e continua a minacciare. Ora è qui, Roshan, con le altre ragazze, ha 18 anni adesso. Allo «Shelter»,Roshan impara a leggere e a scrivere, studia i diritti delle donne e i diritti umani, ora sa che la violenza è un delitto, impara ad amarsi, a proteggersi e a fare la sarta. È brava, le è sempre piaciuto

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I cinque volti dell'islam e la chiave per il futuro dell'Egitto


di Massimo Introvigne
07-02-2011

Negli Stati Uniti, dove mi trovo, il presidente Barack Obama - in questi giorni bersaglio preferito della satira per l'impreparazione che nostra di fronte a una vicenda complessa come quella egiziana, e che si traduce in repentini cambi di opinione - si è augurato che alla fine prevalgano i "musulmani moderati".

Vorrei rispondere con un'affermazione che potrà apparire paradossale, ma che passerò subito a spiegare: a rigore, i musulmani moderati non esistono. Percorrendo in lungo e in largo i paesi a maggioranza islamica, dal Marocco alla Malaysia, non ne ho mai incontrato uno. Viceversa, in Italia ho avuto molte difficoltà a incontrare un musulmano che non si dichiarasse “moderato”, tanto che quando m’imbatto in qualcuno che nega apertamente di esserlo mi viene quasi da prenderlo in simpatia. I musulmani che vivono in Italia hanno capito che per vivere tranquilli da noi e farsi invitare ai talk show televisivi bisogna presentarsi comunque come “moderati”, salvo quei rari casi (spesso pagati, però, con un decreto di espulsione) di personaggi disposti a fare audience esibendo al contrario il loro estremismo in TV. Per esempio, un esponente dei Fratelli Musulmani, il movimento da cui trae origine gran parte del fondamentalismo islamico, si presenterà come “moderato” alla televisione in Italia mentre non userebbe mai questo aggettivo in Egitto o in Giordania.

La colpa non è solo dei musulmani. Buona parte della stampa divide i seguaci dell’islam in due sole categorie: “terroristi” e “moderati”. Non senza una certa logica, molti musulmani ne concludono che se non ci si auto-definisce “moderati” si sarà etichettati come “terroristi”, con tutte le conseguenze del caso. Così, decodificando il suo discorso, un esponente dei Fratelli Musulmani potrebbe stare cercando semplicemente d’ingannare l’interlocutore italiano presentandosi come “moderato”. Ma se vuole dire di non essere un terrorista e non avere simpatie per Bin Laden - anche se ne ha per Hamas - non sta, a rigore, mentendo.

Decodificare è la parola chiave, perché “musulmano moderato” è usato alla rinfusa per un buon numero di categorie, creando una notevole confusione. Il fenomeno potenzialmente più fuorviante è la presentazione come “musulmani moderati” d’intellettuali che sono moderati ma non sono musulmani. Qualche volta si citano pensatori e politici rigorosamente marxisti o seguaci convinti della massoneria anti-religiosa di matrice francese, molto affezionati ai loro grembiulini, come "musulmani moderati" solo perché sono nati da genitori musulmani. Sarebbe come presentare Marco Pannella o Emma Bonino al Cairo o ad Algeri come “cattolici moderati” solo perché sono nati in Italia: un errore, detto per inciso, in cui cadono talora musulmani dei Paesi arabi, dove per esempio la Bonino è piuttosto conosciuta.

Certamente ingannarsi è più facile a proposito dell'islam che – almeno nel mondo sunnita – non ha un’organizzazione gerarchica o una “Chiesa” che definisca in modo autorevole chi è dentro o chi è fuori.

Ma qualunque autorevole pensatore musulmano ci direbbe che per essere musulmani bisogna credere obbligatoriamente che Allah sia l’unico Dio, il che presuppone – è una banalità, ma non è poco – essere anzitutto certi che Dio esista, e che Muhammad sia il suo profeta, dunque che il Corano sia “il” Libro - non solo “uno dei libri” - che contiene la pienezza della rivelazione divina.
Poiché l’islam è una religione che comporta un certo formalismo, la maggioranza delle scuole teologiche e giuridiche negherebbe che sia musulmano chi non rispetta almeno i doveri della preghiera quotidiana e del digiuno del Ramadan, e s’insospettirebbe di fronte a chi mangia carne di maiale o beve alcolici, mentre sarebbe più tollerante sulla mancata frequentazione delle moschee, che per la maggioranza dei musulmani – a differenza di quanto accade per i cattolici, che hanno l’obbligo di andare a Messa – non rientra fra i doveri fondamentali del culto.

In America e anche in Italia si cita così fra i “musulmani moderati” Ayaan Hirshi Ali, la compagna del regista assassinato olandese Theo Van Gogh (1957-2004). Avendo pubblicamente dibattuto qualche anno fa a Toronto con la signora Ali – cui non nego, beninteso, tutta la mia solidarietà quando i terroristi cercano di ucciderla –, mi sento di escludere che sia musulmana, dal momento che sostiene senza tatticismi che Dio non esiste e che tutte le religioni – islam, ebraismo, cristianesimo, induismo – sono nocive all’uomo e ancor di più alla donna e al gay, giacché perpetuano un pericoloso sistema patriarcale e una morale sessuale arcaica. La posizione di Ayaan Hirshi Ali, ancorché più diffusa di quanto si creda fra certe élite nate in tre islamiche, è estrema. Molti altri intellettuali nati da genitori islamici non rispettano il digiuno del Ramadan, mangiano carne di maiale, bevono alcolici, non credono che il Corano sia il Libro rivelato da Dio ma nello stesso tempo rivendicano il valore dell’islam come “eredità culturale” vantando magari lo splendore dell’arte islamica o la grandezza dei filosofi musulmani del Medioevo.

Alcuni di questi intellettuali, che incontriamo spesso nei congressi, potranno essere intelligentissimi osservatori della realtà musulmana nazionale e internazionale, bravi giornalisti, consulenti preziosi: ma non sono “musulmani moderati” perché non raggiungono il livello di ortodossia e di ortoprassi minimo per essere definiti “musulmani”.

Alcuni di loro probabilmente risponderebbero – dal momento che sono nati da genitori sunniti (il discorso sarebbe parzialmente diverso per gli sciiti) – che non esiste nessuna autorità che possa negare loro il carattere di musulmani. Obiezione impeccabile dal punto di vista formale. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, il fatto che l’islam (sunnita) sia una religione “orizzontale” (come l’induismo), senza una gerarchia in grado di stabilire in modo autorevole chi è musulmano e chi no, non significa che la parola “musulmano” sia diventata completamente priva di senso. Anche se un talebano dell’ateismo come il filosofo torinese Carlo Augusto Viano ha definito "cripto-cattolici" anche Eugenio Scalfari ed Emma Bonino perché talora parlano del mondo cattolico con un rispetto per lui improprio e inopportuno, non abbiamo bisogno di un pronunciamento del Papa per affermare che né Scalfari né la Bonino sono cattolici. Bastano il buon senso e l’uso normale delle parole.

Così – anche se l’islam non ha un Papa per certificarlo (ma neanche per certificare il contrario) – non sono musulmani coloro che non credono nel carattere divino del Corano e non praticano i doveri fondamentali della fede, che in una religione senza gerarchia e senza teologia condivisa sono più normativi che nel cattolicesimo: mentre ci sono “cattolici non praticanti” è difficile concepire “musulmani non praticanti”, nel senso che non pregano e non digiunano. Certo, ci sono “musulmani che non vanno in moschea” i quali sono musulmani a tutti gli effetti, e spesso sono pure tutt’altro che “moderati”. Ma andare in moschea, come spiegato, non è obbligatorio nell'islam.

Sgombrato il campo dai “musulmani moderati” che non sono musulmani, possiamo occuparci di quelli che sono musulmani ma non sono moderati. La moderazione è, per la verità, una caratteristica difficile da definire se non "per relationem". Se è difficile dire che cos’è un moderato, è relativamente facile dire che qualcuno è più moderato di qualcun altro. Possiamo dire, per esempio, che – se utilizziamo parametri come il rapporto con il terrorismo, con gli Stati Uniti o con Israele – il re dell’Arabia Saudita è più “moderato” dei dirigenti egiziani dei Fratelli Musulmani, e che questi ultimi sono più moderati di Bin Laden.

Tuttavia, se utilizziamo i tre criteri proposti nei suoi viaggi in Turchia e Terrasanta da Benedetto XVI come condizione per il dialogo con l’islam – rifiuto incondizionato del terrorismo (il che implica la condanna di Hamas e non solo quella di Al Qa’ida), rispetto dei diritti umani in genere, compresi quelli delle donne, libertà delle minoranze religiose intesa non solo come libertà di culto ma anche di missione, con conseguente diritto del musulmano che aderisce a questa predicazione di convertirai al cristianesimo –, e chiamiamo “moderato” chi si conforma a questi criteri, non sono “moderati” né il re dell’Arabia Saudita, né i Fratelli Musulmani, né Bin Laden. Ma, mentre giungiamo a questa doverosa conclusione, ci accorgiamo che la griglia che divide un miliardo e mezzo di musulmani in “moderati” e “terroristi” è clamorosamente inadeguata, perché mette dalla stessa parte tagliagole di professione e nemici giurati di Al Qa’ida come il sovrano saudita Abdullah, nonché filo-americani e anti-americani, una distinzione in Medio Oriente e altrove non proprio irrilevante.

Emerge allora l’opportunità di abbandonare la comoda ma ultimamente ingannevole etichetta “moderati”, che in alcuni Paesi a maggioranza islamica del resto molti rifiutano, e di seguire piuttosto i criteri più complessi elaborati dagli studiosi accademici. Anche se talora non aiutano i politici adottando una pletora di terminologie diverse, questi dividono il miliardo e mezzo di musulmani in almeno cinque categorie che chi scrive, con altri, preferisce chiamare ultraprogressisti, progressisti, conservatori, fondamentalisti e ultrafondamentalisti.

Le parole scelte per designare ciascuna categoria variano, ma la sostanza – pure fra studiosi di tendenze diverse – è spesso simile in modo perfino sorprendente. Se il tema è quello del rapporto con la modernità – e con la nozione moderna dei diritti umani – i progressisti sono quei musulmani che accettano la modernità come inevitabile, e gli ultraprogressisti quelli che la abbracciano con entusiasmo, così lentamente corrodendo l’integrità tradizionale della dottrina, pur rimanendo ancora all’interno dell’islam. Diversamente, non sarebbero musulmani, neppure ultraprogressisti, ma intellettuali non credenti di origine islamica.

Queste posizioni non sono inesistenti né nei paesi islamici né nell’emigrazione: ma sono ultra-minoritarie. Quando si presentano alle elezioni – dove ci sono le elezioni – raramente raggiungono percentuali a due cifre. Non si può neppure affermare con certezza che i progressisti siano in aumento. Li si trova soprattutto fra gl’intellettuali, e radunati in due luoghi: nei paesi islamici, nei cimiteri – perché è facile che i governi o gli ultrafondamentalisti facciano loro la pelle –, e in Occidente nelle università e nelle redazioni dei grandi giornali.

La buona notizia è che le idee della maggioranza dei musulmani nel mondo non sono neppure fondamentaliste o ultrafondamentaliste. Si definisce in genere fondamentalista un musulmano che giudica in modo globalmente negativo la modernità e l’accostamento occidentale ai diritti umani - anche se si serve dei suoi prodotti, dalle armi moderne a Internet: chi diffida anche dei prodotti è chiamato, più che fondamentalista, tradizionalista - e ultrafondamentalista chi non esclude la violenza e il terrorismo dalla gamma di strumenti attraverso cui manifesta tale rifiuto. I fondamentalisti non sono, come spesso si dice, una piccola minoranza. Lo sono i terroristi ultra-fondamentalisti e i loro fiancheggiatori diretti - da 50mila a 100mila musulmani: la maggiore massa d’urto nella storia del terrorismo mondiale ma lo 0,01% dell’islam nel suo complesso -, mentre le organizzazioni fondamentaliste possono contare all’incirca su 50 milioni di adepti e simpatizzanti nel mondo (meno del 5% dei musulmani), cui si aggiungono almeno altrettanti “tradizionalisti” che sono vicini ai fondamentalisti per teologia, ma che si occupano più di morale individuale e meno di politica.

Il personaggio che si trova alle origini del movimento fondamentalista è l’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949), fondatore nel 1928 dei Fratelli Musulmani, tuttora la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale. Negli anni 1940 al-Banna vede nella questione della Palestina possibilità di indicare ai suoi seguaci la dimensione sopranazionale della comunità islamica, la umma, trasformando un movimento dal limitato orizzonte egiziano in una realtà musulmana globale. La propaganda in favore della causa palestinese è alla base stessa del successo internazionale del movimento negli anni 1935-1945. Per questo i Fratelli Musulmani concentrano i loro sforzi in Palestina, ed è dalla branca palestinese dei Fratelli Musulmani che, dopo alterne vicende, nascerà nel 1987 Hamas, una realtà che si definisce all’articolo 2 del suo Statuto “una delle branche dei Fratelli Musulmani in Palestina”.

Nel 1954 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970), che pure era stato affiliato in gioventù ai Fratelli Musulmani, li mette fuorilegge, nel quadro del più classico degli scontri fra nazionalisti laicisti e fondamentalisti. A seguito di questo avvenimento si determinano all’interno del movimento fondamentalista due linee: una “neo-tradizionalista”, che propone una via non violenta di “islamizzazione dal basso” della società prima di puntare al potere; e una “radicale”, che punta alla “islamizzazione dall’alto” dopo la conquista del potere tramite mezzi, ove necessario, violenti e non esclude l’opzione terroristica.

In Egitto la via "radicale" è rappresentata dal ricchissimo intellettuale Ayman al-Zawahiri,numero due di Al Qa'ida, quella "neo-tradizionalista" dall'attuale dirigenza dei Fratelli Musulmani, che ha concrete possibilità di prendere il potere nel dopo-Mubarak in quanto rappresenta la forza politica più capillarmente diffusa in Egitto anche attraverso una miriade di organizzazioni professionali e culturali. Questi dirigenti non vanno confusi con i terroristi alla al-Zawahiri. Ma certamente sono fondamentalisti e non sono, in nessun senso del termine, "moderati".

La grande maggioranza dei musulmani però, non è né progressista né fondamentalista. Si situa al centro fra progressisti e fondamentalisti e la parola più adatta per definirla è conservatori: anche se neppure i “conservatori” sono tutti uguali e andrebbero introdotte ulteriori e più complesse distinzioni. I conservatori non sono progressisti: rimangono assai perplessi sulle dichiarazioni occidentali dei diritti umani perché pensano che i diritti dell’uomo mettano in pericolo i diritti sovrani di Dio, non vogliono neanche sentir parlare di accostamento moderno – cioè storico-critico – al Corano, perché temono che faccia la fine della Bibbia nelle mani dell’esegesi universitaria occidentale degli ultimi due secoli, vogliono che alle donne sia permesso - non imposto, ma almeno caldamente consigliato - di portare ovunque il velo.

Su questioni che stanno a cuore agli europei e agli americani come la libertà religiosa delle minoranze nei paesi islamici, i diritti delle donne, la poligamia, l’esistenza dello Stato di Israele non sono pronti ad abbracciare immediatamente il punto di vista occidentale, ma sono disposti a discuterne, il che li differenzia dai fondamentalisti.

Come molti di loro – alcuni dei quali dirigono movimenti che contano milioni, e anche decine di milioni di membri anche se si tratta di gruppi i cui nomi rimangono sconosciuti in Occidente a differenza di realtà più piccole come i Fratelli Musulmani o Al Qa’ida – hanno scritto al Papa dopo il discorso di Ratisbona del 2006, non sono d’accordo con lui quando afferma che le nozioni di Dio e del rapporto ragione-fede che sono prevalse nell’islam lasciano di per sé una porta aperta alla violenza, ma sono disposti a dialogare sul fatto che la violenza e il terrorismo siano effettivamente una piaga aperta nell’islam contemporaneo, non possano essere liquidati semplicemente come non islamici, e chiamino in causa la responsabilità almeno per omissione (come mancata condanna) di élite islamiche che non hanno approfondito per tempo il problema.

I musulmani conservatori non sono come Ayaan Hirshi Ali. Né “come noi”, da nessun punto di vista. Non sono “musulmani moderati” come forse li immagina Obama. Sono anche diversi dai Fratelli Musulmani. Ma sono la grande maggioranza dei musulmani: un miliardo e più di persone verso le quali – come ha mostrato nelle parole e nei fatti Benedetto XVI – la Chiesa cattolica è disponibile ad aprire un dialogo. Precisando, però, che la chiave della porta del dialogo è nelle mani di questi musulmani. Dibattano pure sui loro problemi. Ma il dialogo è possibile solo con chi rispetta i diritti umani, condanna la violenza e il terrorismo – sì, anche contro Israele – e concede nei Paesi musulmani quei diritti delle minoranze religiose che reclama per sé in Occidente.


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Sondaggio: gli arabi di Gerusalemme preferiscono essere cittadini israeliani


Il futuro di Gerusalemme è considerato una delle questioni chiave del contenzioso e dei negoziati israelo-palestinesi, nonché uno degli ostacoli più significativi al raggiungimento di un accordo di pace definitivo fra le parti. Tuttavia, sul versante palestinese coloro che vivono a Gerusalemme pare che per lo più abbiano già fatto la loro scelta in materia, ed è una scelta che la dirigenza dell’Autorità Palestinese a Ramallah potrebbe non apprezzare.

Un sondaggio d’opinione condotto dalla American Pechter Middle East Polls per conto del Council on Foreign Relations insieme a Nabil Kukali, direttore del Palestinian Center for Public Opinion, rivela che se Gerusalemme venisse divisa, nel quadro di un accordo di pace fra Israele e futuro stato palestinese, gli arabi di Gerusalemme est preferirebbero rimanere sotto sovranità israeliana.

Il sondaggio, che comprendeva gli abitanti dei diciannove quartieri prevalentemente arabi di Gerusalemme est, indica anche che la loro opposizione alla prospettiva di una divisione della città è così forte che in maggioranza preferirebbero trasferirsi in una nuova casa all’interno dei confini d’Israele piuttosto che vivere sotto l’autorità di uno stato palestinese. Lo studio mostra inoltre che i palestinesi che vivono a Gerusalemme sono interessati a conservare la loro carta d’identità israeliana e continuare a godere dei servizi sociali e sanitari garantito dallo stato.

Circa il 35% degli intervistati ha affermato che la cittadinanza israeliana è preferibile, contro il 30% che sceglierebbe quella del futuro stato palestinese. Un altro 35% dice di non sapere o di non voler rispondere alla domanda.

E cosa dicono i vicini? Alla domanda la gente del proprio quartiere preferirebbe diventare cittadino palestinese o israeliano, il 31% ritiene che la maggior parte dei propri vicini preferirebbe essere cittadino palestinese, mentre il 39% ritiene che i vicini preferirebbero essere cittadini israeliani. Anche in questo caso c’è un 30% che dice di non sapere o di non voler rispondere.

A quanto risulta dal sondaggio, la maggior parte degli arabi palestinesi che abitano a Gerusalemme est sarebbe pronta a spingersi molto avanti pur di conservare la carta d’identità blu dello stato d’Israele: il 40% dice che sarebbe disposto a traslocare per rimanere cittadino israeliano, nel caso il suo quartiere passasse sotto sovranità palestinese. Per contro, solo il 27% dice che, nel caso contrario in cui il quartiere rimanesse sotto sovranità israeliana, sarebbe disposto a traslocare verso un’area sotto autorità palestinese.

Come motivazione, oltre ai benefici sociali, coloro che prediligono la cittadinanza israeliana menzionano soprattutto la possibilità di muoversi liberamente all’interno di Israele, il reddito più elevato e le migliori opportunità di lavoro. Invece quasi tutti quelli che optano per la cittadinanza palestinese citano ragioni di ordine nazionalistico e patriottico come motivazione principale.

“Suppongo che la dirigenza palestinese non sarà troppo contenta di questi risultati – dice ad Ha’aretz David Pollock, senior fellow del Washington Institute che ha supervisionato e analizzato la ricerca – Ma penso che i risultati siano molto attendibili e solidi. Ho personalmente supervisionato la ricerca a Gerusalemme, lo scorso novembre, e li reputo molto affidabili”. Pollok aggiunge di ritenere che “il principale motivo per cui si presta così poca attenzione all’opinione della gente che vive a Gerusalemme è che molti temono le risposte a queste domande. Anche dal punto di vista di Israele – aggiunge – il messaggio è a due facce.

Da una parte costituisce probabilmente una gradita sorpresa il fatto che un’alta percentuale di palestinesi di Gerusalemme preferisce non dividere la città; dall’altra, tuttavia, circa la metà degli abitanti di Gerusalemme est ritiene di subire una dose significativa di discriminazione. Le autorità israeliane dovrebbero dunque risolversi ad integrare veramente questi 270.000 palestinesi.

Esiste una netta discrepanza – conclude lo studioso – fra ciò che presumono i decisori politici, in Israele e nei territori, circa i palestinesi di Gerusalemme est, e ciò che questi ultimi vogliono effettivamente. Penso che tutti, israeliani, palestinesi e altri arabi, dovrebbero prestare molta attenzione a questi risultati”.

(Da: YnetNews, Haaretz, 13.1.11)

Jerusalem people (Photograph © Giulio Brantl)

E ora i mori vogliono riconquistare la Spagna


di Francesco De Remigis


Tratto da Il Giornale del 24 gennaio 2011

Parte da Cordoba la reconquista dell’islam spagnolo. Cinquecento anni dopo la caduta del regno dei Mori i leader musulmani si proclamano loro discendenti.

Chiedono al governo cittadino di permettere ai nuovi moriscos di pregare nella cattedrale principale, perché era una moschea durante il regno di al Andalus ed oggi è invece patrimonio dell'umanità. Dunque via ai volantinaggi e sit-in per ottenere l’autorizzazione. Qualche settimana fa, i leader della comunità islamica avevano detto che la Spagna avrebbe avuto un’occasione importante nel 2011: riparare il torto delle conversioni forzate del 1502 offrendo la cittadinanza ai discendenti dei moriscos. «Come scuse e come riconoscimento degli errori fatti», si leggeva in una delle manifestazioni di rivendicazione. Perché i mori furono effettivamente espulsi da re Filippo III, nel 1609. Anche per la loro impopolarità, diffusa specialmente a Valencia. Oggi sembra che i governanti si comportino in modo più conciliante con l’islam, nonostante il malcontento dei cittadini cresca di fronte a queste iniziative, associate spesso alle richieste di altre moschee.

Gli imam di Cordoba coltivano alla luce del sole la speranza di ricreare l'antica città. Dicono di volerla trasformare in un luogo di pellegrinaggio per i musulmani di tutta Europa. E ci stanno lavorando. I fondi per il progetto “Córdoba la Mecca d’Occidente” li stanno ottenendo da governi benestanti, come quello degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait, ma anche attraverso organizzazioni musulmane in Marocco ed Egitto. In tutta la Spagna proseguono i progetti di sensibilizzazione alla reconquista. Nella città basca di Bilbao la comunità islamica ha fatto recapitare volantini in spagnolo e in arabo per chiedere ai cittadini il denaro necessario alla costruzione di una moschea di 650 metri quadrati. Ma ne servono molti per coprire i 550 mila euro preventivati. E si rivolgono anche ai musulmani che non intendono impegnarsi: «Siamo stati espulsi come moriscos nel 1609, ma l'eco di al Andalus risuona ancora in tutta la valle dell’Ebro. Siamo tornati per restarci. Insha'Allah (se Allah lo vorrà)», si legge nel sito. A Saragozza, con la sua comunità di 22 mila musulmani, gli imam stanno negoziando l'acquisto di una struttura abbandonata. Un’ex scuola cattolica romana del valore di 3 milioni di euro. La scuola è stata però occupata da un gruppo di ragazzi nel settembre scorso e si sta lavorando ad una soluzione alternativa.

Questo percorso di reislamizzazione è piuttosto facilitato dalle istituzioni, se non favorito. A Barcellona già tre anni fa è stata votata una legge che impegna le amministrazioni a concedere una parte di suolo pubblico per l’edilizia di uso religioso. Dunque diventa sempre più facile realizzare nuovi luoghi di culto. Se ne sono accorti anche i sauditi che, dopo i minareti di Marbella e Fuengirola, stanno finanziando altri progetti sul modello del Centro Islamico di Madrid, una delle più grandi moschee d'Europa pagata 30 milioni nel 1992 dal governo saudita. La capitale catalana ospiterà invece una struttura di 12 mila metri quadrati. L'obiettivo è di aumentare la visibilità dei musulmani per promuovere i «valori comuni tra Islam e l'Europa».