DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

26 dicembre Il primo martire

Giuseppe Frangi
Uno dei sette diaconi nominati dagli apostoli. San Luca scrive: «Andava compiendo prodigi e miracoli grandi in mezzo al popolo». Invano i sacerdoti e i dottori cercarono di screditarlo. Solo con la delazione riuscirono a portarlo in giudizio. Il suo discorso finale, non un’autodifesa, ma un’implacabile requisitoria

Di lui si sa che parlava greco, che aveva una sapienza assolutamente fuori dal comune, che si chiamava Stefano, nome ellenico che corrispondeva all’aramaico Kelil. Cioè il maschile di “corona”. Stefano, intorno all’anno 32, in effetti ricevette una corona, quella del martirio: e la Chiesa, festeggiandolo il giorno dopo il Natale, lo ricorda come il primo martire della storia cristiana. Di lui ci parla Luca, in uno dei capitoli più belli degli Atti degli Apostoli, il sesto. Si potrebbe quasi ricostruire la genesi di questo racconto, testimonianza per testimonianza, voce per voce. Luca, anche lui nato lontano dalla Palestina, ad Antiochia, era un fedelissimo di Paolo. Da Paolo stesso, diretto testimone di quel martirio, essendo tra le fila dei carnefici, aveva raccolto i particolari sugli ultimi istanti di Stefano. Da Gamaliele, il dottore della legge, che era stato maestro di Paolo e forse dello stesso Luca, e che aveva assistito al processo davanti al sinedrio, aveva raccolto lo straordinario discorso di Stefano davanti ai suoi accusatori.

Confronti pubblici
Attestata la veridicità di questo racconto di Luca, veniamo alla trama. Stefano compare sulla scena quando, «moltiplicandosi i cristiani», gli apostoli decidono di nominare delle persone che li aiutino, soprattutto nei compiti di assistenza. La protesta si era levata, in particolare, da parte dei greci, i cristiani nati fuori di Palestina, che si sentivano abbandonati, soprattutto nelle loro necessità più concrete. Il testo originale parla di persone addette a servire le mense, e servire in greco si dice diakonèin. Erano i primi diaconi. Sette persone, tutte di nome greco, elencate con precisione e sobrietà da Luca, che ci concede qualche particolare solo a proposito di Stefano («persona piena di fede e di Spirito Santo») e di Nicola (ma in questo caso per una ragione campanilistica: era di Antiochia, cioè era conterraneo di Luca). Poi, nel racconto, c’è spazio solo per Stefano. Che «ricco di grazia e di poteri taumaturgici, andava compiendo prodigi e miracoli grandi in mezzo al popolo». I sacerdoti e i dottori cercavano invano di contrastare il suo carisma, chiamandolo a confronti pubblici, ma uscendone regolarmente sconfitti. Venivano da tutte le sinagoghe di Gerusalemme, compresa quella dei cilici, di cui faceva certamente parte Paolo, allora trentenne zelante, pronto a mettersi in luce come perfetto difensore della legge mosaica. E che quindi non è improbabile immaginare come uno di quelli scesi a pubblico contraddittorio con Stefano.

Davanti al sinedrio
Ma troppa era la sapienza di Stefano, per poterlo screditare davanti al popolo. Così si passò alla strategia della delazione. «Subornarono degli individui che affermassero di averlo udito dire espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio», racconta Luca. Lo rapirono, dunque, e lo portarono davanti al sinedrio. Qui, secondo consuetudine, il sommo sacerdote gli chiede come primo atto di screditarsi dalle accuse. Stefano prende la parola per un lungo discorso, che, come gli esegeti hanno dimostrato, Luca riprende fedelmente da un’altra fonte, che era, con ogni probabilità, quella di Gamaliele. La parlata di Stefano è «infiorata di aramaismi assolutamente non imputabili a Luca e costruito differentemente dalle regole della retorica greca e con locuzioni estranee all’evangelista», scriveva Claudio Zedda, illustre professore della Lateranense, commentando gli Atti. Che annotava, anche, come i riferimenti di Stefano, che parlava greco, alla Bibbia si rifanno alla traduzione in greco dei Settanta (che conta in 75 il parentado di Giacobbe, mentre l’originale ebraico parlava di 15). Ma il discorso del diacono ha davvero poco dell’autodifesa. È piuttosto un’implacabile requisitoria contro le istituzioni che lo avevano chiamato in giudizio e una invettiva violenta contro i suoi giudici. Stefano parla da fedele interprete della Torah, definisce Abramo «nostro padre», sottolinea la sua posizione di straniero («questa terra in cui voi al presente abitate»). Il suo discorso segue una logica molto lineare: vuole dimostrare, storia biblica alla mano, che tutto in Israele era in funzione della venuta di Gesù; rilegge la storia di Mosè come una prefigurazione di quella del Messia. Le tribolazioni e la missione salvatrice del profeta anticipano la passione e la missione redentrice di Gesù. Ma non si ferma qui. Perché Stefano continua il parallelismo in prospettiva ben più provocatoria. Anche Mosè, dice, venne messo in discussione. «Chi ti ha nominato capo e giudice nostro?», gli avevano contestato i suoi connazionali. Tanto da costringerlo alla fuga e all’esilio in «terra di Madian». Tutte citazioni bibliche precise, tranne una, straordinariamente efficace: Stefano disse che Mosè venne «respinto», espressione che nella Bibbia non compare, ma che rafforza il parallelo con il comportamento dei giudei nei confronti di Gesù. Il discorso diventa sempre più veemente, man mano che i versetti trascorrono; decisamente non sono più parole da imputato, quelle che il sinedrio ascoltava. «O teste dure, o pagani d’anima e di sensi (lo dice lui, che un tempo era stato pagano o che da pagani comunque discendeva), vi ostinate contro lo Spirito Santo, né più né meno che i padri vostri. Quale dei profeti non perseguitarono i vostri padri? Uccisero persino coloro che predissero la venuta del Giusto, di cui voi vi siete fatti i traditori e gli assassini».

Stefano attacca, s’appoggia a Isaia per contestare quella specie di idolatria per il Tempio, perché il suo «trono è il cielo». Stefano, spiega Zedda, «è il primo a vedere fatale la rottura con la vecchia religione e a promuovere l’emancipazione della giovane Chiesa dal giudaismo. È un progressista con un’intelligenza del Vangelo troppo lungimirante per tenerlo compresso dentro vecchi otri».

L’apologia di Gesù
Gli accusatori, naturalmente, non possono sopportare il peso delle accuse di Stefano. Lo ascoltavano «pieni di furore e digrignando i denti»; scrive, infatti, con efficacia, Luca. Non gli impediscono di concludere il discorso, anche se le conclusioni sono implicite, con l’apologia dell’opera di Gesù. La situazione a questo punto precipita drammaticamente. Stefano fissò gli occhi al cielo, descrivendo a voce alta la sua visione: i cieli aperti e il Figlio dell’uomo alla destra di Dio. Un grande urlo coprì quella visione, che alle orecchie di farisei e sadducei suonava come una bestemmia. Si precipitarono su di lui «come un sol uomo». Lo portarono appena fuori dalla città, alla porta di Damasco, all’esterno del terzo bastione nord. I testimoni, come usanza, affidarono i loro mantelli a un giovane «di nome Saulo». E tirarono la prima pietra. Per Stefano, «squassato dal turbinoso crepitar dei sassi», come dice la Liturgia, era la fine. «Signore Gesù, accogli l’anima mia» e: «Signore Gesù, non imputare loro questo peccato», furono le sue ultime parole. Poi, dice Luca, «si addormentò».

Addormentarsi è la parola che aveva usato per primo Gesù, quando gli dissero che Lazzaro era morto: sull’onda di questa certezza della provvisorietà della morte, i cristiani scrivevano sugli epitaffi: «Obdormivit» e avrebbero chiamato cimiteri, cioè “dormitori”, i luoghi in cui mettevano i defunti. Dormiva anche Stefano, dunque, primo martire della storia cristiana, cioè prediletto da Dio. Perché, come avrebbe scritto Cipriano di Cartagine due secoli dopo, «il martirio non dipende da te, ma dipende dalla elezione di Dio». di Giuseppe Frangi