
DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Presto beati i due missionari francescani di origine polacca trucidati nel 1991 dal gruppo guerrigliero peruviano

Dal Messico all’Iraq fino alla Siria: ecco i martiri del presente di cui non si parla
In Messico la Chiesa è sempre più nel mirino dei narcos i quali, attraverso i loro squadroni della morte, sequestrano ogni giorno decine di sacerdoti, missionari e religiosi per poi bruciarli vivi e far sparire i corpi carbonizzati.
Il martirio che spiazza il cinema
L’ultimo film di Beauvois porta nelle sale la drammatica vicenda dei monaci rapiti e assassinati a Tibhirine, sull’Atlante algerino, negli anni Novanta. Una pellicola che ha già commosso la laica e polemica Francia
Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente si è appena concluso e il documento redatto dai padri sinodali contiene un messaggio chiarissimo: obiettivo primario deve essere la rieducazione dei cristiani. Non è sufficiente la mera presenza fisica, bisogna vivere la fede, ogni giorno e a qualunque costo, essendo anche disposti al sacrificio del martirio. Ciò non significa brandire il Vangelo nell’ansia di fare proselitismo (cosa peraltro estranea al metodo cattolico di evangelizzazione). Ma implica innanzitutto un’educazione a saper rendere ragione a se stessi e agli altri, dice san Paolo, «rendere ragione della speranza che è in noi».
Un esempio per comprendere il concetto espresso nel Sinodo potrebbe essere ben rappresentato dagli otto padri cistercensi francesi che vissero negli anni Novanta all’interno del monastero di Tibhirine, in Algeria. La loro storia è stata raccontata prima in un libro, Più forti dell’odio – Frère Christian de Chergè e gli altri monaci di Tibhirine (Ed. Qiqajon, Comunità di Bose), successivamente nel film Uomini di Dio diretto da Xavier Beauvois. La pellicola, presentata lo scorso maggio all’ultimo Festival di Cannes, ha entusiasmato la critica e si è aggiudicata il Gran Premio della Giuria.
Ora, se è vero che la manifestazione francese ama premiare opere che non incontrano il favore del pubblico e che al contrario alimentano polemiche feroci, è anche vero però che questo film è stato in grado di rovesciare tutti gli stereotipi che in prima battuta gli si potevano attribuire. Uscito in sala in Francia lo scorso 8 settembre, ha sbancato il botteghino: finora più di due milioni di spettatori lo hanno visto. In Italia è uscito lo scorso 22 ottobre in 50 copie distribuite da Lucky Red, che spera di riuscire ad avvicinare il risultato francese. Un successo che non si aspettava nessuno, né il distributore, né il regista e il cast artistico, talmente subissati dagli impegni, da riuscire a promuovere l’opera solo in patria.
Il film è ambientato negli anni Novanta. Sulle montagne del Maghreb c’è un monastero abitato da otto monaci cistercensi, il cui priore è Frère Christian (interpretato da Lambert Wilson). I padri vivono in assoluta armonia con la gente del luogo, popolazione interamente islamica, che sostengono e aiutano nelle attività quotidiane. Padre Luc, di professione medico, fornisce da sempre assistenza gratuita ai malati, curandoli e regalando loro i medicinali di cui necessitano. Lavora tutto il giorno, nonostante gli acciacchi dell’età e una forte asma, arrivando a visitare fino a 150 malati al giorno. L’armonia tra autoctoni e religiosi è tangibile, i padri non tentano in alcun modo di fare proselitismo: partecipano con gioia alle feste del villaggio quando non sono impegnati nella preghiera, costante durante l’arco della giornata, che accostano al canto per entrare in comunione con «il Soffio della Vita».
Intorno a loro, la situazione non è facile. Al governo c’è il Fronte Islamico di Salvezza, ma cinque giorni prima del secondo turno elettorale, l’esercito con un colpo di Stato annulla le elezioni e lo dissolve. Da quel momento si assiste a un’escalation di violenza inaudita. Un gruppo di operai croati cristiani viene sgozzato da un commando di terroristi. L’esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che potrebbero essere il prossimo obiettivo, ma questi rifiutano in quanto uomini di pace. Alla vigilia di Natale, nel convento irrompono alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro degli operai e chiedono di parlare con il «Papa del luogo». Il priore li affronta fermamente e riesce a allontanarli, ma resta la minaccia concreta di un ritorno.
L’incontro ha provato i monaci, dentro i quali si innesta un dubbio fortissimo: restare o andare via? Come da tradizione cistercense, le decisioni vanno prese attraverso una votazione, ma gli animi sono troppo agitati e il voto viene rimandato. Quando Padre Luc presta soccorso a un terrorista salvandogli la vita, tutto precipita. L’esercito algerino preme perché i monaci rientrino in Francia ma i confratelli consapevoli che la loro vita e la loro vocazione sono tra quella gente, decidono di rimanere. Frère Christian scrive un testamento spirituale in cui prevede l’avvicinarsi della morte, convinto però fermamente che non avverrà per mano del popolo algerino: «L’Algeria e l’islam – scrive – per me sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima». Pochi mesi dopo, un commando prende in ostaggio sette dei monaci presenti nel monastero.
L’Ultima Cena prima del martirio
La storia s’interrompe qui, anche se sappiamo che i monaci furono sgozzati e le loro teste vennero ritrovate molto tempo dopo. Il mistero attorno a queste morti è ancora vivo: chi li ha uccisi? La Gia (Gruppo islamico armato) che ha rivendicato l’attentato o l’esercito algerino per cui i monaci erano diventati una presenza scomoda? I dubbi sono molti, ma il film non suggerisce alcuna lettura. Il regista preferisce concentrarsi sulla vita dei monaci, la macchina da presa è accanto a loro in ogni momento, e ci mostra l’assoluta semplicità della loro vita, la devozione a Dio e i dubbi che in alcuni momenti li pervadono. La quotidianità è scandita dal lavoro e dalla preghiera, dallo studio e dalla riflessione, dalla volontà di rimanere fedeli al disegno che Dio ha scelto per loro: continuare a condurre un’umile esistenza in quel monastero che è la loro casa, pregando, lavorando e offrendo conforto a un popolo povero e oppresso.
La morte rappresenta solo un passaggio successivo e necessario ma, se all’inizio è vissuta con angoscia, come per qualsiasi essere umano, alla fine del film diviene consapevolezza, così come afferma Padre Luc: «Io non ho paura della morte, sono un uomo libero». Come Cristo e gli apostoli consumano l’Ultima Cena, così i monaci, consci dell’avvicinarsi della fine si concedono un pasto frugale e un bicchiere di vino sulle note del Lago dei cigni, attendendo con serenità il compiersi della volontà di Dio.
Esce oggi il film sui Martiri di Tibhirine. A quando la loro canonizzazione?
Il trailer ufficiale del film in italiano:
di Lucetta Scaraffia
L'ultimo numero dell'"Economist" presenta i risultati di un sondaggio fatto presso i lettori a proposito della religione. È stato loro chiesto, infatti, se ritenevano la religione forza "per il bene" oppure nociva. Le ragioni delle parti sono state difese sull'autorevole rivista britannica da due giornalisti, ma Mark Oppenheimer, che è intervenuto per la religione, non è stato molto convincente. Ha portato tre motivazioni a favore, di cui una decisamente originale e difficilmente sostenibile: "La religione diverte". Non c'è quindi da stupirsi se la netta maggioranza dei lettori - precisamente il 75 per cento - ha votato contro.
Sono certa che se agli stessi lettori fosse stato mostrato il film di Xavier Beauvois Uomini di Dio - più bello è il titolo originale, Des hommes et des Dieux - avrebbero espresso un'opinione diversa.
Questo film - che in Francia ha ottenuto un grande successo, fino a raggiungere i due milioni e mezzo di spettatori - racconta infatti in modo semplice e reale, senza risvolti agiografici, la vita e la morte dei monaci cistercensi di Tibhirine, sulle montagne del Maghreb.
Una vita semplice, dedicata ai lavori manuali, che garantiscono la loro sopravvivenza, allo studio e, naturalmente, per gran parte della giornata riservata alla preghiera. I monaci non hanno la missione di evangelizzare, ma solo quella di portare una testimonianza d'amore e di preghiera. La loro vita quotidiana è quindi semplice: essi vogliono essere solamente "un segno sulla montagna" e non un'opposizione, un segno di fratellanza con un popolo in gran parte musulmano.
Si scontrano però con lo scoppio dell'ostilità fra un Governo, che viene definito corrotto, e una ribellione fondamentalista. I monaci sanno a cosa andranno incontro, e umanamente hanno paura. Alcuni - i più giovani - pensano di andarsene, come sollecita il Governo. Ma il superiore chiede loro un tempo di riflessione, e questo periodo servirà per arrivare, tutti, alla stessa decisione: restare e affrontare il martirio.
Il percorso che li porta alla scelta è ben narrato, per tutti simile e per ognuno diverso, e mirabilmente rappresentato in un'ultima cena che li vede riuniti e durante la quale - sorseggiando un bicchiere di vino che già simboleggia il sacrificio - ciascuno di loro rifletterà nel volto la paura per ciò che lo aspetta e la serenità della decisione presa.
La caratteristica più bella del film è che mostra i monaci come uomini comuni: con le debolezze e le paure degli uomini comuni, esseri umani come noi, fragili, che nel corso di giornate sempre più cupe attingono coraggio dalla preghiera. È infatti nel canto dei salmi e nelle orazioni che trovano la risposta che cercano: non possono lasciare la popolazione del villaggio con la quale hanno vissuto fino ad allora. Non nel momento del bisogno.
Il loro messaggio sarà chiaro: per amore dei musulmani del Maghreb accettano di andare incontro al martirio, dimostrando così che il conflitto fra le religioni, come ogni conflitto, si può annullare con un atto di amore.
In questo film abbiamo la religione cattiva - cioè la distorsione fondamentalista che ripugna agli stessi credenti musulmani - e quella buona messe a confronto, in una narrazione che sa farci vedere quanta luce può irradiare una scelta di amore totale. Anche i lettori dell'"Economist" avrebbero avuto molte difficoltà a ignorarlo.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
Esce nelle sale italiane "Des hommes et des Dieux" di Xavier Beauvois
Otto uomini
Il film francese candidato agli Oscar
di Emilio Ranzato
Otto monaci francesi dell'ordine cistercense vivono in un monastero fra le montagne del Maghreb algerino. In perfetta armonia con la comunità musulmana locale, condividono le gioie e le difficoltà di chi li circonda. L'equilibrio spontaneo della regione si incrina quando un gruppo di fondamentalisti uccide alcuni lavoratori stranieri. Ci vuole poco perché l'attenzione dei terroristi si concentri sul monastero, malgrado chi lo abita svolga solo funzioni di preghiera e di meditazione, e non di proselitismo. Quando gli otto religiosi entrano in contatto con il gruppo armato, lo fanno con la stessa naturalezza che contraddistingue i loro rapporti quotidiani, prestando anche soccorso a un ferito. La loro vita sembra dunque proseguire come sempre, tanto che decidono di rifiutare la proposta di una scorta da parte dell'esercito. Se le semplici abitudini del monastero rimangono immutate, la tensione nella regione continua però a crescere e alcuni cittadini cominciano a scappare. A questo punto i monaci sono costretti a interrogarsi sull'opportunità di abbandonare il luogo. Il priore Christian - un sorprendente Lambert Wilson, conosciuto dal grande pubblico per aver partecipato in tutt'altre vesti alla saga di Matrix - propone di rimanere per proseguire la missione cui sono stati preposti, ma in un primo tempo il timore generale sembra avere la meglio. La decisione sarà graduale e sofferta, eppure alla fine quasi unanime.
Otto monaci ma soprattutto otto uomini. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie qualità e i propri limiti. Li vediamo assorbiti nella loro devozione, ma anche allegri o litigiosi. In tutta la loro umanità, insomma. Tanto che quando il pericolo si affaccerà alle porte del monastero, la prima cosa che ci si chiederà è come faranno a farvi fronte. Presi uno per uno, forse nemmeno loro saprebbero dare una risposta. Tutti insieme, però, la troveranno.
Pur ispirandosi in modo esplicito alla tragedia di Tibhirine del 1996, quando dei monaci francesi furono vittime del Gia (il Gruppo Islamico Armato) in un'Algeria attraversata da profonde divisioni, quello firmato da Xavier Beauvois vuole essere solo in superficie un film di cronaca storica. Anzi, la bellezza di Uomini di Dio risiede soprattutto nel modo in cui si passa sottilmente e in modo impercettibile da uno sguardo naturalistico e quasi documentario - assecondato da una direzione degli attori tutt'altro che dispotica - a una dimensione sempre più metaforica. Gli stessi terroristi vengono mostrati in modo diretto solo in un paio di occasioni, e in atteggiamenti non dichiaratamente bellicosi, salvo poi essere relegati sempre più sullo sfondo, fino a diventare quasi la trasfigurazione del tormento interiore dei protagonisti.
Per quest'idea di adombrare una violenza invisibile su un paesaggio tanto in armonia da farla apparire ancora più insensata e irreale, a tratti il film ricorda La sottile linea rossa di Terrence Malick. Così come per la volontà di conciliare le istanze ideologiche - riconoscibili soprattutto nel sottolineare come un terreno comune fra fedeli di religioni diverse sia assolutamente possibile - con quelle simboliche: mentre ci viene raccontato che la tensione attorno a loro cresce in maniera esponenziale, vediamo gli otto monaci sempre più soli, alle prese con una indecisione che si porta dietro interrogativi pratici ma anche filosofici, e che attengono alla natura stessa del loro ruolo nel mondo: la libertà è di chi riesce a fuggire o di chi rimane saldamente ancorato alla propria missione? È giusto aderire al proprio ruolo fino alle estreme conseguenze?
L'intero film è d'altronde disseminato di sottili corrispondenze che compensano un tessuto narrativo e drammaturgico volutamente ellittico e avaro di dettagli realistici, che alla lunga sarebbero risultati senz'altro invadenti. I paesaggi su cui la cinepresa indugia sempre un attimo in più di ciò che è consueto, lasciandoli respirare di vita propria anche quando i personaggi hanno lasciato la scena, è infatti strettamente legata alla vita dei monaci cistercensi, votata, fra l'altro, alla contemplazione della natura. Così come l'unanimità della loro decisione finale fa da pendant alle numerose scene in cui li vediamo impegnati nella preghiera corale. E proprio la scena cruciale e bellissima della presa di coscienza di ciò che è giusto fare ci viene raccontata senza una riga di dialogo, sulle note commoventi ma anche orgogliose del Lago dei cigni di Cajkovskij, come il silenzio e il canto liturgico accompagnano la vita dei monaci. E se alla fine qualcuno disattenderà la promessa fatta reciprocamente, ciò non farà che conferire ulteriore umanità al loro sacrificio, raccontato dal regista e dal suo sceneggiatore Etienne Comar senza cadere mai nella trappola del facile eroismo. "La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno" si legge d'altronde nell'umanissimo e per questo ancora più toccante testamento spirituale del vero frère Christian.
È forse per questo pudore che a tratti il film dà l'impressione di osare meno di quanto potrebbe, ma le ultime due o tre sequenze riescono a dare al risultato complessivo il colpo d'ala che ci si aspettava, con una soluzione enigmatica - ricordiamo che non è stata mai fatta pienamente luce sulla fine dei monaci di Tibhirine - ma anche poeticamente rasserenante.
Dopo aver vinto il gran premio della giuria all'ultimo festival di Cannes, il film è stato selezionato come candidato per la Francia ai prossimi premi Oscar.
(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)
Uomini di Dio, la potenza della fede
Il regista francese Xavier Beauvois ripercorre gli ultimi mesi di vita dei padri cistercensi assassinati negli anni 90 in Algeria

Siamo negli anni 90. Un monastero in cima alle montagne del Maghreb è abitato da otto padri cistercensi di origine francese. La comunità che abita il villaggio ai loro piedi è di fede islamica, ma ciò non impedisce ai monaci di avere un rapporto di armonia e pacifica convivenza con loro e di aiutarli nella vita quotidiana come fa padre Luc, che in qualità di medico visita ogni giorno centinaia di pazienti, fornendo loro cure e medicinali gratuitamente.
Tutto cambia quando viene assassinato un gruppo di lavoratori stranieri: l'esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che la rifiutano. L'atmosfera è tesa e culmina alla vigilia di Natale, quando irrompono nel convento alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro e minacciano il priore Christian. I padri non sanno cosa fare, se andare via, o restare in quella che considerano la loro casa. Sono attanagliati da dubbi, crisi di fede, paura di morire e desiderio di rimanere. La situazione precipita quando padre Luc presta soccorso a un terrorista, evitandogli la morte. Da quel momento l'autorità algerina preme perché ritornino in Francia ma i monaci sono convinti di rimanere nel loro monastero, firmando di fatto la loro condanna a morte. In pochi probabilmente ricorderanno questa storia, anche perché per anni il governo algerino cercò di insabbiare l'assassinio dei frati e i nomi dei loro carnefici. I terroristi rivendicarono la strage, ma anni dopo il dubbio che sia stato lo stesso esercito algerino a volersi sbarazzare dei monaci è fortissimo.
Il film però non si ferma alla mera ricostruzione storica, indagando invece con ardore il sentimento religioso e l'amore verso Dio che avvolge i monaci. Otto uomini come noi ma allo stesso tempo straordinari, perché pervasi da una fede che li governa e li assiste, li protegge e li guida nelle scelte, una fede che diviene messaggio di pace e dimostra che la fraternità tra cristiani e islamici non è solo possibile, ma auspicabile.
Martiri coreani, “esempio perfetto ” dell’amore a Cristo e ai fratelli
I vescovi coreani spingono i fedeli a conoscere la vita dei 103 martiri, canonizzati da Giovanni Paolo II e morti durante le persecuzioni anti-cristiane che hanno scosso il Paese per più di un secolo. Il loro sangue “ha fatto sbocciare i semi piantati da Dio in Corea”.

INDIA Suor Rani Maria, martire della fede: il suo assassino si è convertito
A quindici anni dal martirio della religiosa, uccisa per il suo impegno a favore dei poveri e per la sua fede cristiana, il sacerdote che ha curato l’inchiesta diocesana racconta ad AsiaNews la vita e le opere della madre. La conversione del suo assassino, un contadino indù, dovuta alla sua intercessione.

Udaya Nagar (AsiaNews) – Suor Rani Maria, che ha subito quindici anni fa il martirio per la fede con cui ha sempre aiutato i più poveri fra i poveri, “ci stimola ad andare avanti. Il suo esempio di vita e la sua morte sono uno stimolo per noi che siamo rimasti e che, oggi, abbiamo un potente intercessore presso il Signore”.
Lo dice ad AsiaNews p. Cherian, portavoce della diocesi di Indore e direttore della società locale per i servizi sociali, che ha accompagnato la religiosa nella sua opera umanitaria e che ha curato la raccolta dei documenti per la beatificazione. L’inchiesta diocesana sulla religiosa è stata completata due anni fa. I risultati sono oggi allo studio del Vaticano. Il sacerdote presenta oggi la sua testimonianza sulla vita della religiosa.
Suor Rani Maria ha sacrificato la propria vita lavorando per il popolo e per il Signore. Come Gesù è morta sulla croce, mentre portava avanti con fede e abnegazione il suo lavoro in mezzo alle persone. La vita e la morte di suor Rani Maria sono divenute un’ispirazione e una speranza per noi: ci spingono a continuare a fare del bene, lavorare e servire anche a costo della vita. Essere simili a Cristo, in modo da guadagnare delle grazie.
I sacerdoti della diocesi di Indore hanno oggi un intercessore potente presso il Padre, e questo’anno sacerdotale sarà un anno pieno di grazia. Ho sofferto profondamente per il suo omicidio, ma oggi siamo tutti sicuri che la nostra sorella sia viva in cielo, da dove intercede per noi e ci spinge a lavorare per il Regno della giustizia, la pace e la verità.
In vita, suor Rani Maria ha lavorato senza sosta per aiutare gli abitanti dei villaggi – per la maggior parte poveri tribali – a stabilire dei gruppi di auto-aiuto attraverso l'ottenimento di credito finanziario e altre forme di sostegno economico. Ha fatto in modo che venissero concessi ai villaggi, in modo da migliorarne il welfare e le possibilità di guadagno. Ha lavorato senza tregua per aiutare questa parte della società, spesso oppressa.
Nel contempo, si è sempre assicurata che questi movimenti fossero di natura popolare, senza influenze esterne: ha preferito agire da umile catalizzatrice della gente. In quest’ottica ha rafforzato i panchayats (i consigli di villaggio) spingendoli a considerare e a essere consapevoli dei loro diritti e delle loro responsabilità, offrendo assistenza tramite programmi di sviluppo pianificati e sistematici.
Nel dicembre del 1994, preparando le elezioni di questi consigli, si scatenò un litigio fra una famiglia cattolica della sotto-casta dei barela e un candidato della destra nazionalista. La polizia arrestò alcuni dei cattolici, e suor Rani Maria fece di tutto per ottenerne il rilascio. Per questo, la destra indù ha iniziato a guardarla con molta ostilità: avevano la falsa idea che la religiosa istigasse la popolazione contro di loro.
Lasciati da soli, infatti, i tribali non sarebbero mai stati in grado di fare una battaglia politica o persino legale. Il 25 febbraio del 1995, un contadino ingaggiato per uccidere suor Rani Maria è salito nell’autobus dove la madre era seduta e l’ha accoltellata. La gente ha iniziato a gridare e il bus si è fermato, ma il contadino ha trascinato la religiosa a terra e ha continuato a colpirla fino alla morte.
Dopo dieci anni di galera, quest’uomo è stato rilasciato: il suo cuore si è completamente trasformato. Ha espresso profondo dolore e rimorso per quanto ha fatto e si è convertito, parlando in pubblico di Cristo e del Suo perdono. L’uomo ha detto chiaramente che la sua conversione è avvenuta tramite suor Rani Maria.
La madre ha continuato ad aiutarci, specialmente nei momenti di crisi: la sua vita e la sua morte ci incoraggiano ad andare avanti. So che non siamo poi così forti, ma il Signore ci concede forza e benedizione tramite la costante intercessione di suor Rani.
I primi martiri in Laos saranno presto beati

Martiri in difesa di tutti. Trent’anni fa Oscar Romero, oggi in Pakistan. Il compito dei poteri terreni. Di Giuliano Ferrara
di San Salvador, Oscar
Romero, testimone della possibilità
della carità come alternativa alla violenza
e alla sopraffazione di cacicchi
e rivoluzionari, un altro martire, un lavoratore
pachistano, è morto dopo sofferenze
terribili, arso vivo, soltanto
perché non ha rinunciato alla propria
fede. In tempi lontani e in continenti
diversi, il prelato in vista e il fedele
sconosciuto raccontano la stessa storia,
già scritta nel Vangelo. Vi perseguiteranno
a causa mia, diceva Gesù
ai suoi seguaci. Era la promessa di
una testimonianza ardua, che avrebbe
però cambiato il mondo. Il martirio
dei cristiani, che molti considerano
un fenomeno storicamente collocato
nei secoli antichi, prosegue anche oggi
e anzi si estende, soprattutto in Asia
e Africa islamiche, dopo la lunga fase
delle persecuzioni messe in atto dai
regimi autoritari e comunisti.
La chiesa risponde con la preghiera,
l’imitazione dei santi, la protesta intrisa
di mitezza, a volte la prudenza,
che non devono però essere confuse
con sintomi di cedimento e di debolezza.
Invece i poteri terreni, cui compete
il dovere di garantire i diritti della
persona umana – a cominciare dalla
libertà di pensiero e di religione –
non trovano, e forse non cercano con
sufficiente determinazione, il modo
per fronteggiare questa recrudescenza
di persecuzioni. Il fanatismo islamico
o induista viene tollerato per piccole o
meno piccole convenienze politiche,
così come trent’anni fa molti considerarono
in America latina un “male minore”
le dittature sanguinarie che arrivarono
a far assassinare un vescovo
sull’altare mentre diceva messa. I martiri
sono i miti che, secondo l’annuncio
delle beatitudini, erediteranno la terra.
Hanno già cambiato il mondo innestando
la concezione giudeo-cristiana
dell’intangibilità della persona sul
tronco solido del logos greco-romano.
Oggi indicano a tutti anche l’esigenza
di un altro cambiamento, la fine della
tolleranza per i regimi violenti e gli assassini
fanatici.
© Copyright Il Foglio 25 marzo 2010
Il martirio dei cristiani d'Oriente nell'indifferenza generale. A colloquio con il cardinale Leonardo Sandri
di Nicola Gori I cristiani in Medio Oriente stanno subendo discriminazioni, con conseguenze anche sulla ripresa sociale ed economica di quelle terre. La violenza nei confronti di chi crede nel Vangelo mortifica l'azione pastorale della Chiesa e provoca condizioni di martirio. Tutto quanto avviene nell'indifferenza generalizzata dell'Occidente. Non si possono lasciare i cristiani di quelle terre soli e in balia del terrore e dei soprusi. La verità dei fatti deve essere riconosciuta e non taciuta. È la denuncia rivolta dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, all'opinione pubblica mondiale e ai responsabili delle nazioni in quest'intervista al nostro giornale.
Nell'imminenza della Pasqua il pensiero torna alla Terra Santa e alle innumerevoli difficoltà e speranze dei suoi abitanti. Per quali motivi?
La Pasqua ha la capacità di condurre i discepoli di Cristo, appartenenti alle diverse Chiese e comunità ecclesiali, senza alcuna distinzione, ma anche tanti cercatori di Dio, sulle orme storiche di Gesù di Nazaret. Il cuore rivive le sue parole e i segni che egli ha compiuto, soprattutto la sua immolazione sulla croce, e si rafforza la speranza nella sua risurrezione. Ci si sente spiritualmente a Gerusalemme. Si avverte la decisiva importanza del carico di profezia, di consolazione e di contraddizione di cui è portatrice quella santa Città. Si risveglia la responsabilità di condividere la missione insita nel suo stesso nome di "città della pace".
Nella recente lettera per la colletta pro Terra Sancta, la Congregazione ha lanciato un appello ai vescovi di tutta la Chiesa perché sostenga quella comunità. Qual è il senso di questo appello?La lettera che la Congregazione per le Chiese Orientali, ogni anno, in occasione della Quaresima invia a tutti i vescovi cattolici esprime la coscienza che gli eventi e i luoghi della salvezza cristiana contengono un "mistero di vita e di pace", che è un patrimonio destinato alla Chiesa universale e all'umanità. Ma può essere percepito solo grazie alla vitalità delle comunità cristiane operanti in quella Terra, le quali hanno bisogno dell'aiuto spirituale e materiale di tutta la Chiesa. Esse sono chiamate a confermare l'annuncio della morte e della risurrezione di Cristo, e a tenere viva l'attesa del suo ritorno glorioso, proprio da quei "luoghi singolari" che la fede e la storia bimillenaria del cristianesimo ci hanno reso familiari.
C'è un giorno specifico in cui è chiesta la preghiera e la solidarietà materiale per i cristiani della terra di Gesù?
I Pontefici hanno più volte e fortemente raccomandato la preghiera e la carità per la Terra Santa, dando al riguardo disposizioni ufficiali. Per attestare l'importanza di tale intenzione hanno scelto il Venerdì Santo, la cui portata simbolica è ben comprensibile: è il giorno del silenzio di Dio, che assicura il suo amore misericordioso e indefettibile per la Chiesa e l'umanità. In quel giorno i cristiani di Terra Santa, partecipi anche oggi del martirio del loro Signore e delle sofferenze conosciute dalla Chiesa in tutta la sua storia, sono nel cuore del Papa che, insieme a tutti i cattolici, li affida al cuore trafitto del Crocifisso. Evidentemente, la colletta materiale, che è necessaria all'azione pastorale, educativa e sociale della comunità cattolica può avvenire nelle occasioni e nei momenti più opportuni a livello locale. Ma è un sostegno che non deve mancare: le opere ecclesiali sono di rilevante portata e ne beneficiano tutti gli abitanti di Terra Santa. Le Chiese del mondo intero continuano a dare prova della loro generosità. Desidero ringraziarle, ricordando a ciascuna la riconoscenza espressa costantemente dal Pontefice a nome delle stesse Chiese Orientali cattoliche. Il mio grazie si estende ai sacerdoti e ai seminaristi, ai quali vorrei affidare a motivo dell'Anno sacerdotale in corso un sensibile impegno a favore dei seminari e delle istituzioni formative alla vita consacrata.
A chi è destinata concretamente la colletta pro Terra Sancta?
All'intera comunità cattolica, secondo norme stabilite dalla Santa Sede. L'animazione dell'iniziativa e il suo coordinamento sono affidati alla Congregazione per le Chiese Orientali, la quale per mandato del Papa si impegna affinché la carità della Chiesa universale giunga in modo ordinato, equo e sicuro a tutti. Intendo parlare della Custodia francescana di Terra Santa, ivi operante con circa trecento frati; della diocesi patriarcale di Gerusalemme dei Latini, della Chiesa melchita, che è tra le più numerose, delle altre Chiese Orientali cattoliche presenti, anche se talora modeste numericamente, e animate da sincero spirito ecumenico e interreligioso per edificare la pace e l'unità anticipate dal Signore sulla croce, delle innumerevoli e benemerite famiglie religiose maschili e femminili. La Terra Santa in senso ecclesiale comprende oltre a Israele e Palestina, la Giordania, raggiunge la Siria, il Libano, l'Egitto, le isole di Cipro e di Rodi. Ma il pensiero va anche all'Iraq, dove si trova l'antica Ur, che Abramo lasciò obbedendo al comando di Dio. Sono Paesi che rivestono un ruolo del tutto speciale per l'area circostante, oltre che per la comunità cristiana mondiale.
Lei ha parlato di "martirio" riferendosi alla situazione dei cristiani di Terra Santa. Può dirci una parola sulle loro sofferenze?
L'evangelica immagine del "seme che muore per portare frutto" esalta il sacrificio di Cristo e descrive la costante condizione di quanti egli ha chiamato a seguirlo portando la croce. Dobbiamo riconoscere con dolore e denunciare con la mite forza del Vangelo le discriminazioni che in Medio Oriente subiscono i cristiani. Esse hanno conosciuto livelli di massima preoccupazione, specie in Iraq. Penso a un sacerdote siro-cattolico di Mossul, che recentemente ha perso il padre e due fratelli in uno stesso atto di violenza. Il 24 marzo di ogni anno la Chiesa prega per i missionari martiri del nostro tempo. È una intenzione che condividiamo ben volentieri. Ma sono veramente innumerevoli più in generale i martiri cristiani, cattolici e fratelli e sorelle di altre Chiese cristiane, che diventano missionari autentici di Cristo con la loro fedeltà al battesimo fino alla suprema testimonianza. Con il loro sacrificio, con il sangue versato, anticipano il canto escatologico dell'unità dei cristiani che si compirà attorno all'Agnello immolato e glorificato. Siamo tornati alla multitudo ingens, attestata dall'Apocalisse e ripresa dall'antica liturgia per inneggiare ai martiri che fecondarono col loro sangue gli inizi del cristianesimo a Roma. Tanti Paesi del mondo, soprattutto dell'Occidente, che è cristiano almeno storicamente, sembrano assistere alla loro immolazione in una tristissima indifferenza.
Quali le conseguenze?
Le vittime innocenti, prima di tutto. Poi la condizione di insicurezza. E il blocco di ogni tentativo di ripresa sociale ed economica per una vasta area, che priva soprattutto le giovani generazioni del presente e del futuro. L'instabilità si diffonde in strati sempre più ampi, poiché si riflette sulla consistente diaspora orientale in ogni continente. La violenza mortifica l'azione pastorale della Chiesa, l'impegno nelle numerose scuole, nei centri di assistenza sanitaria e caritativa, aperti sempre alla popolazione di altre religioni. Tutto si riassume nel flusso inarrestabile di emigranti che dall'Oriente vanno in ogni parte del mondo. Ciò colpisce fortemente le più antiche Chiese, che rischiano di estinguersi là dove sono nate. È una tremenda ingiustizia verso l'Oriente che vede vanificarsi un'essenziale componente della sua identità multireligiosa. È da temere che saranno sia l'Oriente sia la comunità internazionale a fare i conti con la storia se perderanno quella garanzia di speranza e di pace che accompagna la presenza cristiana. Se essa svanisce, si favorisce il pericolo sempre latente dell'integralismo religioso, con possibili derive violente e persino terroristiche.
E quali potrebbero essere i rimedi?
Dopo i tristi eventi che ho ricordato, dal Libano è partita una campagna di preghiera e di sensibilizzazione pubblica per la pace e la giustizia, animata dal nuovo Patriarca siro-cattolico, alla quale hanno subito aderito il rappresentante pontificio e i capi delle Chiese cristiane. Sono lieto che il Libano confermi la vocazione che Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi gli hanno riconosciuto, quella di essere un "messaggio" di convivenza antica e nuova tra cittadini di diverse religioni. Accompagno con fervido incoraggiamento ogni tentativo in questa direzione. L'opinione pubblica e i responsabili delle nazioni del mondo, persi talora in problemi molto più secondari, dovranno richiamare a tutti, sulla verità dei fatti, l'urgenza del rispetto dei diritti fondamentali, e tra questi quello di una reale libertà religiosa. Essa è come la cartina di tornasole di ogni altra libertà, perché difende l'intimo della persona, la coscienza, dalla quale scaturisce l'irrinunciabile riferimento a Dio. Le Chiese cristiane del mondo animate da sensibilità ecumenica e interreligiosa dovranno fare la loro parte nella denuncia e nella solidarietà perché il più possibile i cristiani rimangano in Oriente, come è loro diritto e dovere, ma anche accogliendoli quando sono proprio costretti a cercare un'altra patria.
Quale apporto potrà offrire lo speciale Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si svolgerà a Roma dal 10 al 24 ottobre prossimi?
Il Pontefice lo ha annunciato ai patriarchi e arcivescovi maggiori cattolici nello storico incontro a Castel Gandolfo del 19 settembre scorso. È la prima assemblea che coinvolge direttamente la realtà mediorientale e potrà essere nel suo insieme un'alta parola di pace in nome di Cristo. Non sarebbe un regalo straordinario per i popoli della terra sapere che, anche grazie all'iniziativa sinodale, la comunità delle nazioni intende riaffermare la volontà di elaborare un reale piano di pace e intende seguirlo con tenacia e determinazione per assicurarla finalmente a tutti? Non sarà senz'altro disattesa l'opportunità di pace che offrirà il Sinodo delle Chiese orientali e latine già vivacemente impegnate nella sua preparazione sulla base dei Lineamenta, un documento puntuale, elaborato sotto il coordinamento della segreteria generale del Sinodo dei vescovi, che tocca gli aspetti fondamentali della vita dei cristiani mediorientali. È crescente l'interesse da parte dell'intera comunità cattolica. Sono certo che riuscirà a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sul problema migratorio, ad esempio, per ribadire l'assoluta urgenza di una stabile pace su basi di diritto riconosciute a livello internazionale e che a tutti, anche ai cristiani, offrano garanzie essenziali ma sufficienti a una dignitosa permanenza in Oriente. Il titolo scelto dal Papa costituisce, tuttavia, il vero obiettivo sinodale: comunione e testimonianza. Sono doni anch'essi che vengono da Dio. Vanno chiesti con la preghiera insistente. E accolti col proposito sincero dei singoli cristiani. Comunione e testimonianza nascono nel cuore di ogni battezzato coerente e poi si espandono irresistibilmente alla comunità ecclesiale, a quella delle religioni e a tutte le nazioni. È questo il mio augurio pasquale per i cristiani d'Oriente, soprattutto per quelli che sono nella prova. A loro nome ringrazio Benedetto xvi per il dono del prossimo Sinodo. Da esso trarranno forza e conforto per le loro tribolazioni, che sembrano interminabili, ma possono costituire il terreno buono dove il seme della fede cristiana patisce e muore per portare molto frutto.
(©L'Osservatore Romano - 24 marzo 2010)
PAKISTAN Cristiani pakistani rifiutano di convertirsi: marito bruciato vivo, moglie stuprata dalla polizia
La coppia lavorava alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano a Rawalpindi. I tre figli – dai 7 ai 12 anni – costretti con la forza ad assistere alle violenze. L’uomo è ricoverato con ustioni sull’80% del corpo. I sanitari: “non sopravviverà”. Organizzazioni cristiane hanno indetto marce di protesta.
Tra asini e pesci il tormento dei martiri
In Apologia 30,1-4 l’accusa di magia contro Apuleio assume connotati particolari ed è legata alla ricerca di pesci (Apuleio dedicò ad essi anche un trattato, D e piscibus). Ora, non solo l’accusa di magia era usata contro i cristiani, ma anche il simbolo del pesce era tipicamente cristiano, come è attestato da Tertulliano ( De baptismo
1) e, nella seconda metà del II secolo, dall’epitaffio di Abercio (come ho studiato su Aevum nel 2000). È significativo che Apuleio si affretti a negare ogni associazione tra pesci e magia, mentre tale associazione era presente nell’accusa rivoltagli. «Pisces – inquit – quaeris». Nolo negare. Sed, oro te, qui pisces quaerit, magus est?...
An soli pisces habent aliquid occultum aliis, sed magis cognitum?
Hoc si scis quid sit, magus es profecto, sin nescis, confitearis necesse est id te accusare quod nescis» .
«'Vai alla ricerca di pesci', dice. Non voglio negarlo, ma dimmi un po’, chi va alla ricerca di pesci è per forza un mago? Sono solo i pesci che hanno qualcosa che agli altri rimane oscuro, eppure è più noto (ai maghi)? Se sai che cos’è, allora significa che sei certamente un mago; se invece non lo sai, devi per forza confessare che formuli un’accusa in base a quello che non sai». Apuleio potrebbe poi avere avuto in mente i tormenti spettacolari di alcune donne cristiane messe a morte in quanto tali, e potrebbe rifletterli nel suo romanzo. La spettacolarità delle torture di cui furono vittime i cristiani sono confermate da Tacito per il 64 e che le martiri cristiane fossero travestite come eroine mitologiche durante le esecuzioni, e in particolare in vesti di Dirce, è attestato da Clemente Romano nella I Lettera ai Corinzi.
Proprio per l’Africa settentrionale verso la fine del II secolo simili tormenti spettacolari sono testimoniati dalla Passio Perpetuae,
ove l’eroina, martire a Cartagine, ottiene per sé e per gli altri martiri di non essere travestita e di non morire in una rappresentazione spettacolare.
Ora, Apuleio allude a un tormento spettacolare di questo tipo, anche se ovviamente in contesto comico, in
Metamorfosi VI 27: «Memorandi spectaculi scaenam, non tauro, sed asino dependentem Dircen aniculam» , «Scena di uno spettacolo memorabile: una vecchietta in vesti di Dirce sospesa non a un toro, ma a un asino». Inoltre, l’associazione di questo tipo di tormenti spettacolari e teatrali, storicamente applicati ai cristiani, con un asino, alla luce della già ricordata accusa anticristiana di onolatria viva al tempo di Apuleio, suggerisce un possibile riferimento ai cristiani. In tal caso, il tormento sarebbe unito alla derisione. Poco dopo, nel medesimo episodio, la menzione di feras, cruces
ed ignes (belve, croci e fuoco) come modi possibili di uccidere un prigioniero potrebbero nuovamente riecheggiare i tormenti usati contro i membri di questa superstitio illicita
quando erano condannati. Apuleio era un medio-platonico, iniziato a culti pagani, e un sacerdote pagano. Aveva studiato a Cartagine e ad Atene, dove aveva appreso le arti liberali e la filosofia, e in Grecia era stato iniziato a molti culti. Fu anche a Roma e, dopo la conclusione favorevole del suo processo di magia, intorno al 160 fu investito di un importante sacerdozio.
Di certo non stimava i cristiani e sembra avere recepito molte accuse correnti contro di loro, anche se precisamente ai suoi giorni il medioplatonismo fu adottato dai primi filosofi cristiani, da Giustino a Clemente, da Bardesane a Origene.
Infatti, tra i medio- e i neo-platonici si trovano tanto filosofi pagani ostili al cristianesimo, quali Celso, Porfirio o Giuliano, quanto i migliori rappresentanti della filosofia patristica, da Origene a san Gregorio di Nissa allo Pseudo Dionigi. Si può parlare di un platonismo pagano e di uno cristiano, che cominciarono a differenziarsi precisamente al tempo di Apuleio: il nostro filosofo apparteneva certamente al primo.
© Copyright Avvenire 2 marzo 2010