DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il darwinismo: successo mediatico e crisi scientifica di un’ ideologia

di Salvatore Pisu e Giuseppe Castello

Prof. Pisu è medico e docente di Bioetica all’Università di Cagliari

Dott. Castello è medico chirurgo, specialista in urologia e andrologia e lavora a Cagliari

1. L’evoluzionismo è oggi quasi pacificamente considerato come il più grande tentativo di dare una spiegazione razionale del fenomeno dei viventi, della loro origine e della loro varietà. Da quando Charles Darwin ipotizzò l’origine comune delle specie per trasformazione e selezione, e i risultati della biologia molecolare sembrarono attribuire alla mutazione genetica casuale l’origine della trasformazione, innumerevoli ricerche delle moderne scienze biologiche, quali genetica, biochimica, anatomia, embriologia, hanno scavato nell’intimo dei viventi rilevando le tracce di una profonda affinità fra tutte le specie. Ma di fronte a nuovi e aspri dibattiti sull’opportunità di escludere dall’insegnamento altre visioni concernenti l’origine della vita e delle specie, giudicate dal mondo evoluzionista come antiscientifiche e prive di fondamento razionale, riteniamo sia opportuno porsi la domanda se la rivendicazione del darwinismo soddisfi i criteri che i suoi sostenitori richiedono alle altre teorie per essere scientificamente legittimate.
Il darwinismo è una vera e propria scienza a sé stante? Esistono manuali di scienza evolutiva che riportino leggi specifiche, sperimentalmente confermate e codificate? Oppure si tratta, fra gli ipotizzabili modelli interpretativi dei fenomeni biologici, di quello che ha avuto maggior successo? In questo lavoro riteniamo utile tentare di testare l’effettiva consistenza scientifica di una teoria che assegna ad ogni scoperta ottenuta con le scienze biologiche un valore in senso evoluzionista. Grazie al diffusissimo credito di cui gode nel mondo biologico, il darwinismo non ha potuto che rafforzarsi e guadagnare sempre maggior successo anche in settori della vita non strettamente naturalistici, come quelli economici, politici, sociologici. Noi intendiamo mostrare come la base di questa solida convinzione scaturisca da un’arbitraria visione del mondo vivente piuttosto che da una vera e propria dimostrazione della realtà delle cose.
Per ora anticipiamo il sospetto che la debolezza dell’evoluzionismo sia un paradossale ed inevitabile riflesso del suo apparente successo: una volta ammessa l’ipotesi evolutiva sulla generazione delle specie, qualsiasi fenomeno osservato dalla biologia, dalla fisiologia, dalla genetica, dalla biochimica potrebbe accordarsi nel quadro generale dell’ipotesi stessa, parte per la natura propria dei fenomeni in esame, parte per l’estrema variabilità ed adattabilità della teoria, lungi però dal costituire questo accordarsi una reale prova scientifica.

2. Se si ammette che tutte le specie siano imparentate, cioè che derivino le une dalle altre a causa della selezione che l’ambiente impone alle varianti casualmente mutate premiandole o punendole, qualunque istantanea della struttura dei viventi potrà essere portata per confermare tale visione. In effetti tutti i viventi sono costituiti dalla stessa stoffa, la materia vivente a livello cellulare e subcellulare possiede le medesime caratteristiche. Le principali vie metaboliche, o le grandi famiglie dei geni regolatori, come quelli omeotici che governano la disposizione dei segmenti corporei, insomma i dinamismi cellulari nel loro complesso sono sostanzialmente universali in ogni tipo cellulare. Se ad esempio si trasporta il gene regolatore per il posizionamento sull’asse corporeo degli occhi in un moscerino cieco, il moscerino riacquista i suoi caratteristici occhi sfaccettati anche se il gene proviene dal DNA di un gatto1.
Non è allora illegittimo che gli evoluzionisti abbiano visto nelle somiglianze la conferma di una parentela, lasciando alle sole mutazioni accidentali e vincenti le differenze da cui scaturirebbero le diverse specie. Da qui logicamente nascono i concetti di adattamento, per cui ciascuna specie sarebbe costruita su misura per e dall’ambiente in cui vive; di fitness, cioè di efficienza riproduttiva di una specie portatrice di un certo corredo genetico rispetto alle altre; di selezione (stabilizzante, direzionale, disruptiva) cioè di pressione ambientale che modulerebbe più o meno intensamente i patrimoni genetici (o genotipi) attraverso una scelta imparziale dei fenotipi di maggior successo2.
Tuttavia, nonostante tali tentativi di codificare l’evoluzione con termini dal sapore scientifico, il risultato che si ottiene non elimina il fatto che i semplici dati biologici, le istantanee dei viventi, di per sè non possono nè avvalorare nè smentire l’ipotesi di una parentela tra i viventi da un progenitore comune, così come un istantanea del sole in linea con l’orizzonte non ci può dire se siamo all’alba o al tramonto. Infatti, data la somiglianza persino ultrastrutturale tra i viventi, qualsiasi fenomeno naturale per sua natura potrebbe anche essere letto secondo l’interpretazione generale dell’evoluzione.
Per contro, ad esempio anche una teoria creazionista potrebbe, e forse a maggior ragione, come vedremo più avanti, considerare inversamente le somiglianze come dovute alle universali e necessarie proprietà dei viventi e le differenze come differente origine. In questa diversa ottica l’adattamento non sarebbe altro che la condizione nativa della specie quale frutto dell’interazione col proprio habitat, e la selezione il ruolo dell’ambiente nativo e delle sue possibili variazioni nel proteggere, minacciare o favorire modificazioni formali all’interno della specie, mentre la fitness consisterebbe nel tipo di rapporto che la specie intraprende con la variabilità dell’ambiente che ne permette la riproduzione.
3. Se da un lato dunque il quadro darwiniano complessivo non può che risultare sempre confermato, ma sulla base di una univocamente interpretata somiglianza biologica tra i viventi, dall’altro quando la teoria evoluzionistica da sguardo generale ha tentato di entrare nei dettagli, sono sorti numerosi problemi, e la teoria si è dovuta adattare ai dati ottenuti. Si sono ipotizzati eventi di trasformazione che nessuno ha mai visto all’opera, giustificandone l’inesistenza come solo apparente in quanto distribuiti su scale temporali di milioni di anni. Ad esempio secondo la logica evolutiva che tenterebbe di riannodare le relazioni di parentela tra le specie, che viene chiamata filogenesi, si racconta che i moderni cetacei deriverebbero da mammiferi terrestri, i quali cinquanta milioni di anni or sono avrebbero cominciato a vivere nell’acqua, adattandovisi già dopo dieci milioni di anni. Ma come mai nei rimanenti quaranta milioni di anni le inevitabili mutazioni casuali non sono state selezionate dall’ambiente marino sino a generare delle specie totalmente adattate alla vita acquatica, e ancora oggi i cetacei respirano l’aria coi polmoni, sono omeotermi e allattano al seno la loro prole, come tutti i mammiferi della terraferma? Allo stesso modo si predisse il ritrovamento di fossili di specie di congiunzione fra quelle derivate, ma i paleontologi dopo innumerevoli scavi e lavori di interpretazione non hanno raggiunto alcuna significativa certezza, e i fossili ritrovati o sono identici alle specie esistenti oggi, o appartengono a specie estinte la cui somiglianza con le attuali pone lo stesso problema interpretativo della somiglianza per connaturalità piuttosto che per parentela appena accennato.
Qualche volta si sono smascherate autentiche frodi come quella dell’uomo di Piltdown3, mostrato al mondo come autentico anello di congiunzione tra l’uomo e i suoi progenitori scimmieschi, risultato poi essere un reperto costruito ad arte, dunque falso, ma conservato per anni quale prova inconfutabile del darwinismo in un importante museo fino al momento della scoperta dell’inganno. Per non parlare di risvolti oggi incredibili come quello della triste vicenda di un pigmeo – Ota Benga – costretto ad esibirsi in uno zoo a dimostrazione dell’esistenza di un elemento di transizione vivente dalla scimmia all’uomo4.

Al contrario le uniche prove certe sono quelle che hanno mostrato come le specie dei cosi detti pre-uomini o ominidi - australopitechi, homo habilis – i cui reperti fossili sono stati fino ad oggi ritrovati non siano altro che particolari specie di scimmie oggi estinte (ne fa fede ad esempio per gli australopitechi la posizione dei canali semicircolari dell’orecchio interno, tipica dei quadrupedi5), per di più contemporanee alla specie umana dai cui fossili sono addirittura precedute. L’uomo sarebbe stato contemporaneo se non antecedente ai suoi supposti antenati. È anche per questi motivi che alcuni fra i più autorevoli evoluzionisti, tra cui S.J. Gould6, hanno rivisto le loro convinzioni e ritengono che l’uomo non sia comparso due milioni di anni or sono per progressivi gradi di mutazione da progenitori scimmieschi (homo habilis), ma la sua origine sarebbe improvvisa come uno scherzo della natura, un esperimento mostruoso di successo, da un antenato comune a scimmie e uomini, cinque, sei, forse anche venti milioni di anni or sono. Qui il darwinismo ha dovuto modificarsi e creare una versione alternativa in cui l’evoluzione non è più concepita come continua e progressiva ma discontinua, punteggiata, per salti o catastrofi, spostando inoltre la comparsa dell’uomo ad un periodo ben più lontano e privo di qualsiasi documentazione fossile dei suoi possibili progenitori.

4. Dunque anche l’evoluzionismo non sfuggirebbe alla propria logica interna finendo per adattarsi alle difficoltà minanti la propria coerenza interna. Si potrebbe analizzare l’evoluzione del darwinismo e vedere come questo si sia adattato continuamente alle scoperte. Si scoprirebbe che quanto è rimasto di più condiviso tra gli evoluzionisti, spesso divisi da forti diatribe interne a causa di differenti vedute su piccoli dettagli, non è nulla più della ipotesi iniziale e generale di Darwin, quella per cui si suppone che le specie siano tra loro imparentate, e che a generarne la diversità siano i casi della natura attraverso la pressione selettiva dell’ambiente. Dunque l’impasse per l’evoluzionismo deriva dal fatto che i dati che si usano per confermarlo non potrebbero fare altrimenti in quanto letti solo in quel modo. Ciò non è sufficiente a dirimere la domanda se le specie siano simili perché imparentate, o perché i diversi individui che le compongono sono contraddistinti dalla medesima natura, costituiti dalla stessa materia vivente.
Come l’evoluzionismo potrà liberarsi anche solo dal sospetto di aver rincorso un miraggio attribuendo sicuro rapporto di parentela a quella che potrebbe essere una semplice comune appartenenza alla categoria dei viventi? Di per sé le scienze biologiche non possono far di più che confermare la somiglianza tra i viventi. Ma nulla possono dire nell’interpretazione di tale somiglianza, se si tratti di una parentela o dell’essenza dei viventi in quanto tali. Si è già detto che così come sono, i dati della biologia potrebbero praticamente essere compatibili con una teoria che pensasse alle diverse specie come create separatamente sin dall’origine, generate non da una stessa matrice cellulare casualmente mutata, ma da diverse “madri” unicellulari, in assenza di trasformazioni casuali dall’una all’altra, in base ad un disegno di sviluppo individualizzato. Come per la visione evoluzionistica classica, anche in questo caso tutti i fenomeni biologici fino ad oggi riscontrati dall’osservazione sperimentale verrebbero confermati senza richiamarsi ad alcuna parentela tra le diverse specie, ma semplicemente constatando la comunanza della materia vivente di cui tutte sono costituite, e riferendo le differenze alla differenza tra le madri primigene. In sintesi, la scelta tra l’evoluzionismo e altre interpretazioni dei fenomeni viventi sarebbe come quella di chi deve scegliere tra vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende cioè più da una visione della vita, da predisposizioni culturali e dalla storia personale e dagli interessi di chi sceglie.
Dunque l’evoluzionismo vive una duplice crisi: finché rimane sul piano della visione generale, tutti i fenomeni naturali sembrano accordarsi con essa, ma per via di un possibile ma irrisolvibile equivoco per cui potrebbe essere letta come parentela la sostanziale somiglianza per natura delle diverse specie viventi. Ma quando si scende nei particolari la dottrina darwiniana è costretta a fare i salti mortali per inseguire i fenomeni ed adattarsi continuamente con sempre nuove versioni, spesso l’una in aspro contrasto con le altre, in una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

5. Il vantaggio selettivo dell’evoluzionismo, il suo successo e la sua diffusione oltre il mondo accademico attuale deriverebbero allora non più dalla compatibilità della sua visione generale con i dati biologici (cosa scontata per la natura dei dati stessi, e come abbiamo visto, tallone d’Achille ineliminabile della teoria), ma da una scelta meta-scientifica, basata su presupposti culturali, sociali e persino religiosi spesso funzionali a determinate scelte storiche, politiche ed economiche (malthusianismo, eugenetica, discriminazioni razziali) quando non filosofiche (ateismo, nichilismo). Ne sono un esempio gli innumerevoli e fideistici ricorsi all’intervento del cieco caso. Ad esempio poiché non si vede alcuna legge chimica o fisica all’origine del codice genetico per cui a ciascuna tripletta di basi azotate del DNA corrisponde un certo aminoacido, ma una semplice corrispondenza di tipo convenzionale come quella del codice Morse per la comunicazione telegrafica, per escludere una causa intelligente del fenomeno si imputa a pura casualità l’esistenza di tale universale corrispondenza, e si chiama incidente congelato la stabile organizzazione del DNA e della sua trascrizione.
La continua enfasi posta dagli evoluzionisti sul caso come unico arbitro dei naturali destini nelle questioni di cui non si è ancora scoperto un evidente fattore causante, ha molto dell’atteggiamento che essi si propongono di combattere nei “creazionisti”, che spesso vengono accusati di tirare in ballo l’intervento divino ogni qual volta non sono in grado di trovare una spiegazione esauriente dei fenomeni biologici, quando non di credere in racconti naturalistici indimostrabili, come quelli della creazione biblica, come se la Bibbia avesse le intenzioni di un trattato biologico.

6. Ma se tutto questo dovrebbe spingere a riprendere e ad approfondire le ragioni anche di coloro che criticano o respingono la teoria darwiniana per verificarla nei dettagli, un ulteriore duro colpo per l’evoluzionismo sta venendo proprio dalle scoperte più recenti della biologia molecolare. Oggi si sa infatti che è alquanto improbabile che il fenomeno delle mutazioni genetiche casuali possa avere il peso di condurre alla generazione di una specie da un’altra. Si è infatti scoperto che la cellula sa come mutare il proprio patrimonio genetico intenzionalmente. Essa infatti lo attiva e disattiva là dove serve in base alle necessità metaboliche, lo sa plasmare in risposta a stimoli esterni e interni, può costruire proteine con diverse funzioni utilizzando il medesimo gene (così come il gene lettera può costruire la proteina lettera dell’alfabeto o la proteina lettera da spedire), può costruire più proteine con un solo gene (il gene parlamento può costruire la proteina parlamento, ma anche le proteine parla, mento e lamento)7. Si ipotizza persino di possibili funzioni oggi ancora non conosciute del DNA cosiddetto spazzatura, aggettivo coniato dai primi genetisti, dal sapore forse volutamente sprezzante per distinguerlo dal DNA codificante, quasi a stigmatizzarne l’inutilità per evidenziarne la causa come sempre in un caso cieco e non in una operazione prevista dall’intelligenza cellulare. A confronto con le enormi possibilità a cui può attingere la cellula dal suo patrimonio genetico sul fronte della mutazione voluta e controllata, ben misera cosa appaiono le rarissime mutazioni accidentali, una su un miliardo8, quelle che l’evoluzionismo chiama a guida cieca, protagonista casuale delle speciazioni. La cellula invece mostra di avere su se stessa e sull’organismo da essa costituito un progetto, un disegno più ampio di quello che uno dei dogmi della biologia, oggi ampiamente sfatato – un gene, una proteina – voleva imporle. E questo disegno, sul cui studio è sorta tra l’altro l’epigenetica, cioè lo studio delle interazioni dell’ambiente cellulare sul patrimonio genetico, ha un impeto generativo così forte che sembra coincidere con quello della stessa vita.

7. Superata la teoria evoluzionistica nella sua versione gradualista o continua, sia a causa dell’assenza di elementi fossili che la comprovassero, sia, come vedremo in seguito, a causa degli enormi tempi necessari al suo verificarsi, di gran lunga superiori a quelli oggi misurati in base alla presunta età della terra, secondo la teoria evoluzionistica nella sua versione più moderna conosciuta come quella degli equilibri punteggiati o saltazionista, che sembra aver preso oggi il sopravvento su quella gradualista, le mutazioni accidentali silenti e innocue si accumulerebbero nel DNA di uno o più individui della specie fino ad un punto di non ritorno, oltre il quale la somma delle mutazioni diverrebbe catastrofica per il nuovo organismo che perderebbe la capacità di riprodursi con i simili dei suoi antecessori e fonderebbe così una nuova specie. Qui il caso avrebbe lo stesso peso di quello di un ramo caduto sul percorso di un maratoneta ben allenato. Rametto dopo rametto sul percorso si accumulerebbe una catasta di legno. Ecco che il maratoneta ad un certo punto invece di evitarla preferisce passarci sopra: il maratoneta cesserebbe la sua gara per dedicarsi ad un nuovo sport, il salto in lungo. Ma oggi una conoscenza sempre più fine dei meccanismi biologici dimostra che l’accidentale viene a interrompere, a bloccare, non a costruire. Inoltre la vita cellulare non è mero determinismo subìto da una cellula ostaggio di un DNA egoista regolato da un caso cieco, alla Dawkins9, ma, per ritornare al paragone sportivo, è piuttosto un percorso studiato e recintato, dei giudici di gara, un premio importante, degli atleti allenati e fortemente motivati, un servizio tecnico efficiente, una organizzazione professionale: il rametto verrebbe subito eliminato prima di costituire il minimo problema per la gara. E anche se un corridore inciampasse in un rametto, si tratterebbe di un fenomeno rarissimo che non incide sulle classifiche mondiali dei maratoneti e tanto meno sull’origine di una nuova disciplina sportiva. Lo stesso DNA non è tutto, nella cellula: le proteine raggiungono la loro conformazione definitiva, quella che tra le diverse possibili ne permette il corretto funzionamento, in un momento successivo rispetto a quello della sintesi nei ribosomi10. Il DNA non sembra cioè responsabile della giusta e definitiva conformazione, quella funzionale, quanto della “memoria” della sequenza degli aminoacidi di cui è composta la proteina.

8. C’è ancora molta ritrosia al lasciarsi guidare dalla complessità finalistica11 del disegno cellulare: perché non cercare nelle pieghe di questo disegno complessivo l’intelligenza per l’origine delle specie e della vita stessa, invece di cercare ulteriori ma inutili prove della parentela tra i viventi? La complessità di una cellula non è poi sostanzialmente inferiore a quella di un animale pluricellulare quale ad esempio un elefante. Nessuna macchina per quanto elaborata e complessa progettata e costruita dall’uomo raggiunge un infinitesimo della complessità di una singola cellula. Se una cellula volesse mutare non necessiterebbe dunque del caso per adattarsi alle condizioni ambientali. In realtà il disegno cellulare mira alla stabilità ed alla integrità dei suoi componenti, a riparare i danni ove si presentino (anche le mutazioni accidentali vengono disinnescate) e con una precisione che ha dello sbalorditivo.
Inoltre la complessità cellulare, insuperato ostacolo tra inorganico ed organico, non è certamente frutto di una lunga evoluzione, dato che le più antiche cellule apparse sulla faccia della Terra, gli archeo batteri, la cui comparsa è fatta risalire da alcuni a tre miliardi di anni or sono, sono in grado di vivere in condizioni estreme, ad esempio in soluzioni acquose sature di sale, come Halobacterium, o in ambienti esposti a temperature elevatissime, vicino a bocche eruttive sui fondali oceanici, come Pyrolobus fumarii. Gli archeo batteri inoltre sopravvivono in ambienti molto acidi e possono nutrirsi di composti dello zolfo, tanto che per queste straordinarie capacità sono denominati organismi estremofili. La loro repentina comparsa sul pianeta sarebbe talmente incompatibile con i tempi richiesti da una origine casuale, che qualche studioso, tra cui lo scopritore della struttura fine del DNA, Francis Crick, ha preferito ipotizzare per queste cellule una provenienza dallo spazio extraterrestre12. In ogni caso come si sia passati dall’assenza di vita a questi formidabili organismi unicellulari rimane una delle questioni insolute ma anche più stimolanti della biologia.

9. Basterebbe poi un solo piccolo esempio a proposito dell’origine della vita per mettere in crisi la concezione meccanicista dell’abiogenesi darwinianamente intesa: è un dato di fatto che gli acidi nucleici, il DNA e l’RNA, non si duplicano senza l’azione enzimatiche delle proteine, e che le proteine a loro volta non possono essere costruite senza gli acidi nucleici. Inoltre questi due processi non possono avvenire senza una struttura cellulare completa, la più semplice delle quali, osservata con lenti opportune, appare come un laboratorio incomparabilmente più complicato, integrato ed organizzato di qualsiasi macchinario mai costruito dall’uomo.
Si introduce qui il concetto della complessità irriducibile, cioè dell’esistenza di un sistema complesso, il vivente, in cui nessuna parte dell’organismo può spiegarsi senza la compresenza delle altre nel tutto. È questo il caso in cui non può esistere il codificante, il DNA, senza il codificato, le proteine, e viceversa. Ed anche le recenti scoperte delle possibilità dell’RNA di autocatalizzarsi13, cioè di fungere contemporaneamente da enzima e da sequenza genetica, non sembrano altro che la semplice descrizione di una funzione della molecola isolata piuttosto che la dimostrazione dell’esistenza di un improbabile mondo a RNA, dato che tale molecola ha necessità comunque di un contesto cellulare per essere funzionale alla vita.
Se tale è la legge del vivente, o l’intero o nulla, potrebbe non essere irragionevole affermare che la materia vivente sia un tipo di materia a sé stante piuttosto che una spontanea e statisticamente improbabilissima – secondo alcuni impossibile per natura – evoluzione dal semplice al complesso, dall’inanimato all’animato. Sotto questo aspetto il termine creazione appare più descrittivo di questo tipo di realtà, di questo modo di essere, rispetto al concetto di evoluzione, che per censurare gli aspetti irriducibili delle realtà viventi, finisce per forzarne qualsiasi elemento nelle rigide gabbie del determinismo e del meccanicismo. Da tale forzatura scaturisce però talora qualcosa di molto più ridicolo delle ingenue credenze che si voleva demitizzare: i geni, nel segreto della cellula, dovrebbero stabilire e decidere e determinare tutto, anche ciò che evidentemente non rientra tra i caratteri somatici, fino alla bizzarra preferenza delle femmine dell’uccello vedova per l’imponente ma antiaereodinamica coda lunga del maschio14. Tale materialismo radicale infine rivela un limite dello scientismo, e cioè che nessuna conoscenza può aver successo nella pretesa di reggersi da sola ed autofondarsi.

10. Recentemente si è scoperto che quasi tutti i tipi pluricellulari viventi sono comparsi in un intervallo temporale così breve (su scala biogeologica) che risulta impossibile attribuirne alle mutazioni casuali l’origine gli uni dagli altri o di tutti da uno, soprattutto se si tiene presente che in tempi anteriori la Terra si ritiene fosse popolata soltanto da forme di vita unicellulari. Se per la comparsa di una nuova specie di moscerino da una simile secondo l’orologio molecolare dell’evoluzione occorrerebbero due o tre milioni di anni15, non si capisce come in soli circa trenta milioni di anni, nel periodo Cambriano, cinquecento milioni di anni or sono, siano comparse improvvisamente forme viventi così numerose e anche macroscopicamente complesse quali oggi ancora le conosciamo, alcune di esse oggi estinte, altre ancora esistenti. Già all'inizio di questo singolare periodo si incontrano fossili di 500 specie diverse appartenenti a sette sottotipi diversi. Vi sono sia crostacei che spugne, oltre a vermi, echini e meduse. Le differenze tra i sottotipi erano già tanto nette da restare ancora tali ai nostri giorni16.
Cosa è accaduto in quel periodo? Come mai in un solo centesimo del tempo in cui si suppone esista la vita sul nostro pianeta sono comparse in modo definito esplosivo tutte le principali forme di vita di cui è popolata la terra? Come spiegare le proprietà di tantissimi viventi non inscritte nel loro patrimonio genetico né utili per la loro sopravvivenza (si pensi ai colori sgargianti di alcuni pesci, praticamente invisibili nelle buie profondità degli abissi)? Come è comparsa la prima cellula, dato che i suoi costituenti sono coessenziali alla sua funzione ed esistenza, fenomeno che confuta la credenza che i suoi elementi costitutivi semplici si siano aggregati progressivamente fino a costituirla (non esiste né può esistere una “mezza cellula”)? Come è comparso l’uomo, con il suo corpo funzionalmente fragile, ma paradossalmente unico vivente in cui la natura riflette se stessa, dato che la sua origine appare come improvvisa e non sono state registrate svolte graduali?

Queste domande, che il grande genetista Dobzhansky, non certo in odore di creazionismo, espresse come le supreme domande della biologia17, sono oggi più attuali che mai, ed aspettano una risposta che gli evoluzionisti più onesti cominciano a comprendere non essere quella per ora fornita dal darwinismo.

11. In sintesi: l’evoluzione sembra non aver ancora fornito le prove della sua veridicità di spiegazione scientifica dell’origine dei viventi e delle specie.
- Non esistono prove genetiche: le uniche leggi della genetica, scoperte da Mendel, riguardano l’ereditarietà dei caratteri e comprovano la sostanziale stabilità delle specie e la trasmissione dei caratteri che si possono mantenere inalterati a distanza di indefinite generazioni. 18
- Non esistono prove biologiche: nessun esperimento è mai riuscito a costruire un vivente, neanche il più elementare come la cellula, né partendo da costituenti inorganici né da elementi organici19; l’impossibilità della cosiddetta abiogenesi è stata ampiamente e definitivamente dimostrata da Pasteur. Né è mai stata osservata una trasformazione di un tipo di organismo in un altro con struttura corporea e pool genetico diversi.
L’evoluzionismo cede all’errore di usare il fenomeno da dimostrare (il fenomeno inconfutabile e sotto gli occhi di tutti della macro e micro somiglianza fra le specie) per autoconfermarsi, dando per scontato ma mai provando realmente la derivazione di una specie dall’altra, solo poggiandosi qualche volta sulla variabilità peraltro già esistente all’interno delle specie. Un tale tentativo di darsi una base empirica è quanto accaduto ad esempio con un famoso esperimento, spesso citato dai darwinisti, volto a spiegare il fenomeno del melanismo industriale, dove è stato provato che una sottopopolazione minoritaria di farfalle per il colore delle ali può prendere il sopravvento sulla maggioritaria al mutare delle condizioni ambientali, fenomeno per altro normale in natura. Organizzato dai ricercatori come una prova di laboratorio, tale esperimento però non evidenziò per nulla la comparsa di una nuova specie ma semplicemente la variabilità della prevalenza di una sottopopolazione o razza all’interno della stessa specie, variabilità ovviamente correlata all’habitat e a fattori extra-ambientali, in quel caso l’inquinamento da smog20.

- Non esistono prove fossili: nessuno ha mai trovato un fantomatico anello mancante, né ha mai dimostrato la discendenza l’una dall’altra di specie simili ma, come nel caso eclatante dell’uomo, forse il più studiato, si sposta il problema dell’individuazione di un progenitore comune delle specie antropomorfe – ora sorelle, ora cugine – sempre più lontano nel tempo rendendo la questione sostanzialmente non indagabile né tantomeno verificabile sperimentalmente.

12. In conclusione diversi sono i motivi per cui è perlomeno scorretto definire la teoria evoluzionistica come dimostrata scientificamente; sarebbe più giusto definirla una suggestiva ipotesi non comprovata sperimentalmente, e come tale con né più né meno forza dimostrativa di una ipotesi creazionista. A rigor del vero dovremmo parlare di un ventaglio di ipotesi, poiché la storia ha visto susseguirsi versioni sempre più distanti e differenziate dell’assunto darwiniano. In definitiva siamo davanti ad una costruzione e una trasformazione continua del darwinismo, trascinato di qua e di là da mutazioni nell'interpretazione dei dati o dal ritrovamento di dati che non si accordano con le versioni precedenti. Molteplici le discordanze, numerose le lacune, continue le smentite. E anche le concordanze non fanno il gioco della teoria poiché interpretabili anche in senso opposto. Nulla di verificato sperimentalmente, nessuna legge razionalmente espressa ottenuta induttivamente.
È vero che intere schiere di scienziati, biologi, paleontologi, genetisti, anche se non sempre in accordo e qualche volta in palesi e aspre querelles, si sforzano nella difesa a spada tratta della loro teoria rispedendo al mittente le accuse, a loro dire frutto di ignoranza, di fideismo e di arretratezza culturale. Ma nonostante la vivacità mediatica che si traduce in influssi sui libri di testo e sulla documentaristica ad uso televisivo, sotto gli occhi di tutti l'evoluzionismo sta conoscendo un periodo di stallo scientifico e sembra sopravvivere per inerzia culturale come è accaduto per il mito dell’esistenza di razze superiori, concezione che un tempo si cercò di avvalorare anche mediante studi biologici, al fine di giustificare scientificamente lo schiavismo ed in seguito eventi tragici come l’annientamento degli ebrei nella seconda guerra mondiale.
Oggi l’evoluzionismo è chiamato a far da spalla ad una concezione meccanicista e nichilista dell’uomo, che tende ad annullare il concetto di persona o perlomeno, oggi, a limitarlo a chi possiede certe funzioni, per cui gli esseri umani all’inizio embrionale della vita non sono ancora persone e quelli alla fine o con una vita segnata dalla malattia non lo sono più. Ed il suo successo nei salotti buoni delle università e dei circoli culturali, alimentato probabilmente da frasi ad effetto, per le quali noi uomini non siamo altro che aggregati di molecole, e quanto all’origine, scimmie modificate, contribuisce circolarmente alla sua sempre più ampia diffusione (ma anche ad una certa confusione a riguardo del fenomeno della vita e della morte).

13. Dobbiamo allora rassegnarci a tacere sulla pseudoscientificità dell'evoluzionismo e lasciarci portare via dalla corrente dominante almeno per ben figurare nei dibattiti e guadagnare producendo testi scolastici scientifically correct? La nostra risposta consiste nella proposta di una nuova ipotesi di lavoro. Riteniamo cioè che possa tornare utile riprendere in mano i dati, i viventi, e osservarli per quello che sono. Potrà forse sembrare inizialmente ovvio, ma comprendere quale sia la natura del vivente ci potrà aiutare nel comprendere l'eventuale plausibilità dei poteri trasformisti che gli si attribuiscono.
La domanda è dunque se la natura dei viventi sia tale da concordare con le ipotesi proposte. Sono ad esempio compatibili le spiegazioni evoluzionista e quella dell’origine separata dei diversi gruppi di viventi, con quella che è la stoffa stessa della materia vivente? In questo caso il vero lavoro da fare non è quello di prendere le difese di questa o di quella teoria, ma di contribuire alla conoscenza di ciò che è realmente l’organismo vivente, quali siano i dinamismi che lo caratterizzano, che rapporto abbia con la realtà non vivente. Il nostro contributo si deve porre nel cercare di comprendere il significato dell’organismo, e quali siano le possibilità funzionali correlate a questo singolare status. A partire da ciò offrire elementi di fatto alla ricerca dell’origine degli organismi e dell’origine delle differenze fra essi, senza affrettare, magari per motivi ideologici, conclusioni travestite da scienza ufficiale.

NOTE

1Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione, Rusconi, Milano, 1999, p. 63-64

2Edoardo Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Einaudi, Torino, 2000 p.73-92

3Kenneth Oakley, William Le Gros Clark & J. S, Piltdown, Meydan Larousse, Vol. 10, p. 133

4Philips Verner Bradford, Harvey Blume, Ota Benga: The Pygmy in The Zoo, New York: Delta Books, 1992

5Fred Spoor, Bernard Wood, Frans Zonneveld, "Implication of Early Hominid Labryntine Morphology for Evolution of Human Bipedal Locomotion", Nature, vol. 369, giugno 23, 1994, p. 645-648.

6S. J. Gould, Natural History, Vol 85, 1976, p. 30.

7Shapiro JA. A 21st century view of evolution: genome system architecture, repetitive DNA, and natural genetic engineering. Gene. 2005 345. Genome organisation and reorganisation in evolution:formatting for computation and function. Ann. N.Y. Acad. Sci. 2002

8Edoardo Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Einaudi, Torino, 2000, p.35

9A tal proposito occorre segnalare la grande risonanza anche mediatica che ancora hanno le tesi di Richard Dawkins, docente di zoologia a Oxford nonché divulgatore scientifico, il quale, nelle sue opere più conosciute, tra cui Il gene egoista: la parte immortale di ogni essere vivente (titolo originale The Selfish Gene, 1976), Milano, A. Mondadori, 1995 e L’orologiaio cieco (titolo originale: The Blind Watchmaker, 1986), Milano, Rizzoli, 1989, giunge alla perlomeno bizzarra conclusione che il DNA, il genotipo, altro non sia che l’attuale supporto materiale di un cieco ed indefinito processo autoreplicativo fine a se stesso, e che il fenotipo, la struttura cellulare non genetica, è il veicolo provvisorio di cui si serve il genotipo per perseguire inconsapevolmente l’immortalità.

10Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione, Rusconi, Milano, 1999, p.125-131

11Per una esauriente trattazione del tema cfr. Étienne Gilson, Costanti biofilosofiche, in Biofilosofia. Da Aristotele a Darwin e ritorno (1971)

12Francis Crick, Life Itself: It's Origin and Nature, Simon & Schuster , New York, 1981

13Tracey A. Lincoln, Gerald F. Joyce, Self-Sustained Replication of an RNA Enzyme, Science Express, La Jolla, USA, 2009

14L’orologiaio cieco (titolo originale: The Blind Watchmaker, 1986), Milano, Rizzoli, 1989, p. 295-316

15Edoardo Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Einaudi, Torino, 2000, p.82

16D. Raffard de Brienne, Per finirla con l'evoluzionismo, Il Minotauro, Frascati 2003, p. 89, in http://www.storialibera.it/controevoluzione/paleontologia_01.php

17Th. Dobzhanski, Le domande supreme della biologia, De Donato, Bari, 1969 (tit. orig. The Biology of ultimate concern, New York, 1967)

18M. Respinti, Processo a Darwin, Piemme, Milano 2007, pagg 60-66

19R. Fondi, in G. Sermonti e R. Fondi, Dopo Darwin, Critica all'evoluzionismo, Rusconi 1980, pp. 164-167. Gli esperimenti di Miller hanno in ogni caso prodotto non un sistema organico vivente ma elementi privi sia di qualsiasi funzione che di tendenza alla riproduzione, a partire da precursori solo ipoteticamente simili a quelli presenti nelle altrettanto ipotetiche primitive condizioni ambientali della Terra.

20Jonathan Wells, Icons of Evolution: Science or Myth? Why Much of What We Teach About Evolution is Wrong, Regnery Publishing, 2000, pp. 141-151. Su tale e forse unico tentativo “sperimentale” di provare l’evoluzione sono sorte diverse perplessità sia sul metodo sia sulla consistenza delle prove per alcuni addomesticate a dimostrazione forzosa della tesi.