L’icona è liturgia; per lei la bellezza è un Nome divino che diventa divino-umano a Natale e «produce ogni forma di comunione».
Guardiamo all’Icona della Natività di Andrej Rublëv, dipinta a Mosca attorno al 1420: una montagna illuminata, come viva (in contrasto con la ripresa del tema, in alto a destra, in cui tutto resta aridità e morte). L’ocra leggera, quasi bianca, delle superfici, le pendici bruno chiaro che incorporano la luce, tutto sembra soleggiato interiormente. Dei tronchi senza rami, malconci, rinverdiscono davanti a strane pecore blu, nuvole attorcigliate.
Giardino della ri-creazione segreta in cui si riapre il paradiso nella luce di quell’altro giardino segreto che circonderà la tomba vuota. Dappertutto il cielo penetra la terra. Il blu leggero del vestito del Bambino ricompare, si accentua, nelle sei parti disposte a stella intorno alla composizione centrale, quasi circolare. Macchie blu striate di luce, quasi sempre messe in contrasto col rosso: contrasto d’incarnazione. E, chinati sul Bambino, movimenti d’ali che si ripiegano, tre angeli. Quando viene meno lo spazio che separa, sigillato dalla nostra finitezza, gli angeli sono presenti, uccelli dello spazio interiore in cui tutto va «di gloria in gloria», come la prospettiva inversa, nella parte alta dell’icona.
In centro, l’opposizione violenta della grotta e dei due corpi distesi, paralleli, scambio delle vite, quello del Bambino e quello della Madre. La grotta, completamente nera, è triangolare come un cuore alla rovescia: tenebre, anche in noi, dell’angoscia e dell’odio.
Ma ecco, in un lungo vestito bruno segnato sulla spalla e sulla fronte da una stella – per dire che il corpo, qui, è nell’anima –, ecco la Théotokos, la Madre di Dio, maestosa e segreta, coricata su un immenso cuscino purpureo dalle punte d’oro. Colori della metamorfosi, in cui il nero si satura a poco a poco di luce: la terra e la morte, attraverso la «Donna vestita di sole», diventano matriciali. Le fasce del Bambino s’identificano con le bende della sepoltura, creano una crisalide di risurrezione. Gli angeli presenti nel punto più opaco della terra simbolica sono già i messaggeri di Pasqua.
Eppure non c’è nessuna tenerezza sdolcinata tra la Madre e il Bambino.
Maria non guarda nessuno, né suo figlio né Giuseppe né chi contempla l’icona.
Pura interiorità: «Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore», dice Luca. Allo stesso modo sul Bambino non c’è un genitore ma un raggio dell’aldilà, condensato nella stella che si fa triplice per illuminare l’abisso: un Dio che si apre, che esce da sé per raggiungerci anche nel momento più tragico e farsi in noi germe di vita.
Trascendenza.
Nessuna voce umana nella grotta. Un bambino senza parola, tra animali senza parola né ragione, alogoi.
Devastazione volontaria di colui che è la Parola e la Ragione e che viene a dare senso al mondo, logos alogos.
La storia è anche là, i Magi, riconoscibili dal loro berretto iraniano (il punto rosso è una fantasia pentecostale del pittore – a Pentecoste una fiamma si posava su ciascuno), galoppano in alto a sinistra. I pastori, a destra della Vergine, ascoltano l’annuncio dell’angelo. Uomini delle transumanze celesti o terrestri.
In basso, in due vasti scomparti, si oppongono, nell’accoglienza al mistero, l’animus e l’anima, il maschile e il femminile. Due donne preparano il bagno del Bambino, minuscolo eppure adulto, perché è vecchio – e giovane – come l’eternità. Scene da miniatura ellenistica, due corpi curvati per proteggere, col seno offerto, che si aprono sull’acqua – le acque originarie e battesimali, il cuore di pietra liquefattosi.
A sinistra, Giuseppe è prostrato nel dubbio. Davanti a lui, sotto l’aspetto di un vecchio pastore, il Dubbio – in lui, fuori da lui – che tiene in mano un bastone spezzato, virilità decaduta. Ma all’estremità del bastone l’albero rinverdisce. L’albero, l’acqua: l’epoca risurrezionale comincia. L’icona è in noi, tutto ci è affidato.
Fonte : AVVENIRE