Mentre in Svizzera la popolazione si
pronuncia contro il proliferare di
minareti islamici, svettanti sulle case e le
chiese degli indigeni, vedendo in essi una
minaccia culturale e politica, nella
Spagna di Zapatero la deriva nichilista si
manifesta nel più acceso odio di sé e
della propria tradizione avita. Non basta,
ai progressisti spagnoli, equiparare i
diritti delle scimmie a quelli degli
uomini; neppure è sufficiente
smantellare ogni giorno i valori della
cristianità, sostituendoli col più triste e
infelice individualismo, che è poi quanto
resta dopo l’ideologia alienante del
comunismo. Occorre fare di più, occorre
riscrivere la storia, con un solo intento:
svillaneggiare il passato cristiano della
Spagna e deturparne il ricordo. Così i
socialisti spagnoli propongono di
risarcire nientemeno che i tris-nipoti dei
tris-nipoti dei moriscos cacciati dopo la
Reconquista del 1492! Ecco, similmente,
il successo di un romanzo antispagnolo,
“La mano di Fatima di Ildefonso
Falcones”, subito adocchiato anche dalla
sinistra nostrana! Cosa si dice in questo
libro cui gli spagnoli hanno tributato
tanto successo? Si racconta la storia dei
“poveri” islamici, “stanchi di ingiustizie e
umiliazioni”, che si battono contro i
cattivi cristiani! Il protagonista, siamo nel
1568, è “un ragazzo di quattordici anni
dagli occhi incredibilmente azzurri”, nato
dall’atrocità di un prete cristiano, guarda
caso un prete!, che ha stuprato una
povera donna morisca! Il libro, secondo i
giornali progressisti, ricostruirebbe le
discriminazioni dei cristiani e la loro
intolleranza. Ma come sono andate
realmente le cose in Spagna: chi sono
stati gli aggrediti, gli intolleranti, e chi gli
aggressori, le vittime? Nel 711 la Spagna
viene assalita da settemila Berberi del
Marocco convertiti all’islam e dediti alla
“guerra santa” contro gli infedeli. Sono
gli anni in cui l’islam si espande con
velocità inaudita, conquistando una a una
le terre cristiane, dalla Siria all’Africa
del nord. Il Mediterraneo, infestato dai
pirati saraceni, diviene impraticabile per
gli europei; muoiono i commerci, le città
sulle coste decadono, e, come ricorda lo
storico Henri Pirenne, per la prima volta
l’occidente latino si trova isolato ed
escluso dal contatto con i paesi a sud del
mare nostrum. In pochi anni cadono sotto
i musulmani Lisbona, Cordova, poi la
Sicilia e altre isole del Mediterraneo.
Nell’840 i musulmani saccheggiano
Roma, rapinando e uccidendo senza
pietà. A breve, sulle coste italiane
inizierà a riecheggiare il noto grido di
terrore: “Mamma li Turchi”. Ebbene la
Spagna cristiana subisce il giogo islamico
per oltre sette secoli. Si libererà con la
conquista di Granada nel 1492, in una
battaglia a cui partecipano, a fianco degli
spagnoli, francesi, tedeschi, svizzeri,
inglesi… Pochi anni prima i musulmani
hanno distrutto e conquistato
Costantinopoli, pronti a chiudere
l’Europa in una morsa (1453). Durante la
presa di Granada, come racconta lo
storico J.Dumont (“La regina diffamata”,
Sei), i “re cattolicissimi” “hanno proibito
ai cristiani rappresaglie o saccheggi”, che
in effetti non si verificano. Ma cosa fare
dei moriscos, una volta liberata la città?
Isabella e Ferdinando, dal 1492 al 1499
propongono la conversione volontaria,
senza imposizione, concedendo nel
contempo moschee, libertà di culto e di
costumi. Ma la politica tollerante non ha
successo: molti moriscos sono sempre
pronti alla sedizione e alla prova di forza.
E’ in questa situazione, dopo l’ennesima
ribellione, che i re di Spagna, nel 1501, li
invitano a una scelta estrema: o la
conversione, volontaria, o l’esilio, il
ritorno nelle proprie terre. Dopo sette
secoli di oppressione islamica, non se ne
ha diritto? Convertendosi liberamente,
scrive il Dumont, i moriscos “potevano
conservare i costumi musulmani, le
abitudini more, l’uso della lingua araba…
La conversione diveniva un modus
vivendi tra cristianesimo di principio e
islam di fatto”. Infatti molti accetteranno
queste condizioni. Sarà solo nel 1566-68,
dopo che i Turchi hanno lanciato una
poderosa offensiva nel Mediterraneo e i
Mori nordafricani hanno razziato le coste
della regione di Granada, in combutta coi
moriscos “spagnoli”, riforniti di armi
raccolte in una moschea di Algeri, che
Filippo II proibirà l’uso della lingua,
degli abiti e dei costumi arabi, e imporrà
a tutti i moriscos di imparare lo spagnolo
entro tre anni, favorendo i matrimoni
misti. In questi anni, scrive lo storico H.
G. Koenigsberger, i frequenti attacchi
turchi alle navi, ai villaggi e ai porti della
Spagna meridionale, “contribuirono a
tenere continuamente vivo il senso di
minaccia” negli spagnoli, mentre “i
contatti (dei turchi, ndr) con i moriscos di
Granada portarono il pericolo
musulmano nel cuore della Spagna”
(Cambridge University, Storia del mondo
moderno, vol. III). Infine, nel 1609,
quando si apprese che “i moriscos
complottavano con i barbareschi ed
Enrico IV, nemico della Spagna, per
organizzare una nuova sollevazione,
estesa a tutto il regno”, Filippo II ordinò
l’espulsione di 300 mila di loro. Erano
passati sette secoli di dominio islamico e
oltre cent’anni di falliti tentativi di
convivenza: con quale coraggio Mario
Vargas Llosa e altri intellettuali
“progressisti” con le loro analisi banali,
scontate, ripetitive, straparlano, a
proposito di queste vicende, di
“intolleranza religiosa” e “pregiudizio
razzista”?
Francesco Agnoli
Il Foglio 10 dic. 2009