Pochissime le voci di dissenso cattolico. Il celebre arabista Samir K. Samir, esprimendo scetticismo sui minareti in Europa, dice che i musulmani devono vivere tra di noi “in una situazione di accoglienza, ma anche di minoranza. Ed essendo una minoranza, non possono comportarsi in tutto come nei paesi islamici dove essi sono la maggioranza”. E dove di cristiani ed ebrei non c’è quasi più traccia e le chiese più “moderne” sono quelle costruite nel dominio coloniale. Parlando con il Foglio, si è smarcato dal correttismo anche il dottor Nazir Bhatti, presidente del Pakistan Christian Congress e direttore del Pakistan Christian Post, originario di un paese dove i cristiani sono spesso arsi vivi. “Le manifestazioni cristiane sono bandite nel mio paese, ma nessun musulmano ha mai detto nulla, mentre ora protestano contro la Svizzera. Gli attivisti dei diritti umani dovrebbero alzare la voce e fare pressione sui regimi islamici perché autorizzino la costruzione di chiese e concedano libertà ai cristiani. C’è un doppio metro di misura, lo scandalo sulla Svizzera e il silenzio sulle minoranze nell’islam”.
La Santa Sede ha fatto finta di credere, quando questa verità la sta vivendo nell’estinzione di tutte le comunità cristiane del medio oriente, che l’islam è pura fede, e non anche e soprattutto un sistema politico con un obiettivo grandioso: la conquista degli “infedeli”, in nome di quella esiziale e poderosa divisione del mondo in due parti: il “dar al islam”, il territorio dell’islam, e il “dar al harb”, il territorio della guerra. Valga, per tutti, il commento del premier turco Erdogan: “I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri caschi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito”. Uno dei primi atti di revanscismo islamico di Erdogan contro il kemalismo è stata proprio la reintroduzione degli altoparlanti sui minareti, in moschee dove si insegna che ebrei e cristiani sono nel migliore dei casi “invitati” (misafir) e nel peggiore “infedeli” (gavour).
La chiesa cattolica, anziché invocare la messa al bando di fatwe che ancora oggi giudicano illecita la vendita della terra “sacra ad Allah” ai non musulmani, ha proferito rassicuranti affermazioni di circostanza, come fosse Amnesty International. Con il voto sui minareti, la chiesa avrebbe dovuto porre il tema della reciprocità, prima che sia troppo tardi e come aveva fatto Benedetto XVI nel recente incontro con l’ambasciatore marocchino. Sempre che tardi non lo sia già. I territori palestinesi erano in origine al venti per cento cristiani, oggi al cinque. Un secolo fa in Turchia c’erano due milioni di cristiani, ne rimangono solo alcune migliaia. I cristiani erano un terzo della popolazione siriana, oggi meno del dieci per cento. Erano il 55 per cento in Libano, oggi sono sotto la soglia del 30.
Il referendum in Svizzera era volto a impedire la costruzione di nuovi minareti in un paese dove, al momento, ne esistono quattro. Questo non ha nulla a che vedere con la libertà di professare la religione in luoghi di culto. La libertà religiosa è il grande, meraviglioso abisso che separa le democrazie liberali, l’occidente tutto, dai regimi islamici più o meno “moderati”. In Svizzera esistono duecento moschee e, nel referendum, non si menzionava né l’opzione di eliminarle, né l’opzione di bloccare la costruzione di nuove. Il messaggio arrivato dalla Svizzera è chiaro: siamo una storica patria di esuli e perseguitati, a nessuno sarà interdetto il diritto di culto, ma basta con questo sistema di dominio collaudato da quattordici secoli e che nei minareti ha i propri vessilli scenici e nella sharia un programma di governo. Con il loro patriottismo referendario gli elvetici, in modo pulito, non violento, democratico e liberalem, hanno detto no alla resa all’islamizzazione. Il celebre islamologo americano Daniel Pipes ha paragonato il referendum alla fatwa contro Salman Rushdie per l’impatto che potrà avere sull’Europa e l’islam. Nonostante le poco confortanti rassicurazioni del presidente svizzero Hans-Rudolf Merz, la costruzione dei minareti sarebbe stata certamente il primo passo verso il vero obiettivo del “dar al islam”: la chiamata alla preghiera del muezzin. Gli imam avrebbero usato microfoni e altoparlanti tenuti ben alti, superiori ai clacson delle macchine e al traffico.
La prima chiamata alla preghiera sarebbe stata alle quattro del mattino. Non c’è bisogno di andare alla Mecca per averne conferma. Già avviene alla East London Mosque, dove la chiamata alla preghiera serale compete con il rumore del traffico in Whitechapel Road. A Rotterdam ogni venerdì l’imam chiama alla preghiera, così a Colonia e a Bruxelles, dove la comunità turca sta trattando sul volume del muezzin, non certo sulla sua opportunità. E quando la combattiva ministra della famiglia del Marocco, Nouzha Skalli, femminista ex comunista, ha presentato una proposta di legge per tagliare i decibel dei minareti, specie nelle zone turistiche, i fondamentalisti l’hanno accusata di volere “zittire l’islam” e favorire gli “infedeli”.
Due anni fa è scoppiata la guerra dei muezzin a Oxford. Tutto è cominciato come in Svizzera, quando la Oxford Central Mosque chiese di trasmettere con gli altoparlanti la preghiera. Il vescovo anglicano Michael Nazir-Ali disse che consentire il canto dei muezzin rappresentava il tentativo di “imporre il carattere islamico” al Regno Unito. Avrebbe dovuto essere questo il commento del Vaticano sul caso svizzero, non la solita stanca profferta multiculturale di accoglienza degli emigranti. Senza citare il problema della corsa all’altezza. In molte parti di Europa si cerca di fare i minareti più alti di qualunque cosa, soprattutto delle chiese. Caso da manuale è Betlemme, dove la comunità cristiana si sta estinguendo per l’islamizzazione massiccia. Come ci ha spiegato Samir Qumsieh, direttore di al Mahdeh, la televisione dei cristiani, “i muezzin gridano più forte vicino alle chiese. Dove una volta suonavano le campane ora si sentono soltanto le preghiere musulmane con gli altoparlanti a tutto volume. Tra vent’anni a Betlemme non ci sarà più un cristiano”. Con i loro orologi e le mucche pezzate, gli svizzeri non volevano fare la stessa fine.
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