DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Libertà religiosa e persecuzione dei cristiani



di Marco Nozzoli, 23 marzo 2015
Nel mondo il diritto alla libertà religiosa è sempre più spesso negato e le persecuzioni dei cristiani sono in forte aumento.
Lo ha confermato Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)che si occupa di assistenza ai cristiani perseguitat e di difesa del diritto alla libertà religiosa.
Nell’edizioni 2014 del loro rapporto, che copre il periodo che va da ottobre 2012 a giugno 2014, sono stati analizzati 196 paesi. In 116 sono stati registrati crescenti attacchi alla libertà religiosa. Al rapporto è allegato inoltre un Focus che contiene una graduatoria dei paesi presi in considerazione realizzata valutando sia gli episodi di violenza a sfondo religioso, sia altri indicatori quali il diritto alla conversione, a praticare la fede, a costruire luoghi di culto e a ricevere un’istruzione religiosa. Nella mappa geografica disegnata dall’Acs, sono 20 i Paesi identificati come luoghi di elevato grado di violazione della libertà religiosa, dove cioè la libertà religiosa non esiste.
 
In base all’analisi suddivisa per macro aree, l’Asia conferma il triste primato di continente in cui la libertà religiosa è maggiormente violata.In Africa, inoltre, si rileva negli ultimi anni un significativo peggioramento dell’intolleranza collegata al radicalismo fondamentalista ma anche l’Europa occidentale e le Americhe sono caratterizzati da un non pieno rispetto del diritto alla libertà religiosa.
Le conclusioni del Rapporto ACS confermano, come sempre più spesso evidenziato dai media internazionali, che è in atto una crescente ondata di violenza, mirata a marginalizzare le minoranze religiose, e che, tra queste, quella cristiana rimane la più colpita nel mondo. Il Medio Oriente tra l’affermazione dello Stato islamico e il crescente fenomeno delle migrazioni di massa: ai cristiani - si legge nel rapporto - è stato chiesto di scegliere tra la conversione all’islam e l’esilio. E così, quasi nessuno dei circa 30mila cristiani presenti in città, è rimasto e - per la prima volta in 1.600 anni - a Mosul non è stata celebrata la Messa domenicale. Le minoranze religiose mediorientali vanno riducendosi già da molti anni. Ad esempio, il numero di cristiani in Siria è passato da 1,75 milioni dei primi mesi del 2011, agli appena 1,2 milioni nell’estate del 2014, con un calo di oltre il 30% in tre anni. In Iraq, la diminuzione è stata ancora più evidente. 
Come abbiano già detto qui, sul sito persecution.org è possibile monitorare quotidianamente, nazione per nazione, i casi di persecuzione dei cristiani. La mappa che segue riporta la situazione globale riferita al mese di marzo 2015, indicando tipologia (uccisioni, violenze, discriminazioni, arresti, assalti alle chiese) e localizzazione degli eventi.
Un altro dato di particolare rilievo è contenuto nel sito opendoorsusa.org: in media ogni mese 322 cristiani vengono uccisi nel mondo a causa della loro fede, 214 fra chiese ed edifici di proprietà di cristiani sono distrutti o danneggiati e 722 sono gli atti di violenza perpetrati nei loro confronti.
Un rapporto molto completo sulla persecuzione dei cristiani nel mondo è il World Watch List che elenca 50 paesi secondo l’intensità della persecuzione che i cristiani affrontano per il fatto di confessare e praticare attivamente la loro fede. E’ compilato da analisti di Porte Aperte specialisti della persecuzione, ricercatori ed esperti sul campo operativo e indipendenti all’interno dei vari paesi.
Vi proponiamo una sintesi dei cambiamenti avvenuti nel rapporto 2015 rispetto a quella dell’anno precedente, ricordandovi che il periodo coperto va dal 1 Novembre 2013 al 31 Ottobre 2014.
  • Decisamente cresce la persecuzione dei cristiani nel mondo, persino in posti dove non era così marcata nel recente passato, come in alcune regioni dell’Asia, dell’America Latina e specialmente dell’Africa Subsahariana. Si conferma anche quest’anno l’estremismo islamico come fonte principale (non l’unica) di tale persecuzione, ma assume nuove e inattese forme, come i califfati dell’IS in Siria e Iraq e di Boko Haram in Nigeria. Entrano nella top 10 altri 3 stati africani, Sudan, Eritrea e Nigeria, segno che l’Africa è sempre uno scenario centrale della persecuzione anticristiana.
  • Appare chiaro che l’estremismo islamico abbia due centri di gravità globali: uno nel Medio Oriente arabo e l’altro nell’Africa subsahariana, e persino in stati a maggioranza cristiana i credenti stanno sperimentando un livello senza precedenti di esclusione, discriminazione e violenza. Ma l’estremismo islamico non è l’unica fonte di persecuzione: crescono infatti i problemi legati ai cristiani che vivono sotto regimi dittatoriali (seconda fonte) ma anche la criminalità organizzata.
  • A proposito di dittatori, la Corea del Nord è ancora al °1 posto per il 13° anno consecutivo. Le stime sui cristiani imprigionati negli campi di prigionia nordcoreani non cambiano: tra i 50.000 e i 70.000.
  • Impressiona l’imponente fenomeno dei rifugiati/profughi in fuga da paesi come Siria, Iraq, ma anche Nigeria e altri paesi africani. Tutto ciò sta inevitabilmente cambiando anche la geografia cristiana dei paesi. Le new entry della WWList di quest’anno sono Messico, Turchia e Azerbaigian.
  • Nel 2014, i paesi dove i cristiani hanno sperimentato maggiore violenza sono stati in questo ordine: Nigeria, Iraq, Siria, Repubblica Centrafricana, Sudan, Pakistan, Egitto, Myanmar, Messico e Kenya. Secondo le nostre stime, 4.344 cristiani sono stati uccisi per ragioni strettamente collegate alla loro fede, mentre almeno 1.062 chiese sono state attaccate per la stessa ragione.


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Presto beati i due missionari francescani di origine polacca trucidati nel 1991 dal gruppo guerrigliero peruviano




I due candidati, entrambi di nazionalità polacca
I due candidati, entrambi di nazionalità polacca

Accusati d’ingannare il popolo con le loro bibbie e i loro rosari. Una condanna a morte annunciata ed eseguita dietro al muro del piccolo cimitero di Pariacoto, una cittadina sulle alture peruviane – le Black Mountains – nella diocesi di Chimbote. Padre Michal Tomaszek e padre Zbigniew Strzalkowski, due sacerdoti francescani di origine polacca, furono fucilati dai guerriglieri di “Sendero Luminoso” il 9 agosto 1991. La loro morte venne ricordata pochi giorni dopo da Giovanni Paolo II a Czestochowa, in occasione della Giornata mondiale della gioventù: “Ci sono nuovi martiri in Perù” disse in un momento del raduno. Dopo ventitré anni il processo per la loro beatificazione è entrato nella fase decisiva. Lo ha annunciato Luis Armando Bambarén Gastelumendi, vescovo emerito di Chimbote ed ex presidente della Conferenza episcopale peruviana. Bambarén, gesuita come papa Francesco, ha fatto sapere ai propri concittadini che presto avranno “i primi beati martiri tra i santi del Perù”.
La storia dei due missionari è raccontata nel libro “Hermanos martires” (Frati martiri) pubblicato nel 2011, l’anno in cui la positio è arrivata in Vaticano. L’autore, il giornalista italiano Alberto Friso, preconizza un giorno non troppo lontano in cui si riconoscerà che i due frati morirono in odium fidei. Appartenevano alla Congregazione dei conventuali della provincia di Sant’Antonio a Cracovia. Completati gli studi nel seminario maggiore della loro città partirono per una missione nelle Ande peruviane assieme al sacerdote Jaroslaw Wysoczanski, con l’obiettivo di fondare il primo convento del loro ordine e portare la fede, la speranza e la carità tra i poveri di Pariacoto, uno dei maggiori centri della produzione mondiale di coca destinata a essere trasformata in cocaina. Un commercio straordinariamente florido che garantiva ingenti profitti per i trafficanti quanto magri salari per i coltivatori.
Un pomeriggio d’estate, apparentemente come tanti, alcuni abitanti del posto cominciarono a incidere strani graffiti sui muri degli edifici nella piazza, segnale di un imminente attacco dei terroristi. I frati non cessarono dalle loro attività quotidiane: il coro, il catechismo, etc. Frate Zbigniew curò come sempre anche l’esposizione del Santissimo Sacramento, in attesa dell’arrivo di padre Miguel – così Michal si faceva chiamare per facilità – per la messa del giorno. Alcuni incappucciati arrivarono all’improvviso, li catturarono entrambi (solo loro due perché Zbigniew riuscì a convincere a non toccare i novizi) e li fecero salire su un furgone con le mani legate. Lungo il tragitto il processo sommario: colpevoli perché il loro aiuto ai poveri frenava la rabbia del popolo e rallentava la rivoluzione. Sul banco degli imputati era la carità, “contestata e attaccata come sistema di conservazione dello status quo”, con le parole di Benedetto XVI nella Deus Caritas. Inoltre, l’annuncio del Vangelo della pace scoraggiava i giovani dall’aderire ai gruppi terroristici. Poco dopo, vicino al piccolo cimitero, l’esecuzione assieme ai sindaci di Pariacoto e Pueblo Viejo. Sulla via del ritorno uccisero a colpi di fucile anche il sindaco di Cochabamba.
Autori del massacro furono alcuni uomini di “Sendero Luminoso”, l’organizzazione armata d’ispirazione maoista che agli inizi degli anni ’90 era molto attiva nella regione di Pariacoto, anche grazie ai finanziamenti derivanti dal narcotraffico.
Gli sforzi congiunti dell’allora vescovo di Chimbote e della Conferenza episcopale peruviana hanno dapprima portato all’apertura della fase diocesana, nel giugno del 1995, del processo per la beatificazione dei due missionari francescani. L’iter locale si è concluso nel 2011. La fase romana dovrebbe essere più rapida. Papa Francesco beatificherà presto i due frati: questo il cuore della missiva che mons. Bambarén Gastelumendi ha inviato da Roma alla sua ex diocesi.

http://www.terredamerica.com/

Dal Messico all’Iraq fino alla Siria: ecco i martiri del presente di cui non si parla



In Messico la Chiesa è sempre più nel mirino dei narcos i quali, attraverso i loro squadroni della morte, sequestrano ogni giorno decine di sacerdoti, missionari e religiosi per poi bruciarli vivi e far sparire i corpi carbonizzati.
Una triste realtà che sta venendo alla luce e che dimostra come, ancora oggi, in ogni parte del mondo i cristiani continuino ad essere i perseguitati per eccellenza. Ovunque, nei paesi islamici, come in quelli induisti, o nell’America Latina i seguaci di Cristo continuano a pagare con la vita la loro fedeltà al Vangelo. In Messico i sacerdoti ormai da anni denunciano apertamente le violenze dei narcos nei confronti delle popolazioni, soprattutto quelle più povere, costrette a subire le prepotenze e i ricatti della criminalità organizzata, spesso con l’immobilismo o peggio la connivenza delle autorità locali.
Chi si oppone al giogo criminale paga con la vita; i bambini vengono strappati dalle loro famiglie per essere allevati alla criminalità e diventare in seguito manovalanza del narcotraffico. Chi non accetta le regole viene rapito e fatto sparire. Ogni tanto vengono scoperte fosse comuni piene di corpi carbonizzati, i corpi delle persone che hanno osato opporsi alla regole del crimine. Spesso si tratta di sacerdoti, in larga parte missionari comboniani impegnati in prima linea nella lotta alla mafia messicana e nella difesa dei diritti dei più deboli. Massacri che avvengono nel silenzio più assordante della comunità internazionale, quella stessa comunità che quando si tratta di difendere i cristiani, sembra dimenticarsi del rispetto dei diritti umani.
Si parla ogni giorno delle atrocità dell’Isis, ma chissà perché l’attenzione è rivolta sempre verso tutti tranne che verso i cristiani dell’Iraq e della Siria contro i quali è in corso un autentico genocidio senza precedenti, messo in atto con il chiaro intento di eliminare la presenza del cristianesimo nel Medio Oriente. Interi villaggi cristiani sono stati rasi al suolo, uomini e bambini massacrati senza pietà, donne, anche bambine, ripetutamente stuprate. In altre regioni invece ai cristiani è stato imposto l’obbligo della conversione, pena il pagamento di una tassa per il soggiorno sul territorio islamico, e poco importa se in quella terra i cristiani ci hanno vissuto per secoli. Questo ciò che avviene nel Medio Oriente.
Laddove i cristiani non sono perseguitati per motivi etnici e religiosi, vengono massacrati perché il loro impegno al servizio dei poveri dà fastidio ai potenti; la fedeltà al Vangelo è considerata un ostacolo agli interessi della criminalità, come avviene appunto in Messico dove l’aiuto che i sacerdoti forniscono alle popolazioni vessate e umiliate dalle prepotenze, suscita l’avversione e l’odio dei narcos, che senza pietà sequestrano i missionari e li uccidono nei modi più atroci.
Purtroppo i mass media amano parlare della Chiesa soltanto con riferimento al Vaticano, facendo passare il messaggio sbagliato che la Chiesa sia fatta esclusivamente di porpora e palazzi; invece la Chiesa non è soltanto Roma, il Papa, i Sinodi e le cupole; non esiste soltanto il vertice, ma c’è anche e soprattutto quella Chiesa cosiddetta “in uscita” che tanto piace a Papa Francesco e che, in verità esiste da sempre e non è un’invenzione contemporanea; è la Chiesa cosiddetta di frontiera formata da sacerdoti, suore, missionari religiosi e laici che agiscono nei contesti più difficili testimoniando il Vangelo con la loro azione e la loro vita. Una missione che sempre più spesso sfocia nel martirio.
Già, i martiri! Se ne parla sempre come se si trattasse di figure del passato, icone da esporre nelle camere da letto e non ci si rende conto di come il martirio sia invece per il cristiano la testimonianza più frequente dell’attualità. Peccato che i martiri cristiani facciano notizia soltanto per i media cattolici e non siano considerati invece di rilevante interesse per la grande stampa, o almeno non con la stessa evidenza riservata alle ultime strabilianti rivelazioni su Gesù e la Maddalena.

Intelligo

Il martirio che spiazza il cinema

L’ultimo film di Beauvois porta nelle sale la drammatica vicenda dei monaci rapiti e assassinati a Tibhirine, sull’Atlante algerino, negli anni Novanta. Una pellicola che ha già commosso la laica e polemica Francia

Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente si è appena concluso e il documento redatto dai padri sinodali contiene un messaggio chiarissimo: obiettivo primario deve essere la rieducazione dei cristiani. Non è sufficiente la mera presenza fisica, bisogna vivere la fede, ogni giorno e a qualunque costo, essendo anche disposti al sacrificio del martirio. Ciò non significa brandire il Vangelo nell’ansia di fare proselitismo (cosa peraltro estranea al metodo cattolico di evangelizzazione). Ma implica innanzitutto un’educazione a saper rendere ragione a se stessi e agli altri, dice san Paolo, «rendere ragione della speranza che è in noi».
Un esempio per comprendere il concetto espresso nel Sinodo potrebbe essere ben rappresentato dagli otto padri cistercensi francesi che vissero negli anni Novanta all’interno del monastero di Tibhirine, in Algeria. La loro storia è stata raccontata prima in un libro, Più forti dell’odio – Frère Christian de Chergè e gli altri monaci di Tibhirine (Ed. Qiqajon, Comunità di Bose), successivamente nel film Uomini di Dio diretto da Xavier Beauvois. La pellicola, presentata lo scorso maggio all’ultimo Festival di Cannes, ha entusiasmato la critica e si è aggiudicata il Gran Premio della Giuria.
Ora, se è vero che la manifestazione francese ama premiare opere che non incontrano il favore del pubblico e che al contrario alimentano polemiche feroci, è anche vero però che questo film è stato in grado di rovesciare tutti gli stereotipi che in prima battuta gli si potevano attribuire. Uscito in sala in Francia lo scorso 8 settembre, ha sbancato il botteghino: finora più di due milioni di spettatori lo hanno visto. In Italia è uscito lo scorso 22 ottobre in 50 copie distribuite da Lucky Red, che spera di riuscire ad avvicinare il risultato francese. Un successo che non si aspettava nessuno, né il distributore, né il regista e il cast artistico, talmente subissati dagli impegni, da riuscire a promuovere l’opera solo in patria.
Il film è ambientato negli anni Novanta. Sulle montagne del Maghreb c’è un monastero abitato da otto monaci cistercensi, il cui priore è Frère Christian (interpretato da Lambert Wilson). I padri vivono in assoluta armonia con la gente del luogo, popolazione interamente islamica, che sostengono e aiutano nelle attività quotidiane. Padre Luc, di professione medico, fornisce da sempre assistenza gratuita ai malati, curandoli e regalando loro i medicinali di cui necessitano. Lavora tutto il giorno, nonostante gli acciacchi dell’età e una forte asma, arrivando a visitare fino a 150 malati al giorno. L’armonia tra autoctoni e religiosi è tangibile, i padri non tentano in alcun modo di fare proselitismo: partecipano con gioia alle feste del villaggio quando non sono impegnati nella preghiera, costante durante l’arco della giornata, che accostano al canto per entrare in comunione con «il Soffio della Vita».
Intorno a loro, la situazione non è facile. Al governo c’è il Fronte Islamico di Salvezza, ma cinque giorni prima del secondo turno elettorale, l’esercito con un colpo di Stato annulla le elezioni e lo dissolve. Da quel momento si assiste a un’escalation di violenza inaudita. Un gruppo di operai croati cristiani viene sgozzato da un commando di terroristi. L’esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che potrebbero essere il prossimo obiettivo, ma questi rifiutano in quanto uomini di pace. Alla vigilia di Natale, nel convento irrompono alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro degli operai e chiedono di parlare con il «Papa del luogo». Il priore li affronta fermamente e riesce a allontanarli, ma resta la minaccia concreta di un ritorno.
L’incontro ha provato i monaci, dentro i quali si innesta un dubbio fortissimo: restare o andare via? Come da tradizione cistercense, le decisioni vanno prese attraverso una votazione, ma gli animi sono troppo agitati e il voto viene rimandato. Quando Padre Luc presta soccorso a un terrorista salvandogli la vita, tutto precipita. L’esercito algerino preme perché i monaci rientrino in Francia ma i confratelli consapevoli che la loro vita e la loro vocazione sono tra quella gente, decidono di rimanere. Frère Christian scrive un testamento spirituale in cui prevede l’avvicinarsi della morte, convinto però fermamente che non avverrà per mano del popolo algerino: «L’Algeria e l’islam – scrive – per me sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima». Pochi mesi dopo, un commando prende in ostaggio sette dei monaci presenti nel monastero.

L’Ultima Cena prima del martirio
La storia s’interrompe qui, anche se sappiamo che i monaci furono sgozzati e le loro teste vennero ritrovate molto tempo dopo. Il mistero attorno a queste morti è ancora vivo: chi li ha uccisi? La Gia (Gruppo islamico armato) che ha rivendicato l’attentato o l’esercito algerino per cui i monaci erano diventati una presenza scomoda? I dubbi sono molti, ma il film non suggerisce alcuna lettura. Il regista preferisce concentrarsi sulla vita dei monaci, la macchina da presa è accanto a loro in ogni momento, e ci mostra l’assoluta semplicità della loro vita, la devozione a Dio e i dubbi che in alcuni momenti li pervadono. La quotidianità è scandita dal lavoro e dalla preghiera, dallo studio e dalla riflessione, dalla volontà di rimanere fedeli al disegno che Dio ha scelto per loro: continuare a condurre un’umile esistenza in quel monastero che è la loro casa, pregando, lavorando e offrendo conforto a un popolo povero e oppresso.
La morte rappresenta solo un passaggio successivo e necessario ma, se all’inizio è vissuta con angoscia, come per qualsiasi essere umano, alla fine del film diviene consapevolezza, così come afferma Padre Luc: «Io non ho paura della morte, sono un uomo libero». Come Cristo e gli apostoli consumano l’Ultima Cena, così i monaci, consci dell’avvicinarsi della fine si concedono un pasto frugale e un bicchiere di vino sulle note del Lago dei cigni, attendendo con serenità il compiersi della volontà di Dio.


© Copyright Tempi

Esce oggi il film sui Martiri di Tibhirine. A quando la loro canonizzazione?

le tombe dei monaci martiri di Tibhirine

In italiano si intitola "Uomini di Dio", ma nell'originale francese il titolo di questo film di Xavier Beauvois è più suggestivo: "Des Hommes et des Dieux", "Degli uomini e degli Dei". Narra la vera storia dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell'Atlante in Algeria, sequestrati e uccisi tra il 26 e il 27 marzo 1996 dai fondamentalisti dei “Gruppi islamici armati”. Nonostante le minacce e la paura non sono venuti meno al loro voto di stabilità e all'amicizia verso gli abitanti del villaggio. Perciò scelsero di rimanere, nonostante tutto. Solo dal 2007 è in corso la fase diocesana (arcidiocesi di Algeri) della causa di beatificazione di quei monaci, insieme a tutti gli altri cristiani algerini, che hanno perso la vita in quelle folli circostanze, che in un decennio hanno visto più di 300 mila morti civili fra cui altri 12 fra religiose e religiosi.
Il film, presentato a Cannes, ha riscosso un grande successo e ha commosso il pubblico. Vi riporto, insieme ad alcuni trailer del film, anche al testimonianza di J.M. Lassause, prete della Mission de France, che continua oggi a curare e custodire il monastero di Tibhirine; è stata rilasciata a MissionOnline:

La testimonianza: Vivere a Tibhirine oggi
di Jean-Marie Lassause

«Tibhirine fa parte dell'eredità della Chiesa universale. Sta a noi inventare un seguito, che possa raccogliere quest'eredità e che le rende viva»
Da dieci anni vivo a Tibhirine quattro giorni la settimana, per continuare la produzione agricola con Youcef e Samir, perché questo monastero abbia sempre la porta aperta a tutti gli ospiti e per mantenere questo luogo di preghiera cristiana in mezzo ai fratelli musulmani.
"Uomini di Dio" è per me un grande film autentico, che sottolinea l'umanità e la fraternità dei monaci, attraverso una convivialità condivisa nel quotidiano. Attraverso questi legami molto forti di vicinanza e di lavoro, i monaci hanno dischiuso per me e per la Chiesa d'Algeria un solco che resta aperto al dialogo e all'incontro. Ancora oggi continuiamo a vivere queste relazioni molto fraterne attraverso lo scambio, i servizi reciproci, il vivere insieme, le gioie condivise delle feste musulmane e cristiane.
Certamente, non si parla più di "fratelli della pianura" e di "fratelli della montagna"; il terrorismo si è allontanato e la vita pacifica ha ripreso. È il ritmo delle stagioni, piacevoli in estate e dure in inverno, che scandisce i lavori, così come le preghiere dei monaci danno il ritmo alle giornate nel film. Questo rinviarsi dei tempi di preghiera e degli orari di lavoro manuale àncora la vita monastica nel tempo e nello spazio, così come la voce del muezzin che echeggia dinanzi al monastero scandisce la giornata e fa sì che le nostre umili occupazioni abbiano un respiro più alto.
L'interrogazione di fondo dei monaci nel 1996 riguardava il restare o il partire; la questione di oggi è quella di dare un futuro a questo monastero, segnato dalla memoria dei monaci che vi riposano e che hanno trasmesso al mondo lo spirito di Tibhirine. Questo Spirito non appartiene solo alla Chiesa, ma al mondo che riconosce questo valore immenso del vivere insieme in armonia tra credenti di diverse religioni e culture.
È in questo modo che il film interroga molti nostri contemporanei che vivono a nord del Mediterraneo, nei quartieri di periferia delle nostre città, ed è un invito a non disertare questi luoghi di incontro che possono diventare luoghi di frattura.
Bel film, dove i paesaggi (benché girati in Marocco) ritrovano i colori ocra e i verdi dell'inverno, delle alture di Medea, punteggiate dalle greggi di pecore fanno parte del quotidiano della gente; bel film, dove la direttrice della fotografia tratta la luce in modo tale da insinuare il desiderio di riscoprire un Caravaggio o un Fontana...
Quante volte ho pensato, varcando il cancello del monastero, che entravo in un'oasi, in un anticamera del paradiso, dove il silenzio permea gli edifici centenari; nel film, la ricerca dei monaci è molto legata alla terra fertile, agli alberi, al levarsi del sole, al suo tramontare, insomma è iscritta nella natura che rivela qualcosa di Dio.
Ancora oggi, i monaci accompagnano le genti di Tibhirine, che evocano molto spesso le loro memorie condivise, con grande rispetto per monaci come Luc o Christophe, ma anche per Amédée e Jean Pierre: essi amavano profondamente la gente e oggi ancora la popolazione di qui è loro riconoscente. Il villaggio è cresciuto insieme con il monastero e la gente è come gli uccelli che si riposano sui rami rappresentati dai monaci. Se dovessero partire, dove "ci poseremo"?
Per me, il problema di restare o partire non si pone. Tibhirine fa parte dell'eredità della Chiesa universale. Sta a noi inventare un seguito, che possa raccogliere quest'eredità e che le rende viva.

Il trailer ufficiale del film in italiano:
Separa

Un clip del film, in francese con sottotitoli inglesi, che mostra la prima drammatica riunione dei monaci sul da farsi: partire o restare?




I monaci di Tibhirine e il sondaggio dell'"Economist"

di Lucetta Scaraffia

L'ultimo numero dell'"Economist" presenta i risultati di un sondaggio fatto presso i lettori a proposito della religione. È stato loro chiesto, infatti, se ritenevano la religione forza "per il bene" oppure nociva. Le ragioni delle parti sono state difese sull'autorevole rivista britannica da due giornalisti, ma Mark Oppenheimer, che è intervenuto per la religione, non è stato molto convincente. Ha portato tre motivazioni a favore, di cui una decisamente originale e difficilmente sostenibile: "La religione diverte". Non c'è quindi da stupirsi se la netta maggioranza dei lettori - precisamente il 75 per cento - ha votato contro.
Sono certa che se agli stessi lettori fosse stato mostrato il film di Xavier Beauvois Uomini di Dio - più bello è il titolo originale, Des hommes et des Dieux - avrebbero espresso un'opinione diversa.
Questo film - che in Francia ha ottenuto un grande successo, fino a raggiungere i due milioni e mezzo di spettatori - racconta infatti in modo semplice e reale, senza risvolti agiografici, la vita e la morte dei monaci cistercensi di Tibhirine, sulle montagne del Maghreb.
Una vita semplice, dedicata ai lavori manuali, che garantiscono la loro sopravvivenza, allo studio e, naturalmente, per gran parte della giornata riservata alla preghiera. I monaci non hanno la missione di evangelizzare, ma solo quella di portare una testimonianza d'amore e di preghiera. La loro vita quotidiana è quindi semplice: essi vogliono essere solamente "un segno sulla montagna" e non un'opposizione, un segno di fratellanza con un popolo in gran parte musulmano.
Si scontrano però con lo scoppio dell'ostilità fra un Governo, che viene definito corrotto, e una ribellione fondamentalista. I monaci sanno a cosa andranno incontro, e umanamente hanno paura. Alcuni - i più giovani - pensano di andarsene, come sollecita il Governo. Ma il superiore chiede loro un tempo di riflessione, e questo periodo servirà per arrivare, tutti, alla stessa decisione: restare e affrontare il martirio.
Il percorso che li porta alla scelta è ben narrato, per tutti simile e per ognuno diverso, e mirabilmente rappresentato in un'ultima cena che li vede riuniti e durante la quale - sorseggiando un bicchiere di vino che già simboleggia il sacrificio - ciascuno di loro rifletterà nel volto la paura per ciò che lo aspetta e la serenità della decisione presa.
La caratteristica più bella del film è che mostra i monaci come uomini comuni: con le debolezze e le paure degli uomini comuni, esseri umani come noi, fragili, che nel corso di giornate sempre più cupe attingono coraggio dalla preghiera. È infatti nel canto dei salmi e nelle orazioni che trovano la risposta che cercano: non possono lasciare la popolazione del villaggio con la quale hanno vissuto fino ad allora. Non nel momento del bisogno.
Il loro messaggio sarà chiaro: per amore dei musulmani del Maghreb accettano di andare incontro al martirio, dimostrando così che il conflitto fra le religioni, come ogni conflitto, si può annullare con un atto di amore.
In questo film abbiamo la religione cattiva - cioè la distorsione fondamentalista che ripugna agli stessi credenti musulmani - e quella buona messe a confronto, in una narrazione che sa farci vedere quanta luce può irradiare una scelta di amore totale. Anche i lettori dell'"Economist" avrebbero avuto molte difficoltà a ignorarlo.

(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)

Esce nelle sale italiane "Des hommes et des Dieux" di Xavier Beauvois

Otto uomini

Il film francese candidato agli Oscar

di Emilio Ranzato
Otto monaci francesi dell'ordine cistercense vivono in un monastero fra le montagne del Maghreb algerino. In perfetta armonia con la comunità musulmana locale, condividono le gioie e le difficoltà di chi li circonda. L'equilibrio spontaneo della regione si incrina quando un gruppo di fondamentalisti uccide alcuni lavoratori stranieri. Ci vuole poco perché l'attenzione dei terroristi si concentri sul monastero, malgrado chi lo abita svolga solo funzioni di preghiera e di meditazione, e non di proselitismo. Quando gli otto religiosi entrano in contatto con il gruppo armato, lo fanno con la stessa naturalezza che contraddistingue i loro rapporti quotidiani, prestando anche soccorso a un ferito. La loro vita sembra dunque proseguire come sempre, tanto che decidono di rifiutare la proposta di una scorta da parte dell'esercito. Se le semplici abitudini del monastero rimangono immutate, la tensione nella regione continua però a crescere e alcuni cittadini cominciano a scappare. A questo punto i monaci sono costretti a interrogarsi sull'opportunità di abbandonare il luogo. Il priore Christian - un sorprendente Lambert Wilson, conosciuto dal grande pubblico per aver partecipato in tutt'altre vesti alla saga di Matrix - propone di rimanere per proseguire la missione cui sono stati preposti, ma in un primo tempo il timore generale sembra avere la meglio. La decisione sarà graduale e sofferta, eppure alla fine quasi unanime.
Otto monaci ma soprattutto otto uomini. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie qualità e i propri limiti. Li vediamo assorbiti nella loro devozione, ma anche allegri o litigiosi. In tutta la loro umanità, insomma. Tanto che quando il pericolo si affaccerà alle porte del monastero, la prima cosa che ci si chiederà è come faranno a farvi fronte. Presi uno per uno, forse nemmeno loro saprebbero dare una risposta. Tutti insieme, però, la troveranno.
Pur ispirandosi in modo esplicito alla tragedia di Tibhirine del 1996, quando dei monaci francesi furono vittime del Gia (il Gruppo Islamico Armato) in un'Algeria attraversata da profonde divisioni, quello firmato da Xavier Beauvois vuole essere solo in superficie un film di cronaca storica. Anzi, la bellezza di Uomini di Dio risiede soprattutto nel modo in cui si passa sottilmente e in modo impercettibile da uno sguardo naturalistico e quasi documentario - assecondato da una direzione degli attori tutt'altro che dispotica - a una dimensione sempre più metaforica. Gli stessi terroristi vengono mostrati in modo diretto solo in un paio di occasioni, e in atteggiamenti non dichiaratamente bellicosi, salvo poi essere relegati sempre più sullo sfondo, fino a diventare quasi la trasfigurazione del tormento interiore dei protagonisti.
Per quest'idea di adombrare una violenza invisibile su un paesaggio tanto in armonia da farla apparire ancora più insensata e irreale, a tratti il film ricorda La sottile linea rossa di Terrence Malick. Così come per la volontà di conciliare le istanze ideologiche - riconoscibili soprattutto nel sottolineare come un terreno comune fra fedeli di religioni diverse sia assolutamente possibile - con quelle simboliche: mentre ci viene raccontato che la tensione attorno a loro cresce in maniera esponenziale, vediamo gli otto monaci sempre più soli, alle prese con una indecisione che si porta dietro interrogativi pratici ma anche filosofici, e che attengono alla natura stessa del loro ruolo nel mondo: la libertà è di chi riesce a fuggire o di chi rimane saldamente ancorato alla propria missione? È giusto aderire al proprio ruolo fino alle estreme conseguenze?
L'intero film è d'altronde disseminato di sottili corrispondenze che compensano un tessuto narrativo e drammaturgico volutamente ellittico e avaro di dettagli realistici, che alla lunga sarebbero risultati senz'altro invadenti. I paesaggi su cui la cinepresa indugia sempre un attimo in più di ciò che è consueto, lasciandoli respirare di vita propria anche quando i personaggi hanno lasciato la scena, è infatti strettamente legata alla vita dei monaci cistercensi, votata, fra l'altro, alla contemplazione della natura. Così come l'unanimità della loro decisione finale fa da pendant alle numerose scene in cui li vediamo impegnati nella preghiera corale. E proprio la scena cruciale e bellissima della presa di coscienza di ciò che è giusto fare ci viene raccontata senza una riga di dialogo, sulle note commoventi ma anche orgogliose del Lago dei cigni di Cajkovskij, come il silenzio e il canto liturgico accompagnano la vita dei monaci. E se alla fine qualcuno disattenderà la promessa fatta reciprocamente, ciò non farà che conferire ulteriore umanità al loro sacrificio, raccontato dal regista e dal suo sceneggiatore Etienne Comar senza cadere mai nella trappola del facile eroismo. "La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno" si legge d'altronde nell'umanissimo e per questo ancora più toccante testamento spirituale del vero frère Christian.
È forse per questo pudore che a tratti il film dà l'impressione di osare meno di quanto potrebbe, ma le ultime due o tre sequenze riescono a dare al risultato complessivo il colpo d'ala che ci si aspettava, con una soluzione enigmatica - ricordiamo che non è stata mai fatta pienamente luce sulla fine dei monaci di Tibhirine - ma anche poeticamente rasserenante.
Dopo aver vinto il gran premio della giuria all'ultimo festival di Cannes, il film è stato selezionato come candidato per la Francia ai prossimi premi Oscar.

(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2010)

Uomini di Dio, la potenza della fede

Il regista francese Xavier Beauvois ripercorre gli ultimi mesi di vita dei padri cistercensi assassinati negli anni 90 in Algeria

di Paola D'Antuono
Venerdi 22 ottobre il pubblico italiano potrà vedere finalmente in sala Uomini di Dio. Il film ha già conquistato il Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes e più di due milioni di persone in Francia hanno visto la pellicola, perennemente in testa al box office da quattro settimane. L'augurio che possiamo farci sin da ora è che gli spettatori italiani siano ancor più numerosi di quelli d'oltralpe, perché Xavier Beauvois ha diretto un capolavoro, ed è stato artefice di un piccolo miracolo: chi avrebbe mai ipotizzato che un film con protagonisti otto monaci cistercensi avrebbe fatto innamorare pubblico e critica? E invece è stato così, la pellicola è bella e densa e si propone di far luce, per quanto possibile, sul rapimento e l'assassinio di alcuni confratelli trappisti a Thibirine, in Algeria.

Siamo negli anni 90. Un monastero in cima alle montagne del Maghreb è abitato da otto padri cistercensi di origine francese. La comunità che abita il villaggio ai loro piedi è di fede islamica, ma ciò non impedisce ai monaci di avere un rapporto di armonia e pacifica convivenza con loro e di aiutarli nella vita quotidiana come fa padre Luc, che in qualità di medico visita ogni giorno centinaia di pazienti, fornendo loro cure e medicinali gratuitamente.

Tutto cambia quando viene assassinato un gruppo di lavoratori stranieri: l'esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che la rifiutano. L'atmosfera è tesa e culmina alla vigilia di Natale, quando irrompono nel convento alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro e minacciano il priore Christian. I padri non sanno cosa fare, se andare via, o restare in quella che considerano la loro casa. Sono attanagliati da dubbi, crisi di fede, paura di morire e desiderio di rimanere. La situazione precipita quando padre Luc presta soccorso a un terrorista, evitandogli la morte. Da quel momento l'autorità algerina preme perché ritornino in Francia ma i monaci sono convinti di rimanere nel loro monastero, firmando di fatto la loro condanna a morte. In pochi probabilmente ricorderanno questa storia, anche perché per anni il governo algerino cercò di insabbiare l'assassinio dei frati e i nomi dei loro carnefici. I terroristi rivendicarono la strage, ma anni dopo il dubbio che sia stato lo stesso esercito algerino a volersi sbarazzare dei monaci è fortissimo.

Il film però non si ferma alla mera ricostruzione storica, indagando invece con ardore il sentimento religioso e l'amore verso Dio che avvolge i monaci. Otto uomini come noi ma allo stesso tempo straordinari, perché pervasi da una fede che li governa e li assiste, li protegge e li guida nelle scelte, una fede che diviene messaggio di pace e dimostra che la fraternità tra cristiani e islamici non è solo possibile, ma auspicabile.

Martiri coreani, “esempio perfetto ” dell’amore a Cristo e ai fratelli


I vescovi coreani spingono i fedeli a conoscere la vita dei 103 martiri, canonizzati da Giovanni Paolo II e morti durante le persecuzioni anti-cristiane che hanno scosso il Paese per più di un secolo. Il loro sangue “ha fatto sbocciare i semi piantati da Dio in Corea”.

Seoul (AsiaNews) – La Chiesa universale e quella coreana “hanno bisogno della testimonianza dei martiri, oggi più che mai. Si tratta di una testimonianza perfetta ed eterna che spiega il bisogno di Cristo nelle nostre vite e l’amore che proviamo per i nostri fratelli. Ecco perché è importante ricordare chi sono stati e cosa hanno fatto, in vita, i martiri di ogni Paese. Ecco perché pubblichiamo le vite dei martiri coreani”. Sono le parole con cui la Conferenza episcopale coreana presenta una nuova iniziativa: le biografie dei 103 Santi martiri canonizzati da Giovanni Paolo II. Riportiamo di seguito il testo completo dell’introduzione.
I 103 Santi martiri della Corea sono stati canonizzati da Giovanni Paolo II nel corso di una cerimonia che si è svolta il 6 maggio 1984 nella piazza Yoido di Seoul. Come disse in quell’occasione il defunto pontefice, “dal trentenne Pietro Yu Tae-chol al settantaduenne Mark Cong; maschi e femmine; sacerdoti e laici; ricchi e poveri; persone ordinarie e nobili; tutti sono stati felici di morire per testimoniare Cristo. I Santi martiri coreani hanno voluto testimoniare il Cristo crocifisso e risorto.
Attraverso il sacrificio delle loro vite sono divenuti simili al Salvatore. Beati coloro che vengono perseguitati a causa della giustizia, perché loro è il Regno dei Cieli (Mt, 5;10). La verità di queste parole pronunciate da Gesù, la verità delle Beatitudine è manifestata dall’eroica testimonianza di questi martiri coreani”. È per questo che presentiamo il breve riassunto delle loro vite (v. http://english.cbck.or.kr/?mid=Saints103&page=2&document_srl=413), le stesse che sono state presentate alla cerimonia della loro canonizzazione. Dio, che vuole la salvezza di tutti i popoli, ha piantato i semi della fede cattolica in Corea in maniera egregia: quei semi sono sbocciati.
La comunità cristiana ha iniziato il suo cammino quando Yi Sung-hun ha deciso di studiare da solo la dottrina cristiana: viene battezzato con il nome di Pietro nel 1784. All’inizio, proprio a causa della loro fede in Dio, i primi cristiani della Corea sono stati perseguitati in maniere diverse: rinnegati dalle loro famiglie, sono stati costretti a rinunciare non soltanto al loro rango sociale ma persino ai loro diritti umani fondamentali. Eppure, nonostante queste persecuzioni, la fede ha continuato a diffondersi. La comunità cristiana della Corea, nata senza alcun sacerdote, ha avuto la gioia di avere due pastori che provenivano dalla Cina.
Ma il loro ministero è stato breve, e sono passati altri 40 anni prima che la Società per le missioni estere di Parigi iniziasse a lavorare anche qui. Il padre Mauban ha messo piede in Corea nel 1836, accolto da una comunità cristiana che desiderava ardentemente la grazia dei sacramenti. Prima di questo arrivo una delegazione era stata scelta e inviata a Pechino a piedi, oltre 750 miglia, per chiedere al vescovo con le lacrime agli occhi di inviare anche in Corea dei sacerdoti. Lo stesso appello era stato inviato al Santo Padre, a Roma.
Bisognava considerare i seri rischi che pendevano sulla testa di quei missionari che avessero scelto di vivere nel Paese: i vescovi e i sacerdoti che scelsero di affrontare questo pericolo, così come i laici che li hanno aiutati e spesso difeso, hanno vissuto nel pericolo costante di morire. Insieme ai loro pastori spirituali si sono uniti uomini e donne, giovani e anziani, colti e analfabeti: nessuna distinzione di classe sociale. Tutti uniti dalla fede comune e dal desiderio di testimoniare la chiamata di Dio a tutti i popoli, senza eccezioni, per poter vivere la perfezione della vita. I primi missionari stranieri ad abbracciare per l’amore del Signore una cultura differente sono stati mons. Lauren Imbert e altri dieci sacerdoti francesi del Mep.
Di giorno erano costretti a nascondersi, ma di notte viaggiavano a piedi per rispondere ai bisogni spirituali dei fedeli e amministrare loro i sacramenti. Il primo sacerdote coreano fu Andrea Kim Tae-gon: spinto dall’amore di Dio e dal desiderio di aiutare i suoi confratelli nella fede, decise di vivere i pericoli di un missionario nella sua stessa patria. Tanto che, tredici mesi dopo la sua ordinazione, venne messo a morte a 26 anni. Con l’olio della consacrazione ancora fresco sulle sue mani. Paolo Chong Ha-sang, Agostino Yu Chin-gil e Carlo Cho Shin-chol fecero diverse altre visite a Pechino, per trovare un modo di portare in Corea altri missionari; dalle persecuzioni del 1801, infatti, nessun sacerdote si prendeva cura della comunità.
Fra i martiri che onoriamo vi erano quindici vergini; fra queste ricordiamo le due sorelle Agnese e Colomba Kim Hyo-ju, che “hanno amato Gesù con cuore unico” (I Cor. 7, 32-34). Queste donne, un un’epoca in cui la vita religiosa era una realtà sconosciuta per la Corea, hanno vissuto in comunità prendendosi cura degli ammalati e dei poveri. Allo stesso modo, Giovanni Yi Kwang-hyol è morto martire dopo una vita passata nel celibato, in una sorta di servizio consacrato alla Chiesa.
Nelle persecuzioni anti-cristiane che hanno attraversato la Corea per più di un secolo sono morti circa 10mila martiri. Di questi, 79 sono stati beatificati nel 1925, altri 34 martiri sono stati beatificati nel 1968. Tutti insieme, per volontà della Chiesa, sono stati canonizzati sulle rive del fiume Han, da dove si vedono i loro santuari. Lì dove riposano, nella loro ricompensa eterna.
Martiri coreani, “esempio perfetto ” dell’amore a Cristo e ai fratelli

INDIA Suor Rani Maria, martire della fede: il suo assassino si è convertito

di Nirmala Carvalho
A quindici anni dal martirio della religiosa, uccisa per il suo impegno a favore dei poveri e per la sua fede cristiana, il sacerdote che ha curato l’inchiesta diocesana racconta ad AsiaNews la vita e le opere della madre. La conversione del suo assassino, un contadino indù, dovuta alla sua intercessione.

Udaya Nagar (AsiaNews) – Suor Rani Maria, che ha subito quindici anni fa il martirio per la fede con cui ha sempre aiutato i più poveri fra i poveri, “ci stimola ad andare avanti. Il suo esempio di vita e la sua morte sono uno stimolo per noi che siamo rimasti e che, oggi, abbiamo un potente intercessore presso il Signore”.

Lo dice ad AsiaNews p. Cherian, portavoce della diocesi di Indore e direttore della società locale per i servizi sociali, che ha accompagnato la religiosa nella sua opera umanitaria e che ha curato la raccolta dei documenti per la beatificazione. L’inchiesta diocesana sulla religiosa è stata completata due anni fa. I risultati sono oggi allo studio del Vaticano. Il sacerdote presenta oggi la sua testimonianza sulla vita della religiosa.

Suor Rani Maria ha sacrificato la propria vita lavorando per il popolo e per il Signore. Come Gesù è morta sulla croce, mentre portava avanti con fede e abnegazione il suo lavoro in mezzo alle persone. La vita e la morte di suor Rani Maria sono divenute un’ispirazione e una speranza per noi: ci spingono a continuare a fare del bene, lavorare e servire anche a costo della vita. Essere simili a Cristo, in modo da guadagnare delle grazie.

I sacerdoti della diocesi di Indore hanno oggi un intercessore potente presso il Padre, e questo’anno sacerdotale sarà un anno pieno di grazia. Ho sofferto profondamente per il suo omicidio, ma oggi siamo tutti sicuri che la nostra sorella sia viva in cielo, da dove intercede per noi e ci spinge a lavorare per il Regno della giustizia, la pace e la verità.

In vita, suor Rani Maria ha lavorato senza sosta per aiutare gli abitanti dei villaggi – per la maggior parte poveri tribali – a stabilire dei gruppi di auto-aiuto attraverso l'ottenimento di credito finanziario e altre forme di sostegno economico. Ha fatto in modo che venissero concessi ai villaggi, in modo da migliorarne il welfare e le possibilità di guadagno. Ha lavorato senza tregua per aiutare questa parte della società, spesso oppressa.

Nel contempo, si è sempre assicurata che questi movimenti fossero di natura popolare, senza influenze esterne: ha preferito agire da umile catalizzatrice della gente. In quest’ottica ha rafforzato i panchayats (i consigli di villaggio) spingendoli a considerare e a essere consapevoli dei loro diritti e delle loro responsabilità, offrendo assistenza tramite programmi di sviluppo pianificati e sistematici.

Nel dicembre del 1994, preparando le elezioni di questi consigli, si scatenò un litigio fra una famiglia cattolica della sotto-casta dei barela e un candidato della destra nazionalista. La polizia arrestò alcuni dei cattolici, e suor Rani Maria fece di tutto per ottenerne il rilascio. Per questo, la destra indù ha iniziato a guardarla con molta ostilità: avevano la falsa idea che la religiosa istigasse la popolazione contro di loro.

Lasciati da soli, infatti, i tribali non sarebbero mai stati in grado di fare una battaglia politica o persino legale. Il 25 febbraio del 1995, un contadino ingaggiato per uccidere suor Rani Maria è salito nell’autobus dove la madre era seduta e l’ha accoltellata. La gente ha iniziato a gridare e il bus si è fermato, ma il contadino ha trascinato la religiosa a terra e ha continuato a colpirla fino alla morte.

Dopo dieci anni di galera, quest’uomo è stato rilasciato: il suo cuore si è completamente trasformato. Ha espresso profondo dolore e rimorso per quanto ha fatto e si è convertito, parlando in pubblico di Cristo e del Suo perdono. L’uomo ha detto chiaramente che la sua conversione è avvenuta tramite suor Rani Maria.

La madre ha continuato ad aiutarci, specialmente nei momenti di crisi: la sua vita e la sua morte ci incoraggiano ad andare avanti. So che non siamo poi così forti, ma il Signore ci concede forza e benedizione tramite la costante intercessione di suor Rani.

I primi martiri in Laos saranno presto beati

Completato il processo istruttorio – nella diocesi di Nantes – di 15 missionari, sacerdoti e laici, morti “per la loro fede cristiana” tra il 1954 e il 1970. Fra questi vi sono cinque martiri laotiani, un prete e quattro laici. I documenti inviati alla Congregazione delle cause dei santi, per la dichiarazione ufficiale di beatificazione.

Vientiane (AsiaNews/EdA) – La diocesi di Nantes, in Francia, ha concluso in via ufficiale la prima tappa nel processo di beatificazione di 15 missionari, sacerdoti e laici, morti “per la loro fede cristiana” in Laos fra il 1954 e il 1970. Tra questi vi sono cinque Oblati di Maria Immacolata (Omi), cinque membri della Società per le Missioni estere di Parigi (Mep) e cinque laotiani, fra i quali un prete e quattro laici. P. Joseph Tiên e i suoi compagni, fra l’altro, sono i primi cristiani “autoctoni” per i quali è in corso la causa di beatificazione.
I primi passi nel cammino di evangelizzazione del Laos appartengono alla storia recente. I sacerdoti delle Missioni estere di Parigi (Mep), per primi, sono giunti nel piccolo Stato del Sud-est asiatico per annunciare il Vangelo alla fine del 1800. Negli anni ’30 del secolo scorso è stata la volta egli Oblati di Maria Immacolata. La missione in Laos, tuttavia, ha subito una brusca interruzione in seguito alla lotta interna per la conquista del potere e la sorgere della dittatura comunista.
P. Serge Leray, cancelliere della diocesi di Nantes, spiega che “la guerriglia voleva eliminare tutto ciò che era straniero e cristiano”. I missionari hanno scelto, come chiedeva loro la Santa Sede, di “rimanere nel Paese” malgrado le “terribili minacce” che incombevano su di loro. Questi servitori della Chiesa, aggiunge, hanno “donato la loro vita, assassinati o giustiziati”, oppure morti mentre venivano deportati nei campi di concentramento, come successo a p. Jean-Baptiste Malo.
Su richiesta della Conferenza episcopale del Laos, nel 2004 i missionari Omi hanno accettato di condurre la causa di beatificazione dei 15 martiri. Il processo è stato istituito presso la diocesi di Nantes, città natale di p. Malo, sacerdote Mep. Molte diocesi francesi hanno dato il loro contributo nella raccolta di testimonianze e materiale.
Il postulatore della causa, p. Roland Jacques – sacerdote Omi e vice-rettore dell’università di San Paolo a Ottawa – ha raccolto 748 documenti, molti dei quali sono lettere, e ha interrogato almeno 85 testimoni a Nantes e in Laos. Massima la discrezione usata dal postulatore nell’ascolto delle testimonianze nel Paese asiatico, dove i cristiani sono ancora oggi sottoposti a rigidi controlli dello Stato.
Il 27 febbraio scorso mons. Jean-Paul James, vescovo di Nantes, ha decretato la chiusura del processo istruttorio diocesano e ha posto i sigilli sulle 12 scatole. Gli oltre 5mila documenti verranno trasmessi a Roma alla Congregazione delle cause dei santi, ultima tappa prima della dichiarazione ufficiale di beatificazione.
Ai 15 martiri in Laos vanno aggiunti p. Mario Borzaga – missionario Omi – e il suo catecumeno di etnia hmong Paul Thoj Xyooj, il cui processo diocesano è stato istituito in Italia. Tuttavia, la Conferenza episcopale laotiana ha chiesto che questi ultimi vengano inseriti assieme agli altri 15, per formare un processo riunificato in seguito al quale i 17 martiri in Laos saranno dichiarati beati.

Martiri in difesa di tutti. Trent’anni fa Oscar Romero, oggi in Pakistan. Il compito dei poteri terreni. Di Giuliano Ferrara

Atrent’anni dall’assassinio dell’arcivescovo
di San Salvador, Oscar
Romero, testimone della possibilità
della carità come alternativa alla violenza
e alla sopraffazione di cacicchi
e rivoluzionari, un altro martire, un lavoratore
pachistano, è morto dopo sofferenze
terribili, arso vivo, soltanto
perché non ha rinunciato alla propria
fede. In tempi lontani e in continenti
diversi, il prelato in vista e il fedele
sconosciuto raccontano la stessa storia,
già scritta nel Vangelo. Vi perseguiteranno
a causa mia, diceva Gesù
ai suoi seguaci. Era la promessa di
una testimonianza ardua, che avrebbe
però cambiato il mondo. Il martirio
dei cristiani, che molti considerano
un fenomeno storicamente collocato
nei secoli antichi, prosegue anche oggi
e anzi si estende, soprattutto in Asia
e Africa islamiche, dopo la lunga fase
delle persecuzioni messe in atto dai
regimi autoritari e comunisti.
La chiesa risponde con la preghiera,
l’imitazione dei santi, la protesta intrisa
di mitezza, a volte la prudenza,
che non devono però essere confuse
con sintomi di cedimento e di debolezza.
Invece i poteri terreni, cui compete
il dovere di garantire i diritti della
persona umana – a cominciare dalla
libertà di pensiero e di religione –
non trovano, e forse non cercano con
sufficiente determinazione, il modo
per fronteggiare questa recrudescenza
di persecuzioni. Il fanatismo islamico
o induista viene tollerato per piccole o
meno piccole convenienze politiche,
così come trent’anni fa molti considerarono
in America latina un “male minore”
le dittature sanguinarie che arrivarono
a far assassinare un vescovo
sull’altare mentre diceva messa. I martiri
sono i miti che, secondo l’annuncio
delle beatitudini, erediteranno la terra.
Hanno già cambiato il mondo innestando
la concezione giudeo-cristiana
dell’intangibilità della persona sul
tronco solido del logos greco-romano.
Oggi indicano a tutti anche l’esigenza
di un altro cambiamento, la fine della
tolleranza per i regimi violenti e gli assassini
fanatici.

© Copyright Il Foglio 25 marzo 2010

Il martirio dei cristiani d'Oriente nell'indifferenza generale. A colloquio con il cardinale Leonardo Sandri

di Nicola Gori

I cristiani in Medio Oriente stanno subendo discriminazioni, con conseguenze anche sulla ripresa sociale ed economica di quelle terre. La violenza nei confronti di chi crede nel Vangelo mortifica l'azione pastorale della Chiesa e provoca condizioni di martirio. Tutto quanto avviene nell'indifferenza generalizzata dell'Occidente. Non si possono lasciare i cristiani di quelle terre soli e in balia del terrore e dei soprusi. La verità dei fatti deve essere riconosciuta e non taciuta. È la denuncia rivolta dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, all'opinione pubblica mondiale e ai responsabili delle nazioni in quest'intervista al nostro giornale.

Nell'imminenza della Pasqua il pensiero torna alla Terra Santa e alle innumerevoli difficoltà e speranze dei suoi abitanti. Per quali motivi?

La Pasqua ha la capacità di condurre i discepoli di Cristo, appartenenti alle diverse Chiese e comunità ecclesiali, senza alcuna distinzione, ma anche tanti cercatori di Dio, sulle orme storiche di Gesù di Nazaret. Il cuore rivive le sue parole e i segni che egli ha compiuto, soprattutto la sua immolazione sulla croce, e si rafforza la speranza nella sua risurrezione. Ci si sente spiritualmente a Gerusalemme. Si avverte la decisiva importanza del carico di profezia, di consolazione e di contraddizione di cui è portatrice quella santa Città. Si risveglia la responsabilità di condividere la missione insita nel suo stesso nome di "città della pace".

Nella recente lettera per la colletta pro Terra Sancta, la Congregazione ha lanciato un appello ai vescovi di tutta la Chiesa perché sostenga quella comunità. Qual è il senso di questo appello?

La lettera che la Congregazione per le Chiese Orientali, ogni anno, in occasione della Quaresima invia a tutti i vescovi cattolici esprime la coscienza che gli eventi e i luoghi della salvezza cristiana contengono un "mistero di vita e di pace", che è un patrimonio destinato alla Chiesa universale e all'umanità. Ma può essere percepito solo grazie alla vitalità delle comunità cristiane operanti in quella Terra, le quali hanno bisogno dell'aiuto spirituale e materiale di tutta la Chiesa. Esse sono chiamate a confermare l'annuncio della morte e della risurrezione di Cristo, e a tenere viva l'attesa del suo ritorno glorioso, proprio da quei "luoghi singolari" che la fede e la storia bimillenaria del cristianesimo ci hanno reso familiari.

C'è un giorno specifico in cui è chiesta la preghiera e la solidarietà materiale per i cristiani della terra di Gesù?

I Pontefici hanno più volte e fortemente raccomandato la preghiera e la carità per la Terra Santa, dando al riguardo disposizioni ufficiali. Per attestare l'importanza di tale intenzione hanno scelto il Venerdì Santo, la cui portata simbolica è ben comprensibile: è il giorno del silenzio di Dio, che assicura il suo amore misericordioso e indefettibile per la Chiesa e l'umanità. In quel giorno i cristiani di Terra Santa, partecipi anche oggi del martirio del loro Signore e delle sofferenze conosciute dalla Chiesa in tutta la sua storia, sono nel cuore del Papa che, insieme a tutti i cattolici, li affida al cuore trafitto del Crocifisso. Evidentemente, la colletta materiale, che è necessaria all'azione pastorale, educativa e sociale della comunità cattolica può avvenire nelle occasioni e nei momenti più opportuni a livello locale. Ma è un sostegno che non deve mancare: le opere ecclesiali sono di rilevante portata e ne beneficiano tutti gli abitanti di Terra Santa. Le Chiese del mondo intero continuano a dare prova della loro generosità. Desidero ringraziarle, ricordando a ciascuna la riconoscenza espressa costantemente dal Pontefice a nome delle stesse Chiese Orientali cattoliche. Il mio grazie si estende ai sacerdoti e ai seminaristi, ai quali vorrei affidare a motivo dell'Anno sacerdotale in corso un sensibile impegno a favore dei seminari e delle istituzioni formative alla vita consacrata.

A chi è destinata concretamente la colletta pro Terra Sancta?

All'intera comunità cattolica, secondo norme stabilite dalla Santa Sede. L'animazione dell'iniziativa e il suo coordinamento sono affidati alla Congregazione per le Chiese Orientali, la quale per mandato del Papa si impegna affinché la carità della Chiesa universale giunga in modo ordinato, equo e sicuro a tutti. Intendo parlare della Custodia francescana di Terra Santa, ivi operante con circa trecento frati; della diocesi patriarcale di Gerusalemme dei Latini, della Chiesa melchita, che è tra le più numerose, delle altre Chiese Orientali cattoliche presenti, anche se talora modeste numericamente, e animate da sincero spirito ecumenico e interreligioso per edificare la pace e l'unità anticipate dal Signore sulla croce, delle innumerevoli e benemerite famiglie religiose maschili e femminili. La Terra Santa in senso ecclesiale comprende oltre a Israele e Palestina, la Giordania, raggiunge la Siria, il Libano, l'Egitto, le isole di Cipro e di Rodi. Ma il pensiero va anche all'Iraq, dove si trova l'antica Ur, che Abramo lasciò obbedendo al comando di Dio. Sono Paesi che rivestono un ruolo del tutto speciale per l'area circostante, oltre che per la comunità cristiana mondiale.

Lei ha parlato di "martirio" riferendosi alla situazione dei cristiani di Terra Santa. Può dirci una parola sulle loro sofferenze?

L'evangelica immagine del "seme che muore per portare frutto" esalta il sacrificio di Cristo e descrive la costante condizione di quanti egli ha chiamato a seguirlo portando la croce. Dobbiamo riconoscere con dolore e denunciare con la mite forza del Vangelo le discriminazioni che in Medio Oriente subiscono i cristiani. Esse hanno conosciuto livelli di massima preoccupazione, specie in Iraq. Penso a un sacerdote siro-cattolico di Mossul, che recentemente ha perso il padre e due fratelli in uno stesso atto di violenza. Il 24 marzo di ogni anno la Chiesa prega per i missionari martiri del nostro tempo. È una intenzione che condividiamo ben volentieri. Ma sono veramente innumerevoli più in generale i martiri cristiani, cattolici e fratelli e sorelle di altre Chiese cristiane, che diventano missionari autentici di Cristo con la loro fedeltà al battesimo fino alla suprema testimonianza. Con il loro sacrificio, con il sangue versato, anticipano il canto escatologico dell'unità dei cristiani che si compirà attorno all'Agnello immolato e glorificato. Siamo tornati alla multitudo ingens, attestata dall'Apocalisse e ripresa dall'antica liturgia per inneggiare ai martiri che fecondarono col loro sangue gli inizi del cristianesimo a Roma. Tanti Paesi del mondo, soprattutto dell'Occidente, che è cristiano almeno storicamente, sembrano assistere alla loro immolazione in una tristissima indifferenza.

Quali le conseguenze?

Le vittime innocenti, prima di tutto. Poi la condizione di insicurezza. E il blocco di ogni tentativo di ripresa sociale ed economica per una vasta area, che priva soprattutto le giovani generazioni del presente e del futuro. L'instabilità si diffonde in strati sempre più ampi, poiché si riflette sulla consistente diaspora orientale in ogni continente. La violenza mortifica l'azione pastorale della Chiesa, l'impegno nelle numerose scuole, nei centri di assistenza sanitaria e caritativa, aperti sempre alla popolazione di altre religioni. Tutto si riassume nel flusso inarrestabile di emigranti che dall'Oriente vanno in ogni parte del mondo. Ciò colpisce fortemente le più antiche Chiese, che rischiano di estinguersi là dove sono nate. È una tremenda ingiustizia verso l'Oriente che vede vanificarsi un'essenziale componente della sua identità multireligiosa. È da temere che saranno sia l'Oriente sia la comunità internazionale a fare i conti con la storia se perderanno quella garanzia di speranza e di pace che accompagna la presenza cristiana. Se essa svanisce, si favorisce il pericolo sempre latente dell'integralismo religioso, con possibili derive violente e persino terroristiche.

E quali potrebbero essere i rimedi?

Dopo i tristi eventi che ho ricordato, dal Libano è partita una campagna di preghiera e di sensibilizzazione pubblica per la pace e la giustizia, animata dal nuovo Patriarca siro-cattolico, alla quale hanno subito aderito il rappresentante pontificio e i capi delle Chiese cristiane. Sono lieto che il Libano confermi la vocazione che Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi gli hanno riconosciuto, quella di essere un "messaggio" di convivenza antica e nuova tra cittadini di diverse religioni. Accompagno con fervido incoraggiamento ogni tentativo in questa direzione. L'opinione pubblica e i responsabili delle nazioni del mondo, persi talora in problemi molto più secondari, dovranno richiamare a tutti, sulla verità dei fatti, l'urgenza del rispetto dei diritti fondamentali, e tra questi quello di una reale libertà religiosa. Essa è come la cartina di tornasole di ogni altra libertà, perché difende l'intimo della persona, la coscienza, dalla quale scaturisce l'irrinunciabile riferimento a Dio. Le Chiese cristiane del mondo animate da sensibilità ecumenica e interreligiosa dovranno fare la loro parte nella denuncia e nella solidarietà perché il più possibile i cristiani rimangano in Oriente, come è loro diritto e dovere, ma anche accogliendoli quando sono proprio costretti a cercare un'altra patria.

Quale apporto potrà offrire lo speciale Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si svolgerà a Roma dal 10 al 24 ottobre prossimi?

Il Pontefice lo ha annunciato ai patriarchi e arcivescovi maggiori cattolici nello storico incontro a Castel Gandolfo del 19 settembre scorso. È la prima assemblea che coinvolge direttamente la realtà mediorientale e potrà essere nel suo insieme un'alta parola di pace in nome di Cristo. Non sarebbe un regalo straordinario per i popoli della terra sapere che, anche grazie all'iniziativa sinodale, la comunità delle nazioni intende riaffermare la volontà di elaborare un reale piano di pace e intende seguirlo con tenacia e determinazione per assicurarla finalmente a tutti? Non sarà senz'altro disattesa l'opportunità di pace che offrirà il Sinodo delle Chiese orientali e latine già vivacemente impegnate nella sua preparazione sulla base dei Lineamenta, un documento puntuale, elaborato sotto il coordinamento della segreteria generale del Sinodo dei vescovi, che tocca gli aspetti fondamentali della vita dei cristiani mediorientali. È crescente l'interesse da parte dell'intera comunità cattolica. Sono certo che riuscirà a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sul problema migratorio, ad esempio, per ribadire l'assoluta urgenza di una stabile pace su basi di diritto riconosciute a livello internazionale e che a tutti, anche ai cristiani, offrano garanzie essenziali ma sufficienti a una dignitosa permanenza in Oriente. Il titolo scelto dal Papa costituisce, tuttavia, il vero obiettivo sinodale: comunione e testimonianza. Sono doni anch'essi che vengono da Dio. Vanno chiesti con la preghiera insistente. E accolti col proposito sincero dei singoli cristiani. Comunione e testimonianza nascono nel cuore di ogni battezzato coerente e poi si espandono irresistibilmente alla comunità ecclesiale, a quella delle religioni e a tutte le nazioni. È questo il mio augurio pasquale per i cristiani d'Oriente, soprattutto per quelli che sono nella prova. A loro nome ringrazio Benedetto xvi per il dono del prossimo Sinodo. Da esso trarranno forza e conforto per le loro tribolazioni, che sembrano interminabili, ma possono costituire il terreno buono dove il seme della fede cristiana patisce e muore per portare molto frutto.


(©L'Osservatore Romano - 24 marzo 2010)

PAKISTAN Cristiani pakistani rifiutano di convertirsi: marito bruciato vivo, moglie stuprata dalla polizia

di Fareed Khan
La coppia lavorava alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano a Rawalpindi. I tre figli – dai 7 ai 12 anni – costretti con la forza ad assistere alle violenze. L’uomo è ricoverato con ustioni sull’80% del corpo. I sanitari: “non sopravviverà”. Organizzazioni cristiane hanno indetto marce di protesta.

Islamabad (AsiaNews) – Combatte ancora fra la vita e la morte Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano ricoverato da tre giorni all’ospedale della Sacra famiglia a Rawalpindi, città poco distante dalla capitale Islamabad. Egli è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani, con la connivenza della polizia, perché si è rifiutato di convertirsi all’islam. Fonti locali rivelano ad AsiaNews che la moglie “è stata stuprata dagli agenti”. L’incidente è avvenuto il 19 marzo scorso, in una tenuta situata di fronte alla caserma di polizia.
Dal 2005 Mashid e la moglie lavoravano alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano della città, come autista l’uomo e domestica la moglie. Negli ultimi tempi erano emersi dei dissapori fra il datore di lavoro e la coppia, a causa della loro fede cristiana.
Fonti locali riferiscono che la donna, Martha Arshed, è stata “stuprata dagli agenti di polizia”. I tre figli della coppia, inoltre, di età fra i 7 e i 12 anni, hanno dovuto assistere – costretti con la forza – alle violenze commesse ai danni dei genitori. “Masih e la moglie sono attualmente sottoposti a trattamento sanitario” confermano fonti interne dell’ospedale della Sacra Famiglia. Il sito BosNewsLife aggiunge che “l’uomo è in condizioni gravissime, con ustioni sull’80% del corpo”.
Ieri il governo del Punjab ha ordinato l’apertura di un’inchiesta per far luce sulla vicenda. “Il caso è sottoinvestigazione – conferma Rana Sanaullah, Ministro della giustizia del governo del Punjab – e i colpevoli saranno arrestati”. Nel frattempo i sanitari dell’ospedale della Sacra famiglia, a Rawalpindi, sottolineano che Arshed Masih (nella foto), 38 anni, presenta ustioni sull’80% del corpo e “non sopravviverà” all’incidente.
La coppia cristiana viveva con i figli nella tenuta di Sheikh Mohammad Sultan, ricco uomo d’affari musulmano, nella zona riservata ai domestici. Nel gennaio scorso leader religiosi locali e il datore di lavoro hanno imposto alla famiglia – genitori e figli – di convertirsi all’islam. Al rifiuto opposto da Mashid e la moglie, i fondamentalisti li hanno minacciati avvertendoli che avrebbero subito “conseguenze terribili”.
L’uomo ha proposto di lasciare il lavoro e la casa dell’uomo d’affari musulmano, ma questi gli ha risposto che lo avrebbe “ucciso” nel caso in cui fosse partito. La settimana scorsa le tensioni sono aumentate a causa di un furto subito da Sheikh Mohammad Sultan: dei ladri avrebbero fatto irruzione nella sua abitazione, rubando denaro contante per 500mila rupie (circa 6mila dollari).
La polizia ha aperto un’indagine sul furto, ma non ha iscritto la coppia cristiana nel registro degli indagati. Tuttavia, l’uomo d’affari musulmano ha offerto di lasciar cadere le accuse contro Masih nel caso in cui si fosse convertito all’islam. L’uomo ha inoltre aggiunto: “altrimenti non vedrete più i vostri figli”. Il resto è cronaca degli ultimi giorni: Arshed Masih è rimasto saldo nella fede cristiana; il 19 marzo scorso egli è stato bruciato vivo e la moglie stuprata dalla polizia.
Shahbaz Batti, cattolico, Ministro federale per le minoranze, ha rifiutato di commentare la vicenda dicendo di essere “impegnato”. Egli ha promesso di rilasciare dichiarazioni sul caso nei prossimi giorni. Oggi diverse organizzazioni cristiane a Rawalpindi e Lahore hanno indetto una serie di manifestazioni di protesta.

Tra asini e pesci il tormento dei martiri

di Ilaria Ramelli

I
n Apologia 30,1-4 l’accusa di magia contro Apuleio assume connotati particolari ed è legata alla ricerca di pesci (Apuleio dedicò ad essi anche un trattato, D e piscibus). Ora, non solo l’accusa di magia era usata contro i cristiani, ma anche il simbolo del pesce era tipicamente cristiano, come è attestato da Tertulliano ( De baptismo
1) e, nella seconda metà del II secolo, dall’epitaffio di Abercio (come ho studiato su
Aevum nel 2000). È significativo che Apuleio si affretti a negare ogni associazione tra pesci e magia, mentre tale associazione era presente nell’accusa rivoltagli. «Pisces – inquit – quaeris». Nolo negare. Sed, oro te, qui pisces quaerit, magus est?...
An soli pisces habent aliquid occultum
aliis, sed magis cognitum?
Hoc si scis quid sit, magus es profecto, sin nescis, confitearis necesse est id te accusare quod nescis»
.
«'Vai alla ricerca di pesci', dice. Non voglio negarlo, ma dimmi un po’, chi va alla ricerca di pesci è per forza un mago? Sono solo i pesci che hanno qualcosa che agli altri rimane oscuro, eppure è più noto (ai maghi)? Se sai che cos’è, allora significa che sei certamente un mago; se invece non lo sai, devi per forza confessare che formuli un’accusa in base a quello che non sai». Apuleio potrebbe poi avere avuto in mente i tormenti spettacolari di alcune donne cristiane messe a morte in quanto tali, e potrebbe rifletterli nel suo romanzo. La spettacolarità delle torture di cui furono vittime i cristiani sono confermate da Tacito per il 64 e che le
martiri cristiane fossero travestite come eroine mitologiche durante le esecuzioni, e in particolare in vesti di Dirce, è attestato da Clemente Romano nella I Lettera ai Corinzi.
Proprio per l’Africa settentrionale verso la fine del II secolo simili tormenti spettacolari sono testimoniati dalla
Passio Perpetuae,
ove l’eroina, martire a Cartagine, ottiene per sé e per gli altri martiri di non essere travestita e di non morire in una rappresentazione spettacolare.
Ora, Apuleio allude a un tormento spettacolare di questo tipo, anche se ovviamente in contesto comico, in

Metamorfosi
VI 27: «Memorandi spectaculi scaenam, non tauro, sed asino dependentem Dircen aniculam» , «Scena di uno spettacolo memorabile: una vecchietta in vesti di Dirce sospesa non a un toro, ma a un asino». Inoltre, l’associazione di questo tipo di tormenti spettacolari e teatrali, storicamente applicati ai cristiani, con un asino, alla luce della già ricordata accusa anticristiana di onolatria viva al tempo di Apuleio, suggerisce un possibile riferimento ai cristiani. In tal caso, il tormento sarebbe unito alla derisione. Poco dopo, nel medesimo episodio, la menzione di feras, cruces
ed
ignes (belve, croci e fuoco) come modi possibili di uccidere un prigioniero potrebbero nuovamente riecheggiare i tormenti usati contro i membri di questa superstitio illicita
quando erano condannati. Apuleio era un medio-platonico, iniziato a culti pagani, e un sacerdote pagano. Aveva studiato a Cartagine e ad Atene, dove aveva appreso le arti liberali e la filosofia, e in Grecia era stato iniziato a molti culti. Fu anche a Roma e, dopo la
conclusione favorevole del suo processo di magia, intorno al 160 fu investito di un importante sacerdozio.
Di certo non stimava i cristiani e sembra avere recepito molte accuse correnti contro di loro, anche se precisamente ai suoi giorni il medio­platonismo fu adottato dai primi filosofi cristiani, da Giustino a Clemente, da Bardesane a Origene.
Infatti, tra i medio- e i neo-platonici si trovano tanto filosofi pagani ostili al cristianesimo, quali Celso, Porfirio o Giuliano, quanto i migliori rappresentanti della filosofia patristica, da Origene a san Gregorio di Nissa allo Pseudo Dionigi. Si può parlare di un platonismo pagano e di uno cristiano, che cominciarono a differenziarsi precisamente al tempo di Apuleio: il nostro filosofo apparteneva certamente al primo.


© Copyright Avvenire 2 marzo 2010