di Francesco Agnoli
Tratto da Il Foglio del 29 ottobre 2009
In questi giorni si conclude a Roma il Sinodo dell’Africa. La cultura contemporanea ama discorrere di questo martoriato continente, ma raramente con profitto.
Influenzati dalla visione marxista della storia, dal mito del buon selvaggio, sviati dalla retorica anti-cristiana e antioccidentale, i più accostano spontaneamente i mali dell’Africa solo a problemi economici e politici, alla tratta degli schiavi gestita dagli europei a partire dal XVI secolo, al colonialismo e allo sfruttamento delle multinazionali.
Dimenticando che se queste sono verità innegabili e tristissime ve ne sono molte altre senza le quali non si capirebbe perché quando in Europa c’erano le università, i comuni, i mulini, l’aratro, gli occhiali ecc. gli africani erano all’età della pietra. La prima: precedente e propedeutica alla tratta europea fu quella islamica, e prima di quella islamica, esisteva, ed esiste tuttora, una tratta tra gli africani stessi, spesso dilaniati, allora come oggi, da ferocissime e continue guerre tribali. La seconda: la superstizione che esiste in quel paese, legata al politeismo e all’animismo, genera una paura costante, impedisce la nascita della scienza, della medicina, e mantiene intere categorie di persone, lebbrosi, autistici, handicappati, albini… in uno stato di prostrazione e di emarginazione totale. La terza: la visione della donna e la poligamia proprie dell’Africa (e non solo), è un’altra causa, morale, del sottosviluppo di un continente che non ha conosciuto, se non marginalmente, il messaggio liberante di Gesù Cristo. Ma non è di questo che vorrei parlare, bensì, per una volta, della mia esperienza personale, della “mia Africa”. Sin da piccino i miei genitori mi parlavano di questo continente e avevano preso un’abitudine che ricordo con piacere: ogni volta che avessi rinunciato a qualcosa, un gelato, un gioco o qualcosa di simile, l’equivalente in denaro sarebbe andato all’Africa. I soldi finivano a un frate francescano morto alcuni anni fa.
Ora al suo posto c’è un altro frate: non parla molto di Gesù, ma di Obama, dell’Africa, dei poveri… Solo che infarcisce sempre tutto di invettive contro l’Europa, i bianchi, le multinazionali, come fossero questi i problemi principali di un uomo di Dio. E poi, soprattutto, ha il volto ben pasciuto, senza la luce negli occhi, che aveva quell’altro. Poi l’Africa l’ho incontrata quando ho conosciuto dei neri che venivano dal Senegal, la terra in cui aveva lavorato mons. Marcel Lefebvre. Ebbi a scoprire che era stato Pio XII a nominare Lefebvre prima vescovo del Senegal e poi delegato apostolico della Santa Sede per tutta l’Africa francofona.
Lessi pure una voluminosa biografia in cui si raccontava come Lefebvre si spendesse per combattere la poligamia, per insegnare il rispetto delle donne soprattutto ai giovani sposi abituati per lo più ad avere anche più donne contemporaneamente. Inoltre Lefebvre credeva importante contrastare le superstizioni paralizzanti. Lefebvre cercava di dissuadere i gabonesi dai riti bwitisti che consistevano nel riunirsi di notte al suono assordante dei tamburi, dopo aver bevuto facocero e vino di palma con maschere mostruose sul volto, come pure dall’usanza di fare sacrifici, per lo più di animali ma talora persino di uomini. Durante la missione Lefebvre divenne amico del dottor Albert Schweitzer: i suoi ragazzi aiutavano il celebre medico protestante nella costruzione di un ospedale, e lui si recava alla missione per curare i malati e per suonare l’harmonium, accompagnando il canto gregoriano. Un piccolo saggio di ecumenismo all’antica, poco verboso, poco sincretista e molto concreto. Più avanti fui assunto dalle suore di Maddalena di Canossa, in una scuola di sartoria: erano gli anni in cui si festeggiava la santificazione di Giuseppina Bakita, la suoretta nera che era stata schiava e che era poi vissuta in Veneto, dove aveva persino imparato il dialetto. Lì vidi all’opera la solidarietà cristiana verso l’Africa: ogni anno ospitavamo ragazze nere per insegnare un mestiere, che avrebbe poi permesso loro, una volta ritornate, di conquistare un ruolo degno di rispetto. Oggi i miei contatti con l’Africa sono affidati a un comboniano che vive in Kenya e che torna ogni tanto in Italia, con il colera o qualche altra strana malattia. Ma riparte subito, perché l’Africa è ormai la sua terra, e l’Italia di oggi lo spaventa. Mi manda sempre le sue lettere dal fronte: a giorni gli invierò “Il Papa ha ragione” (Fede & Cultura) degli amici Puccetti e Cavoni, perché non creda che tutti gli europei sono veramente convinti che carità sia paracadutare pilatescamente, da lontano, quintali di preservativi, come se la procreazione della vita fosse un fenomeno meccanico, da regolare con le giuste guarnizioni, di pura fabbricazione occidentale.