DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La sapienza riconosce il re bambino

Due affreschi con l'Adorazione dei Magi scoperti in Sicilia





La sapienza riconosce il re bambino

di Fabrizio Bisconti

I fortunati scavi che hanno interessato il grande complesso cimiteriale scoperto a Villagrazia di Carini hanno riportato alla luce uno dei siti di archeologia sacra più estesi e integri della Sicilia occidentale e dell'intero orbis christianus antiquus. Si tratta di una catacomba comunitaria che assorbe, nel maturo iv secolo, i riti e le tipologie funerarie diffusi a Roma, a Napoli, ma anche nell'Africa settentrionale; anzi, alcune sepolture, ancora integre, presentano la tipica forma a "cupa", ossia una copertura in muratura a baule assai diffusa nelle necropoli tardo antiche scoperte in Tunisia e in Algeria. Anche le decorazioni pittoriche, pur estremamente provate, propongono quel repertorio "mediterraneo" caro alla pittura delle catacombe siciliane, sarde e anche laziali, con scene estremamente semplici e schematiche, calate in un ingenuo paradiso costellato di fiori, di piccoli festoni, di petali e boccioli, come per ricordare che il paradiso dei primi cristiani non era diverso dal locus amoenus classico e che, dunque, era inteso come un profumato giardino fiorito.
Anche nelle catacombe di Villagrazia di Carini, dunque, molte tombe erano decorate da queste gioiose "tappezzerie floreali", ma nelle lunette di due arcosoli per bambino si riconoscono, secondo schemi estremamente simili, le rappresentazioni dell'adorazione dei Magi. L'episodio, stralciato dall'infantia Salvatoris, e costruito secondo un'organizzazione aulica che risponde, con una sottile vena polemica antimperiale, a quell'istanza che vuole il Cristo come vero re - dinanzi al quale si prostrano le autorità e i detentori del potere e del più alto potenziale economico - ebbe precoce fortuna nell'arte cristiana e sorge con un intento esplicitamente cristologico, calandosi perfettamente nella sostanza semantica dell'iconografia cristiana più antica.
Come è noto, il termine greco màgos, secondo quanto ricorda Erodoto (Storie, i, 101), vede indicare un personaggio esotico, genericamente proveniente dai territori asiatici, che si propone come una sorta di sacerdote, di saggio, di veggente, di astrologo, di interprete dei sogni, di incantatore, di stregone; ed è con questa gamma di accezioni che esso entra nell'Antico Testamento, specialmente in riferimento a quei maghi che si incontrano alla corte del faraone d'Egitto (Esodo, 7, 12) o di Nabucodonosor (Daniele, 2, 2).
Il Nuovo Testamento, per il tramite del vangelo di Matteo, ci presenta i magi come uomini devoti e sapienti, giunti da un'imprecisata località dell'Oriente, appartenenti a una casta sacerdotale persiana, in cammino, guidati da una stella che hanno visto sorgere e che realizzava la profezia messianica. Proprio nel vangelo di Matteo (2, 1-12), d'altra parte, emerge l'intima colleganza tra la concezione della regalità e quella della teologia del Figlio di Dio, che sfocia nel conseguente estuario semantico del tributo offerto al Bambino da personaggi di così alto rango.
Queste essenziali coordinate sono arricchite dai testi apocrifi che ricordano i nomi, il numero e altri dettagli relativi ai magi, che vengono sovraconnotati come re e , segnatamente, dal Vangelo Armeno dell'Infanzia il cui nucleo sembra piuttosto antico, ma che noi conosciamo in una redazione del vi secolo. A questo prezioso testo, dobbiamo associare il Libro della Caverna dei Tesori, sempre del vi secolo, ma infarcito di complicati elementi leggendari, provenienti dalla tradizione orientale, che ci parlano, ad esempio, dei doni dei Magi, già custoditi nel monte del Paradiso dai protoparenti.
I padri della Chiesa decodificano i particolari relativi alla venuta e all'adorazione dei magi, secondo un'esegesi allegorica, che cerca i risvolti simbolici sottesi, ad esempio, nella tipologia dei doni, considerando la regalità dell'oro, la divinità dell'incenso, l'umanità della mirra (Ireneo di Lione Contra Haereses, 3, 9; Ilario di Poitiers, De Trinitate, 2, 27; Origene, Contra Celsum, 1, 60), mentre Leone Magno (Sermo, 32) entra nel merito del profondo significato che può assumere l'astro che guida i magi, intravedendo nel misterioso segno di luce la traduzione del sacramento della grazia, proiettato nella dimensione epocale e universale del messaggio cristologico.
Per quanto riguarda il numero ternario dei magi, dipende, con buon margine di probabilità, dal numero dei doni, dal momento che il passo evangelico non è preciso a tal proposito, tanto che la prima iconografia cristiana è oscillante a questo riguardo, nel senso che, in alcuni casi, i magi adoranti sono quattro, come in un affresco delle catacombe di Domitilla del iv secolo, in altri sono due, come in una pittura del cimitero dei Santi Pietro e Marcellino, sempre del secolo iv.
La scena dell'adorazione dei Magi, così come appare, già nella prima metà del iii secolo, nella Cappella Greca delle catacombe di Priscilla, propone essenzialmente la figura di Maria, vestita in tunica e palla, solennemente seduta con il Bambino tra le braccia, mentre i tre magi, con il costume persiano, avanzano in processione recando i doni e, segnatamente, l'oro, che è rappresentato come corona o come monete, l'incenso, indicato da una pisside o da piccoli globi, la mirra, espressa da un vaso o da due ampolline. Le mani velate dei magi, la scansione processionale, il trono su cui siede Maria, il suppedaneo su cui poggia i piedi infondono alla scena quell'atmosfera aulica, di cui si diceva, che può essere paragonata a quelle rappresentazioni dei cortei dei barbari, che recano i loro tesori all'imperatore vittorioso.
La scena, così concepita, appare assai spesso nell'arte catacombale e dopo la prima manifestazione nelle catacombe di Priscilla, ancora nel iii secolo, ritorna una dozzina di volte nei cimiteri dei Santi Pietro e Marcellino, di San Callisto, di Domitilla, dei Giordani, di Marco e Marcelliano, di via Dino Compagni e nel coemeterium Maius.
Il tema arriva anche nella plastica funeraria, annunciato dalla lastra incisa di Severa, della fine del iii secolo, ora ai Musei Vaticani. Qui, la scena è arricchita da un personaggio che indica, come i magi, la stella, ponendosi alle spalle della Madonna, forse per rappresentare un profeta, dove possiamo identificare Isaia o Balaam. Dal iv secolo il tema si diffonde, con grande fortuna, e appare anche in sarcofagi celebri, come quelli di Boville Ernica, di Adelfia a Siracusa e addirittura nel cosiddetto Dogmatico, rinvenuto nell'area presbiteriale della basilica di San Paolo fuori le mura. La scena appare sempre secondo lo stesso schema e qualche volta, tra i magi, compaiono le teste dei cammelli, come per ambientare l'episodio evangelico, mentre, assai spesso, specialmente nei coperchi dei sarcofagi, la rappresentazione fa da pendant all'episodio veterotestamentario della condanna dei tre giovani ebrei nella fornace, forse per alludere al concetto della rinuncia dell'idolatria. A questo riguardo, appare interessante il caso del sarcofago di Catervio conservato a Tolentino: sul fianco sinistro appare la canonica adorazione dei magi, su quello destro si riconosce l'episodio relativo all'incontro tra i magi ed Erode, secondo uno schema che riprende quello, pure fortunato, dei tre fanciulli che rifiutano di adorare l'idolo dinanzi a Nabucodonosor.
Dal v secolo, il tema inonda l'arte musiva monumentale: dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore alla basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna e fluisce nelle arti minori, come in una formella della porta lignea di Santa Sabina e nella colonnina del ciborio di San Marco a Venezia, giungendo a decorare, ad affresco, i più prestigiosi edifici di culto bizantini e altomedievali, come la celebre chiesa di Santa Maria Antiqua e quella di Santa Maria di Castelseprio.
Il lungo itinerario iconografico dell'adorazione dei magi è interminabile e si diffonde capillarmente, fino a interessare gli oggetti più preziosi, come la veste di Teodora nel celebre mosaico ravennate di San Vitale, il reliquiario argenteo dei Santi Nazario e Celso a Milano, la raffinata cassetta eburnea di Werden, la suntuosa copertura dell'evangeliario di Milano, la pisside del museo del Bargello a Firenze, il reliquiario argenteo del castello di Brivio ora al Louvre, il famoso dittico di Murano.
L'interminabile storia figurativa di questo tema, tanto aderente al luogo evangelico quanto coinvolto con l'arte aulica del cerimoniale imperiale, anche quando tocca gli apici dell'arte monumentale e di quella suntuaria, non perde mai la freschezza dello schema originario che vede esprimere, in prima battuta, il riconoscimento della divinità di Gesù, anche da parte dei potenti e dei sapienti.
Questo limpido significato, complicato dalle leggende e dalla produzione esegetica più sofisticata, rimane intatto ed emerge, con tutta la sua sorprendente essenzialità, nelle più antiche rappresentazioni figurative: quelle che i cristiani delle prime generazioni fanno dipingere sulle tombe dei loro cari. I due affreschi appena scoperti nelle catacombe di Villagrazia di Carini arricchiscono il repertorio iconografico, che conta già un numero incalcolabile di esempi dislocati in tutto il mondo cristiano antico, e conferma l'amore delle prime comunità cristiane per un tema, che dispone in un "faccia a faccia" eloquente e suggestivo la regalità divina ed eterna e la regalità temporanea ed effimera.

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Nella catacomba l'eco di Nicea



di Rosa Maria Carra Bonacasa
Ordinario di Archeologia Cristiana
Università degli Studi di Palermo



Nel 1873 il principe Giuseppe De Spuches recuperava occasionalmente nella contrada San Nicola di Carini, pochi chilometri a ovest di Palermo, un interessante mosaico policromo, che ritenne appartenesse a una chiesa paleocristiana. Il mosaico venne strappato dalla sede originaria per decorare uno dei saloni del palazzo De Spuches-Galati, sulla via Cavour a Palermo.
Nel 1899 Antonio Salinas nella località Villagrazia di Carini, nei pressi della contrada San Nicola, riconosceva la presenza di una catacomba paleocristiana che si sviluppava a nord e a sud della strada statale 113, ed era stata tagliata in due parti distinte da una cava di pietra moderna.
Il Salinas riconobbe l'importanza storica della scoperta in quanto prova tangibile della diffusione della religione cristiana in uno di quegli insediamenti rurali che caratterizzarono tra l'età costantiniana e l'VIII secolo il territorio di gran parte della Sicilia. Eppure gli echi delle due scoperte non ebbero seguito nel secolo XX con indagini programmate, fino a quando, nell'anno giubilare 2000, intervenne la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra che avrebbe promosso e sostenuto un'intensa attività di ricerche archeologiche, in collaborazione con il dipartimento di Beni Culturali dell'università di Palermo, con l'amministrazione comunale di Carini e con la soprintendenza per i Beni Culturali di Palermo.
Le indagini hanno riguardato le gallerie VII-X, asse portante del cimitero che incrocia le gallerie VIII-IX e XII - tutte invase da detriti alluvionali. Alla confluenza dei bracci i grandi lucernari P6 e P8 garantivano l'areazione e la luce. Anche le gallerie I-VI, già intercettate dal Salinas, sono state oggetto di interventi esplorativi finalizzati alla fruizione del monumento.
La regolarità di progettazione caratterizza l'impianto del cimitero che si oggettiva nello sfruttamento razionale degli spazi, anche con la ricerca di nuove soluzioni, come l'ambulacro continuo della galleria II, i cubicoli VI, VIII.19, X.10, e XIII, l'associazione delle tombe "a mensa" con gli arcosoli nelle gallerie VIII, IX, X e XII.
Le semplici fosse sul pavimento delle gallerie e dei cubicoli rappresentano un intervento successivo allo sfruttamento sepolcrale delle pareti. Si ha infatti la chiara sensazione che da una pianificazione originaria dei corridoi, modulata sulla ricorrenza di grandi arcosoli o di nicchie monumentali, uguali fra di loro e spesso simmetricamente affrontati ad altezza d'uomo, e intervallati da arcosoli per bambini, disposti in pile ordinate, e da tombe "a mensa", si passi in qualche caso alla realizzazione di aree sepolcrali esclusive, appannaggio di una committenza abbiente, come i cubicoli X.10 e VIII.19, o il vano XIII che nascono dalla trasformazione di arcosoli preesistenti, ma sempre nel rispetto dell'impianto originario della struttura, certamente nata come un cimitero comunitario, sui modelli romani più evoluti, nella prospettiva, tutta cristiana, di dare degna sepoltura ai fratelli nella fede.
L'indagine stratigrafica e l'analisi strutturale unitamente alla cronologia delle pitture, riportate alla luce coi restauri degli ultimi anni, e dei pochi oggetti del corredo finora recuperati, hanno consentito di stabilire che l'impianto della catacomba è posteriore alla pace costantiniana e che il periodo di maggiore uso del cimitero si colloca tra l'avanzato iv e il pieno vi secolo. L'attardamento nell'uso di spazi funerari preesistenti fino alla conquista islamica della Sicilia, è una ipotesi di lavoro che si fonda sulla menzione di una ecclesia carinensis riportata in una epistola di Gregorio Magno del 595, che sottintende la presenza di una comunità cristiana, organizzata nel territorio di una "diocesi rurale". È ipotesi plausibile che per la comunità cristiana questo cimitero, così prossimo all'insediamento, abbia rappresentato un concreto punto di riferimento, anche come spazio cultuale, come avviene spesso nelle catacombe cristiane di Roma fino alla creazione di basiliche funerarie ad corpus.
La comunità carinense ha riservato una particolare cura alle sepolture destinate a bambini, sia nella disposizione ordinata degli arcosoli, in pile sovrapposte e negli spazi liberi tra le sepolture per gli adulti; sia nel ricorrere di frequente all'uso della tomba "a mensa", forse la più adatta per la deposizione del corredo rituale; sia ancora nella rifinitura accurata dello spazio architettonico, che si tratti di un semplice rivestimento di intonaco e cocciopesto, o di una decorazione dipinta.
Non è certo casuale che i documenti pittorici più significativi, finora recuperati, riguardino proprio quattro arcosoli per bambini:
- l'arcosolio X.2, all'incrocio tra le gallerie VII-X e VIII-IX, utilizzato per nove inumazioni;
- l'arcosolio X.10.A4 sulla parete meridionale del corridoio di accesso al cubicolo X.10, già violato in antico;
- i due arcosoli X.10.9 e X.10.10 sulla parete meridionale del cubicolo X.10, che si distinguono per l'elaborata decorazione pittorica che allude all'ambiente paradisiaco.
Nell'estradosso dell'arcosolio X.10.9 spiccano due figure stanti nell'atteggiamento dell'orante. La lunetta, intatta, conteneva una bella scena di adorazione dei Magi ispirata alla iconografia canonica di tradizione evangelica e che, per ragioni stilistiche e iconologiche, è stata ricondotta alla temperie culturale che caratterizza le espressioni più mature della pittura funeraria paleocristiana.
L'atteggiamento della Madonna è composto e sobrio nell'abbigliamento; il volto minuto, dall'ovale aggraziato, è caratterizzato dallo sguardo attento rivolto verso i Magi. Il Bambino siede sulle ginocchia della Madre trattenuto da lei col braccio sinistro; della figurina un po' sfumata si riconoscono il volto dai grandi occhi profondi, la frangia compatta sulla fronte, il corpicino vestito di una corta tunica manicata che lascia nude le gambette. Sul capo spicca ben distinta nel colore intenso giallo-oro la stella di cui parla il vangelo di Matteo (2.1-12. 16).
La scena è ripetuta con piccole varianti nella decorazione dell'altro arcosolio X.10.A4 ricavato nel corridoio di accesso al cubicolo. I tre Magi incedono, in fila, con passo cadenzato verso il seggio con alta spalliera, che accoglie la Madonna col Bambino in grembo, recando i doni su vassoi dorati sorretti dalle mani velate. L'iter processionale è la trasposizione dell'omaggio che il rituale della corte imperiale prevedeva per il sovrano. In tal senso le due scene di Villagrazia assumono una profonda valenza simbolica in quanto associano il concetto del Cristo-Messia, rappresentato dalla stella che guida i Magi, a quello del Cristo-Re, cui gli stessi Magi rendono omaggio. I due concetti sanciti dal primo concilio di Nicea del 325 sono indicatori della fede che animava i committenti delle due pitture che hanno inteso ribadire la loro ortodossia collocando sulla tomba dei figli, scomparsi prematuramente, l'immagine del Bambino colto nell'atteggiamento, tutto umano, della vivacità di un infante, attratto dai doni degli illustri visitatori. Questa umanizzazione della figura divina si ripercuote anche nella Madre, che ancorché seduta su un seggio dall'alta spalliera, che richiama quello della scena di annunciazione nella cattedra di Massimiano a Ravenna, non ha nulla di regale nell'atteggiamento, né nell'abbigliamento, né nel tipo di acconciatura assai semplice, ed è ben lontana dalle immagini di Maria in trono con Bambino angeli e santi che caratterizzano i mosaici delle chiese romane e ravennati, ma anche certe pitture delle catacombe di Roma.



(©L'Osservatore Romano - 4 gennaio 2009)