DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

l’Exit strategy del minotauro Viaggio nel labirinto della Svizzera smarrita tra pietà e persuasion di morte

Comincia dalla città prediletta da Friedrich Dürrenmatt, il viaggio nella Svizzera che molto ragiona sulle questioni ultime, che discute e legifera (lo ha appena fatto) sui modi di morire e che appare, anche su questo piano, ben decisa a tenersi strette le proprie singolarità. Un paese che tuttavia è sempre più costretto, con i suoi trecento suicidi assistiti l’anno, a valutare le conseguenze di una legislazione penale nella quale, fin dalle origini, si prevede di fatto la non punibilità dell’aiuto al suicidio, se fornito “per motivi onorevoli, segnatamente per pietà”. Un’impostazione ottocentesca, che non poteva fare i conti con l’era dell’offerta organizzata di aiuto al suicidio. E’ in questo varco che operano associazioni dai nomi che non sfigurerebbero nel “Mondo Nuovo” di Huxley, come Exit o Dignitas. Grandi agenzie di promozione del suicidio su richiesta (anche se soltanto una domanda su tre viene accettata) e che spiegano ai vecchietti negli ospizi come ci si possa liberare, all’occorrenza, di una vita diventata troppo scomoda o gravosa. Agenzie che, oltretutto, attirano dall’estero un turismo suicidario (cinquanta casi su trecento riguardano stranieri) di cui perfino l’imperturbabile Confederazione elvetica non può essere contenta. Ma, accanto a questa Svizzera, c’è anche quella delle associazioni protestanti e cattoliche che lavorano per promuovere le cure palliative, o le organizzazioni per la tutela dei disabili, come la grande Pro Infirmis, che riesce a ottenere norme pionieristiche a tutela dei più deboli.

A tenere insieme tutto, c’è la capacità di un popolo, né veramente nordico né mediterraneo, che ha saputo trasformare in istinto naturale la storica e culturale necessità di mediare, discutere, armonizzare, contemperare, salvando allo stesso tempo una certa idea di libertà e di autodeterminazione. Ci sono ventisei cantoni di cui tener conto, e diverse chiese – la cattolica e le chiese protestanti – a loro volta dotate di autonomia cantonale. E’ proprio l’idea di autodeterminazione a dominare su tutto e a tenere insieme tutto, come se l’incubo del “Minotauro” di Dürrenmatt, la prigionia impotente in un labirinto che non si è scelto e da cui non si riesce a evadere, fosse l’incarnazione di un’angoscia nazionale da tenere continuamente a bada.

E’ per questo che di “promozione dell’autodeterminazione della persona” ci parla subito il giurista Olivier Guillod, direttore dell’Institut de droit de la santé di Neuchâtel, per spiegare la genesi, dopo dieci anni di lavoro, dell’approvazione di una riforma del diritto civile nella quale si introducono a livello confederale, e tra molto altro, le direttive anticipate sui trattamenti medici e la possibilità di nominare un rappresentante che prenda decisioni per chi non fosse in futuro più in grado di intendere e di volere.
Su questo campo, tuttora minato, di confronto in Italia – a seguito del caso Englaro e mentre è ancora in corso la discussione parlamentare sul biotestamento – in Svizzera ci sono andati con i piedi di piombo. Guillod spiega che “c’è stato un percorso molto lungo e capillare di consultazioni, con vari progetti preliminari e molti pareri chiesti. Grazie a questo, nessuno si è opposto con richiesta di referendum al testo ora approvato, che prevede l’obbligo per il medico – con alcune eccezioni – di rispettare le decisioni espresse con direttive anticipate dal paziente (anche se all’inizio metà della commissione incaricata di studiare il provvedimento era contraria a questa vincolatività)”. Nelle direttive si può chiedere al medico di astenersi da qualsiasi trattamento, comprese la nutrizione e l’idratazione assistite. La forma deve essere “scritta, con data e firma”, ma per il resto rimane libera “perché una modulistica troppo generica o troppo particolareggiata rischierebbe di creare problemi”, dice Guillod, mentre “si cerca di valorizzare il rapporto con il medico di fiducia e con il rappresentante designato”. Il giurista, che ha partecipato ai lavori della commissione incaricata di elaborare la legge, ci tiene a sottolineare che con le direttive anticipate “non si può chiedere il suicidio assistito, che ha bisogno di una volontà piena e consapevole in atto”.

Esprime anche la sua contrarietà all’invadenza delle organizzazioni che fanno marketing del suicidio, “ma si sta pensando a una legge che consenta una sorveglianza minima su alcune di queste organizzazioni, in particolare Dignitas”. Guillod spiega anche che “nessuno, nelle strutture pubbliche, ha l’obbligo di rispondere alle richieste di suicidio assistito, che invece sono possibili a opera di personale esterno”, perché la mano che cura non può essere la stessa che offre il bicchiere con il mortale pentobarbital. Ma “ci sono municipalità, come Zurigo, che vietano comunque l’attuazione del suicidio assistito negli ospizi comunali”. La volontà di morire non è, in teoria e soltanto in teoria, sufficiente per ottenere un suicidio assistito: “Andrebbero sempre aggiunti motivi di ordine clinico, come una malattia terminale, e si dice anche che la volontà di morire non dovrebbe essere espressione della malattia psichica di cui si soffre, come la depressione. Ma come è possibile stabilire se voglio morire perché sono depresso o se voglio morire al di là del fatto che sono depresso? Io stesso non saprei quali criteri usare. Il risultato è che Exit procede a pratiche di suicidio assistito in caso di malattia soltanto psichica nella parte tedesca del paese, mentre non lo fa nella Svizzera romanda”.

La mostra sulle cure palliative, ospitata nelle cantine del Palais di Neuchâtel, si intitola “Si un jour je meurs…”. La organizza la fondazione “La Chrysalide”, collegata all’ospedale cittadino, perché “è più facile capire il concetto di eutanasia e di suicidio, piuttosto che quello di cure palliative – dice il presidente della fondazione, Michel von Wyss – e allora noi lavoriamo per spiegare che il dolore si può alleviare, che si può seguire l’evolvere naturale della malattia, senza accelerare la morte”. L’infermiera Cecilia Bisi aggiunge che “è importante sostenere le famiglie dei malati. In dieci anni di attività, tra le persone che abbiamo seguito, soltanto tre hanno chiesto il suicidio assistito e lo hanno ottenuto, fuori dalle nostre strutture”. La terza via tra accanimento e eutanasia viene spiegata con pacatezza, e sempre sottolineando che “si rispetta l’autonomia dei pazienti, e non si condannano scelte diverse. Ma qui non si viene a chiedere il suicidio”.

Più tardi, a Berna, incontriamo il consigliere e delegato di Pro Infirmis, Ruedi Prerost. Un uomo vigoroso che si muove in carrozzella, e che dopo il nostro incontro salirà in macchina e guiderà fino a casa, nel Canton Ticino. Scherza sulla sua “carriera di handicappato”. Sano fino a trent’anni, due anni di immobilità assoluta dopo un’operazione al midollo, quindici anni di stampelle e ora, da quindici anni, su una carrozzella, Prerost dice di sentirsi come “qualcuno che ha una vita faticosa, come un contadino dell’Ottocento, ma non soffro”. Per lui la parola autodeterminazione si declina soprattutto nel senso di affermazione del diritto “alla vita, all’assistenza e all’accesso alla scuola e al lavoro per gli handicappati”. Racconta che anche in Svizzera i margini economici per garantire tutto questo si vanno restringendo, “e allora bisogna essere vigili, perché sappiamo che in ogni liberalizzazione ci può essere un pericolo per il valore della vita dell’handicappato. Come associazione non ci opponiamo alla nuova legge sulle direttive anticipate, ma sappiamo che molto dipenderà dalla sua interpretazione. Tutti gli studi, ma anche la comune esperienza, dimostrano che più un malato ha l’impressione di pesare, più avrà voglia di morire, e viceversa”. A preoccupare Prerost è soprattutto “la tendenza a creare le condizioni per abbreviare la vita di persone che ‘costano’ tanto, come i malati di Alzheimer”.

Il professor Alberto Bondolfi, docente di Etica a Losanna, ha partecipato ai lavori della Commissione nazionale per la revisione del diritto di tutela, nel quale è contenuta la norma sulle direttive anticipate. Confessa però “di non aver ancora pensato a redigerle, perché ho fiducia in chi mi sta intorno”. La (non) scelta del professore non è, più di tanto, un’eccezione. Nonostante il biotestamento sia già da tempo oggetto di regolamentazioni cantonali, e nonostante il novanta per cento della popolazione si sia espresso nei sondaggi per la sua introduzione, si calcola che non più del dieci per cento lo abbia davvero stilato. Bondolfi sottolinea che in Svizzera c’è, insieme, “fiducia nel diritto e poca voglia di ricorrere ai giudici. Le direttive anticipate devono servire a eliminare margini di dubbio, ad avere meno casi conflittuali e a dare spazio a quella libertà negativa (non voglio quel certo trattamento o quell’intervento) che qui è considerata essenziale. Ne discende il vincolo all’osservanza da parte del medico, con alcuni limiti: le disposizioni anticipate non devono violare prescrizioni legali e non devono esserci dubbi sul fatto che possano essere frutto di costrizione”.

Il professor Bondolfi, ovviamente ottimista sulla funzione della legge che ha contribuito a scrivere, è invece preoccupato per quanto riguarda il suicidio assistito “e quello che questa opportunità sta provocando nella testa degli svizzeri”. Ci sono tremila suicidi all’anno su sette milioni di abitanti (trecento dei quali assistiti, a cura di Exit e Dignitas, come si è già detto), vale a dire uno dei tassi più alti d’Europa. Eppure, spiega Bondolfi, “non avrebbe senso, come pure si è pensato in passato, cambiare gli articoli del codice penale (114 e 115), il cui combinato disposto rende possibile la non punibilità dell’aiuto al suicidio. La Svizzera non è come l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, che hanno legiferato sul suicidio allo scopo di liberare il medico, e soltanto lui, dal peso del reato. Qui c’è uno spazio di ‘tolleranza’ di cui si può abusare da parte di alcune associazioni, ma nessuno vuole una lex mortis, che rischierebbe di creare un obbligo attivo dello stato. Un problema comunque c’è, e per questo anche la responsabile del Dipartimento della Giustizia, Eveline Widmer-Schlumpf, sta pensando a intervenire per controllare l’attività delle organizzazioni che si occupano di suicidio assistito”.

Nessuno, nemmeno le chiese, chiede attivamente di cambiare gli articoli del codice penale che “tollerano” l’aiuto al suicidio, ma semmai di arginare le organizzazioni che lo trasformano in missione e di scongiurare una loro modifica peggiorativa. Il dottor Frank Mathwig, incaricato delle questioni etiche nella Federazione delle chiese protestanti svizzere, spiega che “nel dibattito sull’eutanasia e l’aiuto al suicidio consideriamo tre elementi: la tutela della vita, il valore dell’autonomia e quello dell’assistenza ai più deboli. Le chiese evangeliche cercano costantemente di trovare un punto di equilibrio tra questi tre aspetti, sapendo che dall’assolutizzazione dell’autonomia non può discendere un ‘diritto alla morte’ che obblighi lo stato a esaudirlo. Né all’autonomia può essere legato il concetto di dignità umana. Non è dotato di dignità soltanto chi può decidere”. Mathwig, che a titolo personale non si dice contrario alle nuove direttive anticipate, ricorda che “in Germania esistono ma non sono vincolanti, e non possono andare contro l’ethos del medico”.

La chiesa cattolica – spiega infine il sacerdote André-Marie Jerumanis, docente di Teologia a Lugano e rappresentante della Conferenza dei vescovi svizzeri – difende un criterio di dignità umana che può essere accettato anche da chi non ha fede. E’ quello che vorrei dire al vostro presidente della Camera, Gianfranco Fini, quando parla di leggi che non devono essere ispirate dalla religione. Qui non si tratta di principi di fede, ma di una visione dell’uomo che è la stessa di filosofi laici come Hans Jonas. Delle direttive anticipate, sulle quali come Conferenza episcopale svizzera non ci siamo ufficialmente pronunciati, non penso siano da rifiutare a priori, ma non nascondo che rimane critico l’aspetto della vincolatività. Il medico potrà sempre obiettare che la sua scienza e la sua coscienza gli impediscono di adempiere a certe indicazioni, e allora un provvedimento che dovrebbe risolvere certi problemi ne creerà fatalmente altri e provocherà altri conflitti. Lo dice anche la Convenzione di Oviedo: nessuna legge può intervenire su un aspetto che pertiene esclusivamente al medico. Togliergli la libertà di coscienza sarebbe molto grave. A proposito dell’autonomia dell’individuo, dobbiamo ricordarci che si tratta di un concetto che deve tener conto della relazione, non può trasformarsi in autoreferenzialità”.

di Nicoletta Tiliacos