Ormai, anche le pietre ci supplicano. Nella vecchia Europa, di "alto" non vola quasi più niente, neanche gli stracci. Siamo peccatori, noi umani comuni, è vero. Eppure, siamo gente capace di sopportare molto, per qualche segno bello dello spirito, che ci rimescola dentro, e ci fa venir voglia di spiegare ai nostri figli che cosa significa davvero «non di solo pane vive l’uomo». Il pane è necessario, e guadagnarselo è un sacrosanto dovere. Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo.
Non è una faccenda per chierici e intellettuali (non ci sottovalutate, grilli parlanti della scena mediatica), si tratta della nostra vita migliore. Parliamo del tasso di insopportabilità della grande apostasia dell’anima, nella quale ci volete civilizzare a tutti i costi: al quale fa seguito – ne avvertiamo i sintomi, nelle generazioni in arrivo – la grande anestesia degli umani sensi. Dei sensi, sì, perché abbiamo gli occhi pieni di immagini e diventiamo sempre più miopi, siamo completamente avvolti di suoni e non sentiamo più niente. Il profumo delle cose è un vago ricordo: assumiamo sostanze che rendono l’olfatto inservibile.
Toccacciamo tutto, e non riusciamo più ad essere "toccati" da niente: l’intimità della gioia, l’intimità del dolore, nostro e altrui, li conosciamo soltanto come eccipiente dello spot che ci deve vendere qualcosa. Non ne conosciamo più i segreti, i tempi, le emozioni, gli slanci di verità che ci colpiscono al cuore, e gli archi di lunga durata che ci affezionano per sempre. Si oscurano i sensi, e perdiamo l’anima.
La ragione è semplice. I nostri sensi sono fatti per le qualità dello spirito: svuotali metodicamente di questa vitalità, e te li troverai smorti da far pena. Figurati lo spirito. È quella che chiamiamo, semplicemente, sensibilità delle persone umane: intendendo la qualità più alta e preziosa dell’essere umani. L’eccitazione sensoriale, l’esasperazione pulsionale, sono tutt’altra faccenda.
L’umana sensibilità è sotto tiro. Stanata e sbeffeggiata, e appena possibile, chirurgicamente asportata. I suoi segni sono nel mirino: i segni dei tempi, ormai, si leggono al meteo, i segni della vita al microscopio, e quelli della storia in Borsa. Molti di questi segni – i più forti e belli – sono intrecciati con la religione. Non è affatto strano: è in quel grembo che sta la più antica sapienza dei segni dell’anima, dei suoi enigmi più profondi, delle sue contraddizioni più dolorose, delle sue visioni più alte. Non è strano neppure il fatto che la sapienza spirituale dei sensi, ossia dell’umana sensibilità, abbia scritto il suo più singolare esperimento, nella storia a noi conosciuta, proprio qui. Dove l’arte ha intinto per secoli il pennello e il calamo «in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia» (Chagall).
L’ultima catechesi di Benedetto XVI sul «tempo delle cattedrali», chiusa con questa citazione, si è aperta con la menzione del celebre "cronista" dell’anno Mille, Rodolfo il Glabro, che racconta dello strano fervore con cui, in tempi particolarmente avviliti e difficili, i popoli d’Europa hanno fatto a gara nell’investire la loro sensibilità più fine, e la loro arte migliore, nello «scuotersi di dosso i vecchi cenci», investendo le passioni della loro anima a creare i segni più belli proprio nei luoghi del sacro. Come «una veste bianca» di bucato, per loro stessi: da guardare, toccare, odorare, per sentirsi vivi e ricompensati di speranza. Sacrosanta e meritata, in mezzo a mille fatiche per salvare la vita e l’anima: che non importavano niente ai poteri forti di un’epoca – per definizione – "medievale". Investimento fantastico, che ha impedito la fine del mondo. E ci ha lasciato qualcosa che vola ancora alto, anche per noi.
Il "cronista" del terzo millennio sia altrettanto spregiudicato, nel raccontare delle passioni per la bellezza di Dio. Non ci salvano solo l’anima, ci conservano il mondo.
Non è una faccenda per chierici e intellettuali (non ci sottovalutate, grilli parlanti della scena mediatica), si tratta della nostra vita migliore. Parliamo del tasso di insopportabilità della grande apostasia dell’anima, nella quale ci volete civilizzare a tutti i costi: al quale fa seguito – ne avvertiamo i sintomi, nelle generazioni in arrivo – la grande anestesia degli umani sensi. Dei sensi, sì, perché abbiamo gli occhi pieni di immagini e diventiamo sempre più miopi, siamo completamente avvolti di suoni e non sentiamo più niente. Il profumo delle cose è un vago ricordo: assumiamo sostanze che rendono l’olfatto inservibile.
Toccacciamo tutto, e non riusciamo più ad essere "toccati" da niente: l’intimità della gioia, l’intimità del dolore, nostro e altrui, li conosciamo soltanto come eccipiente dello spot che ci deve vendere qualcosa. Non ne conosciamo più i segreti, i tempi, le emozioni, gli slanci di verità che ci colpiscono al cuore, e gli archi di lunga durata che ci affezionano per sempre. Si oscurano i sensi, e perdiamo l’anima.
La ragione è semplice. I nostri sensi sono fatti per le qualità dello spirito: svuotali metodicamente di questa vitalità, e te li troverai smorti da far pena. Figurati lo spirito. È quella che chiamiamo, semplicemente, sensibilità delle persone umane: intendendo la qualità più alta e preziosa dell’essere umani. L’eccitazione sensoriale, l’esasperazione pulsionale, sono tutt’altra faccenda.
L’umana sensibilità è sotto tiro. Stanata e sbeffeggiata, e appena possibile, chirurgicamente asportata. I suoi segni sono nel mirino: i segni dei tempi, ormai, si leggono al meteo, i segni della vita al microscopio, e quelli della storia in Borsa. Molti di questi segni – i più forti e belli – sono intrecciati con la religione. Non è affatto strano: è in quel grembo che sta la più antica sapienza dei segni dell’anima, dei suoi enigmi più profondi, delle sue contraddizioni più dolorose, delle sue visioni più alte. Non è strano neppure il fatto che la sapienza spirituale dei sensi, ossia dell’umana sensibilità, abbia scritto il suo più singolare esperimento, nella storia a noi conosciuta, proprio qui. Dove l’arte ha intinto per secoli il pennello e il calamo «in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia» (Chagall).
L’ultima catechesi di Benedetto XVI sul «tempo delle cattedrali», chiusa con questa citazione, si è aperta con la menzione del celebre "cronista" dell’anno Mille, Rodolfo il Glabro, che racconta dello strano fervore con cui, in tempi particolarmente avviliti e difficili, i popoli d’Europa hanno fatto a gara nell’investire la loro sensibilità più fine, e la loro arte migliore, nello «scuotersi di dosso i vecchi cenci», investendo le passioni della loro anima a creare i segni più belli proprio nei luoghi del sacro. Come «una veste bianca» di bucato, per loro stessi: da guardare, toccare, odorare, per sentirsi vivi e ricompensati di speranza. Sacrosanta e meritata, in mezzo a mille fatiche per salvare la vita e l’anima: che non importavano niente ai poteri forti di un’epoca – per definizione – "medievale". Investimento fantastico, che ha impedito la fine del mondo. E ci ha lasciato qualcosa che vola ancora alto, anche per noi.
Il "cronista" del terzo millennio sia altrettanto spregiudicato, nel raccontare delle passioni per la bellezza di Dio. Non ci salvano solo l’anima, ci conservano il mondo.
Pierangelo Sequeri
Avvenire 19 novembre 2009
Avvenire 19 novembre 2009