Le narrazioni della tv sono, oltre che mondi possibili, mondi ammobiliati Che sarebbe la «Recherche» senza quel biscotto nel tè? Ma è il piccolo schermo che costruisce universi arredati da feticci: dal giubbotto di Fonzie ai taxi gialli di New York
di Aldo Grasso
Quando il virtuale prevale sul reale
La nostra mente è popolata da oggetti: d'uso, del desiderio, di conoscenza, magici, smarriti, inservibili, preziosi, libidici, di culto. Oggetti, cioè cose che ci sono appartenute e hanno lasciato un segno; magari «buone cose di pessimo gusto», secondo la poetica degli oggetti di Guido Gozzano. Di solito siamo convinti che l' uomo sia la misura delle cose che crea; più spesso dimentichiamo che è vero il contrario: le cose sono la misura dell' uomo. E infatti molti di questi oggetti che ci portiamo dietro - rigattieri che trascinano il loro carretto stracolmo - sono immateriali, appartengono alla nostra immaginazione. Ci sono stati prestati dalla letteratura, dal cinema, dal teatro, dalle vetrine. Emil Cioran diceva che il romanzo contemporaneo assomiglia a un monologo il cui contenuto si riduce a una sfilata di oggetti. Le grandi narrazioni sono «mondi possibili» ma sono anche «mondi ammobiliati»: ambienti popolati dai personaggi principali e riempiti da scenografie di sfondo, da accessori animati e inanimati, da dettagli forse minori eppure essenziali per rendere il racconto verosimile e coinvolgente, o per comunicare tracce di senso. Cosa sarebbe la Recherche senza madeleine? E il teatro di Cechov senza ciliegi? E Via col vento senza vestiti fatti con le tende? Ognuno di noi potrebbe comporre lunghe liste di oggetti virtuali, una personale filosofia dell' arredamento, un catalogo della cultura pop alimentato solo da letture e visioni, dove però le cose recano l' impronta fisica e insieme simbolica del passare del tempo, e dunque assumono un valore esistenziale, materiale e allusivo. Anche Sherry Turkle, una studiosa del Mit, ha dedicato molte ricerche al significato che diamo nella vita di tutti i giorni agli oggetti, in particolare quelli tecnologici. Nel suo ultimo libro, La vita nascosta degli oggetti tecnologici (Ledizioni), la Turkle parte proprio dall' idea che viviamo le nostre vite circondati dalle cose e, attraverso memoriali biografici del nostro rapporto con esse, cerca di restituire i modi in cui facciamo esperienza degli oggetti. Pensiamo, per esempio, a come la collocazione del televisore nello spazio del salotto di casa rifletta una vera e propria cosmologia culturale: nelle nostre case, che posizione occupa il totem tv rispetto alle librerie, ai divani, alle finestre? Da più di cinquant'anni anche la nostra tv produce oggetti: dalle cabine dei quiz di Mike Bongiorno ai sinistri plastici che si stagliano nel salotto di Bruno Vespa, dai fagioli di Raffaella Carrà ai mappamondi dei telegiornali, dalle invenzioni di Portobello alle suppellettili della casa del Grande Fratello. Ma è la serialità americana a costruire grandi mondi di pura invenzione, riccamente ammobiliati, debordanti di oggetti. Ogni finzione narrativa vive di un' ambivalenza di fondo: mentre fabbrica un mondo concluso e arredato, con i suoi personaggi, i suoi eventi e i suoi oggetti, di esso può raccontare solo una minima parte; a questo punto interviene lo spettatore che è chiamato ad arricchire e completare, aggiungendo i tasselli mancanti attraverso un processo di proiezione fantastica. L'ampiezza temporale lungo cui si distendono le puntate amplifica poi la costruzione di una progressiva intimità con l' universo narrativo, che diventa - questa la grande novità rispetto ai libri o al cinema - sempre più uno spazio reso proprio, un luogo privato che si può visitare infinite volte, confortati dal ciclico ritorno dell' identico. Nel susseguirsi delle puntate, l'accumulo di materiale visivo accresce progressivamente il numero di dettagli, oggetti, cose. La narrazione si fa ricca e complessa, l'arredo di serie ricolmo, saturo di particolari che s' impara a riconoscere e ad associare indissolubilmente a un telefilm: il giubbotto di pelle di Fonzie in Happy Days, le palme di Miami Vice, i cercapersone dei medici di E.R., il poster «I want to believe» nell' ufficio dell'agente Mulder in X Files, le sigarette e le guêpière di Mad Men. I migliori telefilm si esaltano nella sceneggiatura, nella regia, nella recitazione, ma soprattutto nell' ambientazione, nella ricchezza sovrabbondante di rifiniture che rendono il mondo di invenzione un universo noto e conosciuto. Come ha insegnato Roland Barthes in Miti d' oggi (Einaudi), le cose non sono solo costruite materialmente, ma marchiate da chi le possiede attraverso un processo cognitivo. Vivono una vera e propria biografia culturale, possono essere oggetto di esercizi di psicoanalisi, diventare miti. Così l' impermeabile del tenente Colombo, logoro e stropicciato, ma indossato in ogni indagine, diventa il tratto distintivo della serie. Il suo aspetto dimesso fa sì che il colpevole cada nell' errore di sottovalutare l' investigatore, innescando la dinamica drammaturgica alla base di tutti gli episodi. Così gli agenti della scientifica di C.S.I., dotati delle più sofisticate apparecchiature elettroniche, accorrono sulla scena del delitto e cominciano a scrutare ogni più piccolo dettaglio: briciole, granelli di sabbia, gocce, pulviscoli, cenere. Non interrogano gli uomini (a loro le confessioni poco importano, l' umano forse ancora di meno), interrogano il particolare, l'impronta, l'oggetto. «Bisogna cercare di vedere ciò che non si vede... l'evidente», secondo una delle più celebri frasi della serie. La seduzione esercitata dagli oggetti chiama in causa l' importanza dello sfondo nella serialità americana: piena di particolari, è ciò che l' occhio dello spettatore cattura di sfuggita, senza intenzione, perché concentrato sui protagonisti, sui dialoghi, sull'evoluzione della trama. Poi, dal fondale si ritaglia un dettaglio minore, si sposta l' attenzione dai protagonisti in scena a un oggetto: i grembiuli da cucina di I Love Lucy e The Honeymooners, le prime sitcom familiari ispirate alla middle-class cittadina. Il diario di Laura Palmer in Twin Peaks, una delle prime estensioni mediali da telefilm, che evoca la normalità della reginetta del liceo di un sobborgo qualunque, ma al tempo stesso squarcia il velo su un universo misteriosofico e paranormale (il cui rovescio è simboleggiato da crostate di ciliegie e caffè fumanti). Le tazze colorate del Central Perk Cafè in Friends, celebrazione dei valori di una serie basata sulle conversazioni tra amici, sulla ricerca costante di un interlocutore con cui spartire lo spleen esistenziale, simulacro della generazione dei trentenni negli anni Novanta. Le Manolo Blahnik di Carrie in Sex and the City, che inaugurano un uso molto innovativo dei costumi di scena: non solo gli abiti sono una diretta espressione dei personaggi e aiutano enormemente la loro caratterizzazione, ma la moda diventa quasi un' identità a sé, separata da tutto il resto. Quasi, appunto, un altro personaggio. Sex and the City sarebbe la stessa cosa senza i taxi gialli che sfrecciano per le strade di Manhattan, senza i «Cosmopolitan» delle quattro amiche, senza il Mac di Carrie sempre acceso nel suo salotto? La serie, prodotta alla fine degli anni Novanta, ha scosso lo scenario della serialità dei network storici all' insegna dell'innovazione stilistica e della libertà espressiva, ed è una delle prime in cui gli oggetti sono consapevolmente inseriti nella narrazione come feticci culturali, in cui gli interni firmati e gli abiti di lusso tracimano dal testo televisivo per diventare oggetti del desiderio attraverso cui affermare la propria immedesimazione nello stile di vita e nelle psicologie delle protagoniste. Gli oggetti dunque si fanno retorica, con un' auto-evidenza impensabile per qualunque altro sistema di segni. Come Tony Soprano si reca dall'analista per curare la depressione, così noi spettatori possiamo psicanalizzare il décor del mondo seriale in cui vive, gli oggetti che lo popolano: i braccialetti di pesante oro giallo, il grosso anello da mignolo, le polo fantasia Wal-Mart che Tony indossa in alternativa a completi anonimi, l'accappatoio bianco con la S ricamata, l'arredamento borghese della villetta con piscina. Oggetti familiari che evocano i due piani su cui è giocata I Soprano: la confessione alla psicoanalista e le scene di vita quotidiana di Tony, un personaggio di insolita complessità, diviso tra le sue due «famiglie». Un uomo apparentemente normale che è, nel contempo, uno spietato boss mafioso. In quest'oggettistica da grande magazzino, condensato della cultura di massa, c' è tutta la distanza tra la storica mafia newyorkese del Padrino e i nuovi boss del New Jersey. Dai grattacieli cittadini alle villette a schiera con giardino: cambia l' arredo di serie, cambia il senso del luogo, cambia il senso. L'ambiente seriale per eccellenza, lo sfondo che più ha definito il senso del luogo nelle modalità di rappresentazione della serialità americana, tagliandone trasversalmente la storia, è proprio la città. La rappresentazione della metropoli come luogo pericoloso e labirintico ha dominato anche la serialità degli anni Ottanta, espressione delle inquietudini dell' età reaganiana. La serie più rappresentativa del decennio è il poliziesco Hill Street Blues. La città in cui è ambientata la serie non viene mai identificata con un corrispettivo reale, ma concentra in sé tutte le caratteristiche tipiche dei quartieri più difficili delle metropoli americane. Il capitano Frank Furillo conclude tutti i rapporti mattutini ai suoi uomini con il monito: «State attenti là fuori», consapevole che il compito dei poliziotti per le strade è quello di mantenere un ordine sufficiente a far sì che la vita prosegua giorno per giorno. Lo stile visuale della serie mette in scena la città come uno spazio minaccioso, dominato da disordine, graffiti, edifici abbandonati, accampamenti di homeless. Lo scenario urbano, disordinato e caotico, improntato alla devianza sociale, rende lo sforzo dell' eroe poliziotto sempre vano, mai risolutivo. Le estetiche e lo spirito del decennio sono però ben raffigurate anche da una serie agli antipodi rispetto a Hill Street Blues, Miami Vice, in cui la vera protagonista è una città patinata, fatta di ville sul mare, palme, colori déco macchine e vestiti griffati. L' arredo urbano seriale non disegna solo uno spazio deputato all' eterna lotta tra bene e male, tra devianza e normalizzazione. Può trasformare la città in un palcoscenico illuminato, una ribalta che dà spazio a sogni di ricchezza, realizzazione, divertimento, come accade in molte serie degli anni Novanta. Ancora una volta, l'esempio più pregnante è Sex and the City, il cui debito con la Manhattan raccontata da Woody Allen è indubbio: l'Upper East Side, una protagonista scrittrice, nevrotica e iperriflessiva, l' ossessione per le relazioni tra i sessi. In Sex and the City, alle quattro protagoniste femminili si aggiunge una vera e propria fifth lady, la città, New York, Manhattan, oggetto di contrastanti dichiarazioni d'amore da parte della protagonista Carrie. Più di una volta il telefilm stabilisce una stretta identificazione fra Carrie e la città, come se fossero la stessa persona: Sex and the City inventa una flânerie postmoderna (a più di cinquant' anni da I passages di Parigi di Walter Benjamin, dove l' allora capitale del mondo è descritta attraverso i suoi oggetti) che prende vita nel girovagare delle protagoniste per negozi, ristoranti, club, vicoli, cinema, feste, palazzi, strade, parchi. Il rapporto tra città e telefilm ha acquisito nuovi significati nella seconda Golden Age della serialità Usa: in serie come Will & Grace, Ally McBeal, Friends, Beverly Hills 90210, Brothers and Sisters, Six Feet Under, The Office e molte altre, l' arredo urbano funziona come un vero e proprio brand, un marchio costruito con logiche di place branding che si riverbera sull' immagine del telefilm, legandosi a essa indissolubilmente. Edito da Vita & Pensiero, è appena uscito in libreria Arredo di serie di autori vari, un libro molto utile per guidare lo spettatore nei «mondi possibili» della serialità americana, costruiti attraverso oggetti ricorrenti, che lentamente diventano familiari, indispensabili bussole per orientarci nel nuovo immaginario televisivo. Ovviamente, in tutta questa storia, l' oggetto degli oggetti è il televisore, lo strumento che ha mutato ogni casa - anche la più umile, anche la più kitsch, anche la più perfettamente borghese - nella Casa dello Specchio. Il televisore è la porta di ingresso dei nuovi universi di finzione, il dissolvimento delle pareti domestiche a favore di paesaggi mutevoli, secondo il fedele vaticinio di Lewis Carroll. Il televisore ci ha addestrato a guardare il guardare, è un' offerta continua di liste pratiche e di liste poetiche, le nuove prede dell' avventura domestica. È solo un caso che nella terza stagione di Lost ci sia un episodio che si intitola Through the Looking Glass?
Il critico Aldo Grasso, nato a Sale delle Langhe, è critico televisivo del «Corriere della Sera» e ordinario di Storia della radio e della televisione all' Università Cattolica di Milano. Tra le sue pubblicazioni: «Storia della televisione italiana» (Garzanti), «La tv del sommerso» e «Buona maestra» (entrambi Mondadori)
Alcuni saggi per approfondire le tematiche trattate nell' articolo di Aldo Grasso: a cura di Sherry Turkle, «La vita nascosta degli oggetti tecnologici» (Ledizioni editori, pp. 242, 20); autori vari, «Arredo di serie» (Vita & Pensiero, pp. 160 , 13); Jean Baudrillard, «Il sistema degli oggetti» (Bompiani, pp. 236, 8,20); Roland Barthes, «Miti d'oggi» (Einaudi, pp. XX-276, 11); a cura di Jérôme Garcin, «Nuovi miti di oggi. Da Barthes alla Smart» (Isbn edizioni, pp. 170, 15); Maurizio Ferraris, «Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani» (Einaudi, pp. VIII-274, 12,50); Michel Maffesoli, «Icone d'oggi» (Sellerio, pp. 253, 16); Umberto Eco, «Vertigine della lista» (Bompiani, pp. 408, 39); Walter Benjamin, «I passages di Parigi» (a cura di R. Tiedmann e E. Ganni, Einaudi, pp. XXXVI-1203, 46); Zygmunt Bauman, «Homo consumens» (Erickson, pp. 102, 10)
«Corriere della Sera» del 20 dicembre 2009