DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Sul mondo esausto spunta il fiore della speranza. In Avvento con sant'Ambrogio

di Inos Biffi

Alla "poesia religiosa fondamentale (...) costituita dai Salmi e dai cantici scritturali" si venne presto associando, nella Chiesa primitiva, un'innodia cristiana. "Il primo a tentare la via della lirica religiosa latina, ma con scarso successo", fu Ilario di Poitiers (+367), ma "la gloria di essere padre della innodia dell'Occidente - osserva Giuseppe Del Ton - spetta tutta a sant'Ambrogio". "Di ispirazione popolare e di fattura artistica, accurata nella metrica, la poesia di Ambrogio, piena di eleganza, di gravità romana, maschia nella tenera effusione della pietà cristiana, è grande modello che più di ogni altro avrà imitatori".
Del resto, come scrive Fontaine, "l'innodia ambrosiana passa a giusto titolo per una delle creazioni poetiche più originali e più perfette del cristianesimo latino", che ha saputo fondere "in una sintesi nuova la triplice eredità delle tradizioni inniche giudaica, greca e latina", e produrre come "un microcosmo della vita di fede", canora professione di fede, adatta al popolo, anche per il verso - il dimetro giambico acatalettico - "semplice, fluido, musicale".
Non sono certamente mancati, dopo Ambrogio, altri poeti cristiani. Pensiamo al raffinato Prudenzio - nato nel 348 e morto agli inizi del secolo V - largamente letto e imitato, con i suoi inni - fantasiosi, vivaci e ricchi di simbologia - alcuni dei quali non mancheranno di entrare nella liturgia; oppure a Sedulio (seconda metà del secolo V), "poeta schietto e sensibile"; a Venanzio Fortunato (morto dopo il 600), autore, tra l'altro, del celebre Vexilla regis prodeunt, e ai tanti innologi medievali, tra i quali Tommaso d'Aquino, per non dire di tutta una poesia anonima, entrata nella liturgia romana a cantare i tempi sacri e i misteri delle feste cristiane.
In tutta questa splendida letteratura, Ambrogio rimane l'indubbio maestro e l'ispiratore insuperato nei contenuti e nella forma. E, tuttavia, meritano un'accurata attenzione i vari inni sacri che, oltre a quelli schiettamente ambrosiani, hanno reso e continuano a rendere artistico e melodioso nella Chiesa il canto della fede, e che oggi con uso nuovo e felice sempre più alimentano l'orazione di fedeli, che fanno della Liturgia delle Ore il libro normale della loro pietà.
Consideriamo qui, sul testo latino, l'innologia del tempo d'Avvento, con i suoi tre inni a Vespro, all'Officio delle Letture e alle Lodi. Non si può dire che siano dei capolavori, ma hanno una loro suggestione. A cominciare da quello di Vespro, Conditor alme siderum, di autore ignoto, ritmico, risalente almeno al secolo IX, e in cui si riscontrano accenti poetici del vescovo di Milano.
L'inno si rivolge direttamente a Cristo, invocato come "Creatore degli astri", "Luce eterna dei credenti" e "Redentore di tutti" - e qui pare di sentire l'eco di tre versi santambrosiani: Deus, creator omnium, Lux lucis et fons luminis e Veni, Redemptor gentium - a lui la Chiesa supplichevolmente chiede di essere ascoltata.
E, infatti, il canto si apre con un'esaltazione della clemenza di Cristo che, provando compassione (condolens) per la triste sorte del mondo, lo ha pietosamente sottratto al destino di morte, a cui il suo peccato lo aveva assegnato e gli ha elargito il rimedio del perdono: "Tu che la notte trapunti di stelle / - traduce la Liturgia ambrosiana delle Ore - e di luce celeste orni le menti, / che tutti vuoi salvi, / ascolta chi ti implora!// L'acerba sorte dell'uomo / ha toccato il tuo cuore: / sul mondo sfinito rinasce/ il fiore della speranza". E qui non è difficile convenire che l'elegante versione italiana abbia alquanto ingentilito il testo latino, che, pur con qualche bel verso, non si distingue per eccessiva bellezza.
La redenzione è vista spuntare al consumarsi della storia (vergente mundi vespere): al sopraggiungere - Paolo direbbe - della "pienezza dei tempi" (Galati, 4, 4) o, come ritenevano i Padri, nell'ultima età del mondo.
È allora che il Cristo è apparso, "disposando l'umana natura/ nell'inviolato grembo di una vergine": Maria, così annunziata, come in un preludio, fin dal principio di Avvento. Egli - prosegue il poeta - è "il Signore", al quale "ogni cosa piega il ginocchio (genu curvantur omnia)", e "il cielo e la terra adoranti" - il richiamo è alla Lettera ai Filippesi (2, 19) - ne confessano il dominio. Però già sappiamo: egli è un Signore intimamente toccato dalla miseria del mondo; la sua è una potenza misericordiosa.
Un giorno, lo stesso Signore - venturus iudex saeculi - verrà per il giudizio finale: ma, mentre la nostra vita fluisce ancora nel tempo, noi siamo esposti di continuo alle frecce del Nemico, il Demonio, che non cessa di assalirci. Chiediamo allora fiduciosamente di non essere lasciati in sua balìa, e di essere preservati dalla sua perfidia: "E quando scenderà l'ultima sera, / santo e supremo Giudice, verrai: / oh! non lasciare in quell'ora al Maligno / chi si è affidato a te!".
Così, all'accendersi della memoria della prima venuta del Signore, il pensiero corre al suo secondo e definitivo avvento: l'anima diviene vigile, ma non si lascia vincere dall'angoscia, dal momento che la nostra sorte ha toccato il cuore del Figlio di Dio.


(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2009)

di Inos Biffi

Alla "poesia religiosa fondamentale (...) costituita dai Salmi e dai cantici scritturali" si venne presto associando, nella Chiesa primitiva, un'innodia cristiana. "Il primo a tentare la via della lirica religiosa latina, ma con scarso successo", fu Ilario di Poitiers (+367), ma "la gloria di essere padre della innodia dell'Occidente - osserva Giuseppe Del Ton - spetta tutta a sant'Ambrogio". "Di ispirazione popolare e di fattura artistica, accurata nella metrica, la poesia di Ambrogio, piena di eleganza, di gravità romana, maschia nella tenera effusione della pietà cristiana, è grande modello che più di ogni altro avrà imitatori".
Del resto, come scrive Fontaine, "l'innodia ambrosiana passa a giusto titolo per una delle creazioni poetiche più originali e più perfette del cristianesimo latino", che ha saputo fondere "in una sintesi nuova la triplice eredità delle tradizioni inniche giudaica, greca e latina", e produrre come "un microcosmo della vita di fede", canora professione di fede, adatta al popolo, anche per il verso - il dimetro giambico acatalettico - "semplice, fluido, musicale".
Non sono certamente mancati, dopo Ambrogio, altri poeti cristiani. Pensiamo al raffinato Prudenzio - nato nel 348 e morto agli inizi del secolo V - largamente letto e imitato, con i suoi inni - fantasiosi, vivaci e ricchi di simbologia - alcuni dei quali non mancheranno di entrare nella liturgia; oppure a Sedulio (seconda metà del secolo V), "poeta schietto e sensibile"; a Venanzio Fortunato (morto dopo il 600), autore, tra l'altro, del celebre Vexilla regis prodeunt, e ai tanti innologi medievali, tra i quali Tommaso d'Aquino, per non dire di tutta una poesia anonima, entrata nella liturgia romana a cantare i tempi sacri e i misteri delle feste cristiane.
In tutta questa splendida letteratura, Ambrogio rimane l'indubbio maestro e l'ispiratore insuperato nei contenuti e nella forma. E, tuttavia, meritano un'accurata attenzione i vari inni sacri che, oltre a quelli schiettamente ambrosiani, hanno reso e continuano a rendere artistico e melodioso nella Chiesa il canto della fede, e che oggi con uso nuovo e felice sempre più alimentano l'orazione di fedeli, che fanno della Liturgia delle Ore il libro normale della loro pietà.
Consideriamo qui, sul testo latino, l'innologia del tempo d'Avvento, con i suoi tre inni a Vespro, all'Officio delle Letture e alle Lodi. Non si può dire che siano dei capolavori, ma hanno una loro suggestione. A cominciare da quello di Vespro, Conditor alme siderum, di autore ignoto, ritmico, risalente almeno al secolo IX, e in cui si riscontrano accenti poetici del vescovo di Milano.
L'inno si rivolge direttamente a Cristo, invocato come "Creatore degli astri", "Luce eterna dei credenti" e "Redentore di tutti" - e qui pare di sentire l'eco di tre versi santambrosiani: Deus, creator omnium, Lux lucis et fons luminis e Veni, Redemptor gentium - a lui la Chiesa supplichevolmente chiede di essere ascoltata.
E, infatti, il canto si apre con un'esaltazione della clemenza di Cristo che, provando compassione (condolens) per la triste sorte del mondo, lo ha pietosamente sottratto al destino di morte, a cui il suo peccato lo aveva assegnato e gli ha elargito il rimedio del perdono: "Tu che la notte trapunti di stelle / - traduce la Liturgia ambrosiana delle Ore - e di luce celeste orni le menti, / che tutti vuoi salvi, / ascolta chi ti implora!// L'acerba sorte dell'uomo / ha toccato il tuo cuore: / sul mondo sfinito rinasce/ il fiore della speranza". E qui non è difficile convenire che l'elegante versione italiana abbia alquanto ingentilito il testo latino, che, pur con qualche bel verso, non si distingue per eccessiva bellezza.
La redenzione è vista spuntare al consumarsi della storia (vergente mundi vespere): al sopraggiungere - Paolo direbbe - della "pienezza dei tempi" (Galati, 4, 4) o, come ritenevano i Padri, nell'ultima età del mondo.
È allora che il Cristo è apparso, "disposando l'umana natura/ nell'inviolato grembo di una vergine": Maria, così annunziata, come in un preludio, fin dal principio di Avvento. Egli - prosegue il poeta - è "il Signore", al quale "ogni cosa piega il ginocchio (genu curvantur omnia)", e "il cielo e la terra adoranti" - il richiamo è alla Lettera ai Filippesi (2, 19) - ne confessano il dominio. Però già sappiamo: egli è un Signore intimamente toccato dalla miseria del mondo; la sua è una potenza misericordiosa.
Un giorno, lo stesso Signore - venturus iudex saeculi - verrà per il giudizio finale: ma, mentre la nostra vita fluisce ancora nel tempo, noi siamo esposti di continuo alle frecce del Nemico, il Demonio, che non cessa di assalirci. Chiediamo allora fiduciosamente di non essere lasciati in sua balìa, e di essere preservati dalla sua perfidia: "E quando scenderà l'ultima sera, / santo e supremo Giudice, verrai: / oh! non lasciare in quell'ora al Maligno / chi si è affidato a te!".
Così, all'accendersi della memoria della prima venuta del Signore, il pensiero corre al suo secondo e definitivo avvento: l'anima diviene vigile, ma non si lascia vincere dall'angoscia, dal momento che la nostra sorte ha toccato il cuore del Figlio di Dio.


(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2009)

Una voce chiara risuona nella notte


La Chiesa anche alle Lodi, scioglie in un canto, particolarmente fresco e agile, la sua attesa del Signore.
L'inno, in versi metrici, di autore sconosciuto e risalente almeno al secolo X, incomincia come "uno squillo di gioia" (Lentini): "Chiara una voce dal cielo / risuona nella notte: / splende la luce di Cristo, / fuggano gli incubi e l'ansia".
Già sull'inizio di Avvento si riverbera il fulgore di Cristo che, sorgendo come astro luminoso (ab aethre promicat), dilegua le tenebre e dissipa le angosce e i turbamenti (somnia). Sentiremo dire a Natale: "Il popolo che camminava nelle tenebre, vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse" (Isaia, 9, 2). Mentre Zaccaria saluterà il Messia come un "Sole che sorge dall'alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra di morte" (Luca, 1, 78-79), e Simeone stringerà tra le sue braccia il Salvatore come "luce" di rivelazione alle genti e come "gloria" di Israele (Luca, 2, 32).
Non basta, però, che la luce natalizia brilli all'esterno; bisogna che il suo splendore irraggi e si diffonda nel profondo dell'anima: "Se nelle tenebre umane / un astro nuovo rifulge, / si desti il cuore dal sonno, / non più turbato dal male".
Il Natale è insieme festa di luce e di redenzione. Dietro la natività si profila ed è preluso il sacrificio dell'Agnello, che "toglie il peccato del mondo" (Giovanni, 1, 29): quando celebriamo la natività del Signore, già sappiamo che un legame misterioso unisce Betlemme al Calvario: "Viene l'Agnello di Dio, / prezzo del nostro riscatto: / con fede viva imploriamo / misericordia e perdono".
E ancora lo avvertiva Simeone, che alla presentazione del Bambino al tempio lo proclamava "segno di contraddizione", predicendo a Maria la trafittura della spada e quindi il dolore della Croce (Luca, 2, 34-35).
Anche in quest'inno alle Lodi di Avvento non poteva mancare l'accenno alla fine dei tempi e alla seconda venuta del Cristo giudice: "Quando alla fine dei tempi / Gesù verrà nella gloria, / dal suo tremendo giudizio / ci liberi la grazia".
La nostra vita dovrà passare interamente da un rendiconto finale, quando le nostre azioni saranno tutte valutate con un rigore che non sarà leggero. Mundum horror cinxerit - afferma l'inno - il mondo sarà avvolto e pervaso da brividi e sgomento, senza possibilità di inganni e di sotterfugi.
Per questo il clima spirituale d'avvento è un clima di attesa gioiosa, di serena aspettativa della prossima natività del Salvatore, che sarà proclamata dagli angelo "una grande gioia" (Luca, 2, 10), e, insieme, un clima di meditazione raccolta e trepidante per il giudizio divino, che è sempre imminente e non permette distrazioni sventate. Secondo l'ammonimento di Cristo: "Vigilate, perché non conoscete né il giorno né l'ora" (Matteo, 25, 13).
La Chiesa vive e si muove sempre volta a Oriente e, se ancora oggi è in orazione in antiche basiliche, si trova raffigurato dinanzi, nel catino dell'abside, il Cristo Giudice e Signore che discerne i buoni dai reprobi. Ma spiritualmente questo catino col Signore che giudica e salva, è sempre dinanzi al cristiano, che cammina nel tempo e pensa all'eternità.
La meditazione sul definitivo e giusto suggello di ogni vita non cessa di accompagnarlo.
E, pure, a prevalere sul timore è ancora la fiducia, com'è sempre accesa la speranza che a primeggiare sia sempre la grazia, poiché a giudicarci sarà il Gesù Crocifisso.
"Dal suo tremendo giudizio - abbiamo infatti cantato alla fine dell'inno - ci liberi la grazia (non pro reatu puniat / sed nos pius tunc protegat)". (inos biffi)


(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2009)