DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Caro fratello. Lettera di Papa Francesco ai nuovi cardinali
nel giorno in cui si rende pubblica la tua designazione a far parte del Collegio Cardinalizio, desidero farti giungere un cordiale saluto insieme all’assicurazione della mia vicinanza e della mia preghiera. Desidero che, in quanto aggregato alla Chiesa di Roma, rivestito delle virtù e dei sentimenti del Signore Gesù (cfr Rm 13,14), tu possa aiutarmi con fraterna efficacia nel mio servizio alla Chiesa universale. Il Cardinalato non significa una promozione, né un onore, né una decorazione; semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e allargare il cuore. E, benché sembri un paradosso, questo poter guardare più lontano e amare più universalmente con maggiore intensità si può acquistare solamente seguendo la stessa via del Signore: la via dell’abbassamento e dell’umiltà, prendendo forma di servitore (cfr Fil 2,5-8). Perciò ti chiedo, per favore, di ricevere questa designazione con un cuore semplice e umile. E, sebbene tu debba farlo con gaudio e con gioia, fa’ in modo che questo sentimento sia lontano da qualsiasi espressione di mondanità, da qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà e povertà. Arrivederci, quindi, al prossimo 20 febbraio, in cui cominceremo i due giorni di riflessione sulla famiglia. Resto a tua disposizione e, per favore, ti chiedo di pregare e far pregare per me. Gesù ti benedica e la Vergine Santa ti protegga. Fraternamente,
FRANCESCO
Dal Vaticano, 12 gennaio 2014
Il Vaticano secondo me
Quando critica il mio nemico lo fa per difendere la moralità del paese. Ma se non adatta la sua dottrina alla mia idea di progresso è oscurantista. Carosello delle strategie più efficaci per ascoltare la Santa Sede e non capire mai quello che dice
La prima regola per far dire al Vaticano ciò che si ritiene opportuno, è mettere le mani avanti sull’annosa questione dell’ingerenza. Un tema dagli accenti fin troppo radicali, che non va utilizzato se non in casi estremi. Perché anche se si è disgustati dal fatto che l’Italia, come scrive Concita De Gregorio sull’Unità, è l’unico paese al mondo «a contenere nel suo ventre lo Stato Vaticano – un peculiare impianto in vitro della Storia, un’infinita gestazione», alcune “ingerenze” sono molto utili. Così il richiamo a lasciare da parte «insulti» e «discordie personali» pronunciato da monsignor Bagnasco nell’ampia prolusione alla Conferenza permanente della Cei è un’ottima occasione per punzecchiare il governo. E allora meglio condividere contritamente la preoccupazione dei pastori angustiati per le sorti del paese, piuttosto che gridare ai “Vatican Taliban” che si intromettono nella politica italiana. In determinati casi l’ingerenza vaticana va pure sollecitata, soprattutto da sinistra, se può esercitarsi sul campione assoluto d’immoralità che risiede tra Arcore e Palazzo Grazioli. Qualcuno ricorderà ancora l’estate 2009, quella della festa della diciottenne Noemi Letizia a Casoria, del divorzio annunciato da Veronica Lario su Repubblica e poi le dieci domande a Berlusconi del quotidiano di Ezio Mauro e ancora il «ciarpame», il lettone di Putin, Patrizia D’Addario, i bagni di Palazzo Grazioli. Al punto che l’Unità pubblicò (6 giugno 2009) la durissima lettera aperta del sacerdote genovese Paolo Farinella a monsignor Bagnasco: «Le prese di posizione della Cei sono un brodino imbevibile – tuonava il prelato –, assistete allo sfacelo del Paese ciechi e afoni. Avete fatto il diavolo a quattro sui Dico e su Prodi ma tacete su un uomo che predica i valori cattolici e poi li mortifica».
Le parole del simpatico Farinella introducono all’altra regola fondamentale: trovare il cattolico giusto. Tendenzialmente il carnet è ben fornito, una volta si andava sicuri, sapendo di poter trovare accenti vagamente berlusconiani nella Compagnia delle Opere («area Cl») e simpatie sinistroidi nell’universo scout. Ora i confini sono più liquidi ma comunque ce n’è per tutti i gusti.
Un prete per chiacchierar
Prendiamo il teologo di Carate Brianza, Vito Mancuso. Dopo le riflessioni sull’anima e prima della crisi di coscienza su Mondadori, Mancuso sedeva pochi mesi fa sul divano di Parla con me per confidare a Serena Dandini che lui, come cattolico, si vergognava della linea della Chiesa sullo scandalo pedofilia. Applausi al coraggio e tanta comprensione radical chic sono assicurati quando il popolo si dimostra fieramente lontano dalla gerarchia. Perché, come osservava soddisfatta pochi giorni fa Concita De Gregorio: «I cattolici sono anni luce più avanti delle gerarchie, fanno sesso fuori dal matrimonio, divorziano e si risposano continuando a procreare. Usando anticoncezionali…». Il postulato irrinunciabile è che l’oscura gerarchia vaticana detta regole cattive mentre il popolo vive serenamente un po’ come gli pare. Non solo il popolo: addirittura i preti. Nel 2007 L’Espresso s’è molto divertito con l’inchiesta del confessionale: registra che ti registra, il giornalista scoprì che lungo la penisola ci son preti che assolvono di tutto e non fanno certo le battaglie contro embrioni, provette, convivenze, testamenti biologici e affini. Viceversa: ci sono ancora tonache che cercano di dissuadere il finto penitente intenzionato a far abortire la moglie, perché «è un omicidio».
Torniamo alla già citata estate 2009: quella dei bollori degli impresentabili e del moralismo dei libertini. Come scrisse allora Miriam Mafai su Repubblica, «una velina, una escort, una prostituta è una donna che dispone del suo corpo come crede. O come può». Tuttavia, ragiona la scrittrice, questo “velinismo” non è un gran bell’ideale da proporre alle nostre ragazze. Non certo il risultato che una desiderava dopo anni di cortei, manifestazioni, cerette fieramente rifiutate e asserzioni circa la proprietà dell’utero. Per fortuna poi c’è sempre un divieto vaticano che ci fa capire da quale parte è giusto stare. Dunque se la Santa Sede protesta per il Nobel a Edwards, «centinaia di migliaia di donne – scrive ancora la Mafai su Repubblica – saluteranno con soddisfazione questo riconoscimento al medico che ha regalato loro la gioia della maternità». Sempre meglio angelo del laboratorio che del focolare.
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Las mujeres del Vaticano
No se puede negar. Como hace 2.000 años, hoy, cuando casi se ha cumplido la primera década del siglo XXI, el Vaticano sigue siendo un lugar dominado por los hombres. Sin embargo, y pese a que la Iglesia continúa inamovible en su negativa a la ordenación de mujeres, estas ganan cada vez más terreno en las labores vaticanas. En números e importancia. Lo cuenta Irene Savio en El Periódico.
Lo dicen, muy claramente, los datos. Según el último censo disponible (2008), en el Vaticano trabajan 4.626 empleados en las más diversas mansiones, de los cuales 831 son mujeres, casi el 18%. En el 2000, solo había 593 trabajadoras, una cifra igualmente estratosférica comparada con las pocas decenas que trabajaban en el Vaticano hace 30 años.
Lo más alto que ha llegado una mujer en el exigente (y masculino) escalafón vaticano es a subsecretaria (cargo que equivale a un número tres en una congregación o consejo pontificio). Hay dos casos: sor Enrica Rossana, de 71 años, y Flaminia Giovanelli, de 62 años. Esta última, experta en Economía, logró un doble éxito: siendo mujer y sin ser religiosa, es desde enero subsecretaria del Consejo Pontificio de Justicia y Paz.
TAREAS DOMÉSTICAS
«Porque, eso sí, religiosas siempre hubo en el Vaticano. En su mayoría, les encargaban tareas humildes, domésticas, como la portería, la cocina o hacerse cargo de la limpieza», explica Lina Petri, empleada de la oficina de comunicación del Vaticano desde hace 25 años.
Solo poco a poco también las laicas fueron ingresando en la cuna del poder eclesial y ahora están escalando posiciones. «El aumento de la presencia y el peso de las mujeres obedece a una estrategia: el papa Benedicto XVI quiere ver a más mujeres en el Vaticano», explica a este diario Giovanni Maria Vian, director de L'Osservatore Romano.
De ahí que en la redacción de Vian por primera vez en los 150 años de historia del periódico del Papa ha aparecido una mujer: Silvia Guidi. Y que desde hace cuatro años al frente de la Filmoteca Vaticana esté Claudia di Giovanni. Por no citar a Barbara Frale, que trabaja en el enigmático Archivo Secreto del Vaticano.
O Barbara Jatta, responsable de los Grabados en la Biblioteca Apostólica Vaticano. O Micol Forti, responsable de la sección de arte contemporáneo de los Museos Vaticanos. Así como Eurosia Bertolassi, mano derecha del secretario de Estado, Tarcisio Bertone, o sea, una de esas eminencias grises de las cuales mucho se habla y poco se sabe.
CAMBIO DE TENDENCIA
«La inversión de la tendencia se remonta al Concilio Vaticano II de 1965, cuando la Santa Sede se abrió a la presencia de las mujeres dentro del Vaticano. Pero se ha avanzado mucho con Benedicto XVI y antes, durante los últimos años de pontificado de Juan Pablo II (autor de Mulieris Dignitatem, el único documento sobre las mujeres en más de 2.000 años de historia eclesial)», explica el vaticanista Ignazio Ingrao.
De todas formas la situación dista mucho de ser igualitaria. La mayoría de las mujeres empleadas en el Vaticano se encuentran entre los niveles 5 y 7 en un sistema funcionarial de 10 niveles, a lo que se suma que los cargos más altos dentro del Vaticano están excluidos de este sistema.
De hecho, hoy en día no hay ninguna mujer que trabaje como ministra o viceministra o que esté a cargo, por ejemplo, de una de las 9 congregaciones, de los 3 tribunales o de los 11 consejos pontificios.
Una influyente excepción es la estadounidense Mary Ann Glendon, profesora de Derecho en Harvard y actual presidente de la Academia Pontificia para las Ciencias Sociales, una institución autónoma de la Santa Sede, que promociona la doctrina social vaticana.
Lo explica Ingrao: «La cuestión es que, a nivel jurídico, el acceso a algunos cargos solo se permite a los que están ordenados». Y en eso nada ha cambiado Benedicto XVI: las mujeres siguen sin poder ser ordenadas sacerdotisas.
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Card. Ouellet: Buscar obispos que sean valientes “hombres de fe”
El sitio web de la Arquidiócesis de Vancouver presenta un artículo sobre el nuevo Prefecto de la Congregación para los Obispos, el Cardenal Marc Ouellet, en el que se recogen algunas declaraciones del purpurado sobre la tarea que le espera. Luego de una ardua labor como Primado de Canadá, el Card. Ouellet se dispone a comenzar en los próximos días su nueva tarea en el Vaticano como uno de los principales colaboradores del Santo Padre.
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En sus nuevas obligaciones colaborando con el Papa en la elección de los obispos, el Cardenal Marc Ouellet buscará valientes “hombres de fe” que tengan “el coraje de ayudar a la gente a vivirla”.
El obispo tiene que guiar a la comunidad, por lo que necesita una profunda visión sobrenatural junto con la capacidad para evaluar el contexto político, cultural y sociológico, dijo el nuevo Prefecto de la Congregación de Obispos en una entrevista. Sobre todo, un obispo debe ser “audaz en proponer la Palabra y audaz en la fe en el poder de la Palabra y el poder del Espíritu”.
“Tenemos que atrevernos a hablar a lo profundo del corazón, donde el Espíritu del Señor toca a las personas más allá de lo que éstas puedan calcular”, dijo Ouellet. “Necesitamos discernimiento espiritual y no sólo un cálculo político de los riesgos en cuanto a la posibilidad de que el mensaje sea recibido”.
Ocho exigentes años como Arzobispo de Québec y Primado de Canadá han forjado la visión del episcopado de Ouellet. Durante este tiempo debió predicar la Buena Noticia en una cultura que ha abandonado sus raíces cristianas.
Ser fiel a la enseñanza católica le significó la oposición de la profundamente secularizada sociedad post-católica de Québec. Al mismo tiempo afrontó el desafío de asegurarse que sus sacerdotes lo siguieran. “Ellos también están en una situación de tensión”, dijo. “Éste es un equilibrio difícil”.
Ouellet también remarcó la importancia de la solidaridad entre los obispos.
Durante este año, Ouellet habló contra la falta de apoyo episcopal al Santo Padre durante la tormenta de críticas de los medios por su manejo de la crisis de los abusos sexuales. También Ouellet a menudo quedó solo en el torbellino negativo de los medios en Québec.
Pero reconoce que en una provincia grande como Québec, cada obispo tiene un contexto diferente. Una diócesis rural en una parte homogénea de la provincia se enfrenta con desafíos distintos a los de una gran ciudad multicultural como Montreal, en cuanto al modo en que el mensaje del Evangelio es transmitido.
La necesidad de unidad y solidaridad va más allá de declaraciones políticas, dijo. Implica un compromiso personal que pasa de la fe dogmática a la “fe existencial que significa el discernimiento espiritual de la Presencia de Dios y de la Voluntad de Dios”.
Estamos en un mundo en el que la herencia cristiana está siendo fuertemente contestada, por lo que tenemos que reconocer esto y proponerla mejor, aunque no a través de un intento de restaurar el pasado.
“Tenemos que hablarle a la gente acerca del Señor Crucificado y Resucitado, que está dando forma a la Iglesia, con gente fiel a Su Palabra, a Su Divina Presencia y a la comunidad que Él quiere ver viviendo de Su Espíritu”.
El obispo debe siempre tener un enfoque personal, dijo. Los obispos no sólo deben declarar posiciones dogmáticas, sino que deben creer profundamente en ellas, “entonces tienes poder de convicción”.
“Si sólo lo declaras formalmente pero, en definitiva, no lo quieres realmente ver aplicado porque no crees que sea posible que la gente lo acepte, entonces estás en problemas en cuanto a la transmisión del mensaje”, dijo.
Los obispos también deben ser cercanos a la gente, dijo. Ser espiritual no significa mantenerse a distancia.
“El Señor nos ha dado un corazón para que sea presencia de Su propio Corazón en medio de la gente”, dijo el Cardenal. “Por eso tenemos que estar atentos y cultivar lo que llamamos la santidad, la unidad con Él, una unidad cotidiana, en un modo que es muy humano y muy espiritual”.
Aboga por una actitud ascética en la oración, en orden a conservar la pureza de corazón. “El amor a las personas plenifica la vida del sacerdote”.
Ouellet asume este rol clave en el Vaticano en un tiempo en que la Iglesia se enfrenta con una crisis mundial por casos de abusos sexuales, especialmente en occidente, crisis que es alimentada por los medios secularistas de información.
Ouellet dijo que comparte la visión del Papa Benedicto según la cual los pecados de los sacerdotes han salido a la luz durante el Año Sacerdotal para dar a la Iglesia “una oportunidad de purificación”.
Informes de sucesos ocurridos hasta cuarenta años atrás han creado una sensación de pánico que ha distanciado a muchos de la Iglesia, admitió. Pero Ouellet dijo que el tema de los abusos sexuales es un problema extendido mucho más allá de la Iglesia. Después que la Iglesia supere su purificación, la comunidad de fieles ayudará al resto de la humanidad a enfrentarse con este problema espantoso.
“Tenemos que solucionar el problema por medio de la virtud y la prevención, y no sólo por medio del castigo y los medios legales”, dijo.
Ouellet llegó a Québec ocho años atrás, enfrentándose a la sospecha de ser “el hombre de Roma”, enviado para enderezar las cosas.
Deja Québec amado por muchos de los fieles, no sólo en Québec sino en todo Canadá. En su última celebración pública de la Eucaristía antes de partir para su nuevo trabajo, más de 2000 personas llenaron la Basílica de Sainte-Anne-de-Beaupré para darle los buenos deseos, entre olas de aplausos y gratitud.
Crece la especulación acerca de quién será el que lo reemplace como Arzobispo de Québec. En los próximos dos años, nueve o diez obispos alcanzarán la edad de retiro en la provincia.
“Tenemos que tener un renacer de la Iglesia en Québec, y esto va a suceder”, dijo Ouellet.
“Mi oración y mi deseo es, obviamente, que tengamos comunidades vivas con buenos sacerdotes, bien preparados intelectual y espiritualmente, con un sentido de profundo compromiso por Cristo, por la vida evangélica y por el amor a la gente”.
Ouellet pidió apertura para los nuevos movimientos en la Iglesia, y expresó su esperanza en que aquellos que ya están en Québec como Famille Marie-Jeunesse, Catholic Christian Outreach y el movimiento eucarístico asociado al Encuentro de Jóvenes – Montee Jeunesse se “multipliquen”.
“Creo profundamente que habrá una nueva evangelización”, dijo.
El cardenal también abogó por un nuevo dinamismo intelectual, y en especial por una reforma de la educación para “recapturar el espíritu de la cristiandad y crear una nueva cultura cristiana”.
“Necesitamos intelectuales para esto, teólogos, filósofos, cristianos que realmente crean en el Evangelio y compartan la doctrina de la Iglesia en las cuestiones morales”, dijo.
“Hemos sufrido esta mentalidad del disenso” que “aún domina la inteligencia”.
“No hay allí verdadero discipulado”, dijo. “El discipulado que está emergiendo viene de aquellos que creen y que realmente aman a la Iglesia”.
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Fuente: B.C. Catholic Paper
Nuovi vescovi, la speranza Ouellet
Intervistato dal «Canadian Catholic News», il nuovo Prefetto della Congregazione dei vescovi, Marc Ouellet, che da qualche settimana è succeduto al cardinale Giovanni Battista Re, parlato dello scandalo pedofilia e ha affermato: «Dobbiamo risolvere il problema con la vita virtuosa e la prevenzione, non solo con punizioni e provvedimenti legali». Ha inoltre tracciato una sorta di identikit del vescovo: «I vescovi devono essere convinti uomini di fede, coraggiosi nel proporre la Parola di Dio e parlare nel profondo dei cuori. Abbiamo bisogno di discernimento spirituale e non solo di calcoli politici sul rischio che il messaggio possa non essere accolto». «Sono profondamente fiducioso – ha aggiunto – che vi sarà una nuova evangelizzazione. Dobbiamo creare una nuova cultura cristiana. Per questo abbiamo bisogno di intellettuali, di teologi, di filosofi, di cristiani che realmente credono nel Vangelo e accettano la dottrina della Chiesa sulle questioni morali. Abbiamo sofferto per la mentalità del dissenso che ancora domina l’intellighenzja, ma questa non è una vera sequela di Cristo. La vera sequela è quella che sta emergendo ad opera di coloro che credono e realmente amano la Chiesa». Uno dei primi compiti del neo-Prefetto Ouellet sarà quello di aiutare il Papa nella designazione del nuovo arcivescovo di Torino, successore del cardinale Poletto. La terna presentata dal nunzio apostolico in Italia, Giuseppe Bertello, è arrivata in Congregazione subito prima delle ferie estive e contiene quattro nomi (ho pubblicato a questo proposito un articolo sul Giornale tre giorni fa): il primo è quello di Aldo Giordano, 56 anni, originario di Cuneo, dal 2008 osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa di Strasburgo dopo essere stato dal 1993, per quindici anni, segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE). Giordano non è ancora vescovo, è giovane, e da due anni è entrato a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede. Il secondo nome è quello del vescovo di Rimini Francesco Lambiasi, già assistente dell’Azione Cattolica, il terzo è quello del vescovo di Vicenza Cesare Nosiglia e infine il quarto e ultimo è quello del vescovo di Alessandria Giuseppe Versaldi. Nosiglia è il candidato dei cardinali Bagnasco e Ruini (fu vigerente a Roma quando l’allora presidente Cei era Vicario del Papa), mentre Versaldi è il candidato del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, del quale fu vicario a Vercelli. Com’è noto, le recenti tristi vicende degli scandali hanno fatto emergere talvolta l’inadeguatezza della «classe dirigente» ecclesiale in diversi Paesi, e c’è da sperare che Ouellet sia in grado di muoversi in piena autonomia nel sottoporre a Benedetto XVI candidati che siano davvero «convinti uomini di fede, coraggiosi nel proporre la Parola di Dio e parlare nel profondo dei cuori», indipendentemente dalle «cordate».
In un colloquio con Deborah Gyapong di “Canadian Catholic News”, il cardinale canadese Marc Ouellet, in procinto di stabilirsi a Roma come prefetto della congregazione per i vescovi, ha così riassunto la posizione propria e del papa riguardo allo scandalo della pedofilia:
“Ouellet ha detto di condividere la convinzione di papa Benedetto XVI che i peccati dei preti siano venuti alla luce proprio durante l’Anno Sacerdotale per dare alla Chiesa ‘un’opportunità di purificazione’.
“Ha ammesso che le notizie di casi che risalgono anche a 40 anni fa hanno prodotto una sensazione di panico che ha allontanato molti dalla Chiesa. Ma Ouellet ha detto anche che l’abuso sessuale è un problema di dimensione mondiale che va ben al di là della Chiesa. Una volta che la Chiesa avrà intrapreso il cammino della sua purificazione, la comunità dei fedeli potrà aiutare il resto dell’umanità ad affrontare questo terribile problema, ha aggiunto.
“Dobbiamo risolvere il problema con la vita virtuosa e la prevenzione, non solo con punizioni e provvedimenti legali, ha detto ancora”.
Sul suo nuovo compito di prefetto della congregazione per i vescovi, Ouellet ha detto tra l’altro:
“I vescovi devono essere convinti uomini di fede, coraggiosi nel proporre la Parola di Dio e parlare nel profondo dei cuori. Abbiamo bisogno di discernimento spirituale e non solo di calcoli politici sul rischio che il messaggio possa non essere accolto.
“Sono profondamente fiducioso che vi sarà una nuova evangelizzazione. Dobbiamo creare una nuova cultura cristiana. Per questo abbiamo bisogno di intellettuali, di teologi, di filosofi, di cristiani che realmente credono nel Vangelo e accettano la dottrina della Chiesa sulle questioni morali. Abbiamo sofferto per la mentalità del dissenso che ancora domina l’intelligentzia, ma questa non è una vera sequela di Cristo. La vera sequela è quella che sta emergendo ad opera di coloro che credono e realmente amano la Chiesa”.
La chiamata del cardinale Ouellet nel ruolo cruciale della scelta dei nuovi vescovi si annuncia come uno degli atti più incisivi fin qui compiuti da Benedetto XVI nella curia romana, che potrà avere effetti di lunga durata nella Chiesa di tutto il mondo.
Come arcivescovo di Québec, Ouellet ha operato con forte spirito missionario in una regione che solo pochi decenni fa era cattolicissima, mentre oggi è tra le più scristianizzate del globo. Nonostante ciò, nell’intervista si è detto molto fiducioso: “Una rinascita della Chiesa in Québec ci vuole. E ci sarà”.
La commozione davanti alla bellezza. Inside the Vatican (immagini senza fiato)
Gli studenti della Villanova University della Pennsylvania (Stati Uniti) ci hanno lavorato per due anni.
Hanno raccolto foto e provato più volte con delle simulazioni.
Hanno usato una telecamera motorizzata all'avanguardia, con una risoluzione tridimensionale di alto livello.
Alla fine hanno messo il loro lavoro a disposizione di tutti, su internet.
Per la prima volta anche dall'altro capo del globo chiunque può entrare qui:
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Basilica di San Giovanni in Laterano
E' un lavoro egregio. Che merita di essere visitato.
Ne ha parlato tra gli altri anche Zenit qui.
Pubblicato su palazzoapostolico.it martedì 27 luglio 2010
© - FOGLIO QUOTIDIANO
NOI SIAMO SEXY, LA RIFORMA LIBERAL E’ dall’Austria del caso Groër che prende forma l’agenda progressista sui temi morali
sta ai margini della chiesa. Ha
pochi colloqui con le gerarchie. Anche
se, a onor del vero, cardinali o vescovi a
cui rifarsi e riferirsi ne ha, ma questi faticano
ad ammetterlo esplicitamente. E’
oggi una frangia un po’ borderline, la cui
agenda di riforme nelle scorse ore è stata
messa al centro del dibattito ecclesiale
grazie alla manovra del porporato boemo
a capo della chiesa di Vienna, Christoph
Schönborn. Il cardinale ha elencato
molti dei punti sui quali la chiesa, a
suo dire, dovrebbe ripensarsi e rinnovarsi:
l’organizzazione del potere al proprio
interno ma anche quei problemi che
hanno a che fare più direttamente con la
quotidiana vita di fede. E cioè l’abolizione
dell’obbligo del celibato per i preti e
quindi l’ammissione al sacerdozio dei
laici sposati, donne comprese. Una nuova
visione sulle coppie omosessuali stabili.
La piena accettazione dei divorziati
risposati (con le rispettive nuove famiglie).
Temi sui quali più volte Benedetto
XVI ha espresso pareri contrari e forse
definitivi. E con lui il Vaticano.
“Che sia stato Schönborn a riportare
certe tematiche all’attenzione di tutti non
è un caso” racconta Vittorio Bellavite,
leader della sezione italiana del movimento
Noi siamo chiesa. “Il nostro movimento,
infatti, è nato dalle ceneri del caso
di Hans Hermann Groër, il predecessore
di Schönborn a Vienna. Fu a seguito
delle accuse di pedofilia contro Groër
che a Innsbruck e a Vienna alcuni cattolici
vollero reagire e stilare il celebre
‘Appello dal popolo di Dio’. Appunto
un’agenda per le gerarchie della chiesa
fatta di punti precisi. Un’agenda che ritengo
Schönborn condivida. Altrimenti
non si spiegherebbe perché, pochi giorni
fa, l’arcivescovo di Vienna abbia tenuto
una celebrazione penitenziale in cattedrale
e al suo fianco abbia voluto Hans
Peter Hurka e Martha Heizer, i leader del
nostro movimento in Austria. La celebrazione
era in diretta televisiva. Il gesto di
Schönborn è stato un segnale voluto”.
Dal 1995 a oggi l’Appello è stato firmato
da oltre due milioni e mezzo di persone.
Inizialmente ci fu l’appoggio anche di
molti vescovi austriaci. Poi i presuli vennero
richiamati all’ordine dal Vaticano,
e ritirarono l’adesione. Da quel giorno,
con le gerarchie, almeno in forma ufficiale,
nessun contatto. Dice Bellavite:
“Un’eccezione è stata l’incontro del 2007
con il cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente
della Cei ci ha ascoltato ma ci ha
anche detto che la strada della chiesa resta
un’altra rispetto alla nostra”.
L’Austria è sempre stata un terreno fecondo
per un episcopato conciliare con le
istanze del mondo. E per questo motivo è
stato più volte ripreso da Benedetto XVI.
Eppure, ancora oggi, è in Austria che un
certo leitmotiv va avanti. Pochi giorni fa è
stato Paul Iby, vescovo di Eisenstadt nel
Burgenland, a dirsi pubblicamente non
solo per l’abolizione del celibato ma anche
per l’apertura del sacerdozio alle
donne. Dice: “Per i preti sarebbe sicuramente
un sollievo se l’obbligo del celibato
venisse revocato”. E ancora: “Roma è
troppo timorosa, così non si va avanti”.
L’ala progressista chiede cose precise:
il superamento della separazione strutturale
tra chierici e laici per una corresponsabilità
nella chiesa; un aperto confronto
sulla sacra scrittura per raggiungere
la piena partecipazione delle donne
ai ministeri ecclesiali; la possibilità per
le singole comunità di celebrare l’eucaristia
e animare la propria fede in una
pluralità non delimitata da regole e canoni
storicamente condizionati; i preti
devono essere lasciati liberi di aderire al
celibato o meno; i divorziati devono poter
accedere all’eucaristia; nel campo
della regolazione delle nascite ci deve
essere libertà di coscienza; ogni discriminazione
nei confronti delle persone omosessuali
deve essere superata. Dice il
teologo Vito Mancuso: “In generale la
partita è chiara. Si tratta di tornare alla
leggerezza di fondo che caratterizzava
Gesù e le prime comunità cristiane. Si
tratta di tornare all’unico principio veramente
non negoziabile per la chiesa: l’amore
di Dio e per il mondo. Non c’è da
avere paura, non c’è da temere nulla. C’è
solo da ritrovarsi e dialogare. A mio avviso,
l’indizione di un Concilio Vaticano III
è quanto mai indispensabile. Il Vaticano
II non basta più”.
Il celibato dei preti è un nodo sul quale
ciclicamente i progressisti tornano a
dire la loro. E quest’anno, in concomitanza
con l’anno sacerdotale, l’attacco è stranamente
più veemente. Sostengono che il
celibato non abbia un fondamento teologico
e sussista semplicemente in virtù di
una legge canonica entrata in vigore col
Concilio di Trento. Mentre il Papa e la
maggioranza dei vescovi dicono altro, che
abbia radici nel Vangelo, sostanzialmente
nella scelta di Cristo dei dodici. Don
Paolo Farinella, prete ligure che non ha
mai nascosto un acerrimo antagonismo
nei confronti delle gerarchie e di Roma,
cita il cardinale Martini il quale “ha sempre
detto che il celibato non è un obbligo”.
Perché? “E’ semplice: i preti si scelgono
tra coloro che preventivamente dichiarano
di essere portati al celibato.
Quindi il celibato è una condizione previa
al sacerdozio ma non è collegata teologicamente
con esso. Tant’è che nelle
chiese orientali esistono i preti sposati. E
adesso ne arrivano nella chiesa cattolica
anche dalle comunità anglicane”. Secondo
don Farinella tutto si gioca nella lettura
che si fa del Vaticano II: “C’è poco da
fare. Ratzinger con l’ermeneutica del rinnovamento
nella continuità ha svuotato
di ogni contenuto il Concilio. Mentre invece
il Vaticano II, al contrario di quanto
sostiene il Papa, è del tutto incompatibile
con i pontificati precedenti. Tutti i pontificati,
da Gregorio XVI a Pio X, sono incompatibili
col Concilio. Del resto Pio XII
sosteneva che la chiesa deve tenere aperte
le sue porte e il mondo deve entrarvi
dentro. Che piaccia o no il Concilio ha
detto l’opposto: la chiesa sta nel mondo.
La visione del passato è morta”.
Tantissimi fedeli vivono situazioni familiari
non facili. I divorziati risposati
sono sempre più numerosi. Lo disse anche
Ratzinger dialogando con Peter
Seewald: “Non v’è dubbio che questo sia
un grave problema per la nostra società
in cui aumenta sempre più il numero dei
matrimoni che si rompono”. Ma disse anche:
“Occorre riconoscere che la sofferenza
e la rinuncia all’eucaristia possono
essere un qualcosa di positivo, con cui
dobbiamo trovare un nuovo rapporto. Si
può partecipare alla messa, all’eucaristia
in modo significativo e fruttuoso senza
che ogni volta si vada a fare la comunione”.
Mentre l’ala liberal incalza portando
altri contenuti: il Vaticano II ha sostenuto
che il fine del matrimonio è l’amore
dei due coniugi. Il Concilio di Trento ha
invece detto che il fine del matrimonio è
la procreazione. Occorre scegliere da che
parte stare: con Trento o con il Vaticano
II? Dice ancora don Farinella: “Se si sta
col Vaticano II si supera una concezione
preindustriale e contadina del matrimonio
e si ammette che il matrimonio è altro.
E’ amore. E l’amore può non essere
sempre perfetto e può rinascere in altri
luoghi. Del resto non capisco: ai divorziati
risposati non si concede l’eucaristia,
mentre invece i preti in stato di peccato
mortale possono celebrarla. Mi sembra
un enorme controsenso”.
Filippo Di Giacomo, canonista ed editorialista,
esce dai casi singoli per guardare
il problema in modo più ampio. Ha
assistito da spettatore allo “schiaffo” di
Schönborn alla curia romana. Dice: “E’ il
segno che oggi c’è una chiesa di base che
non ne può più di cardinali e vescovi ottantenni
che decidono tutto e pensano
soltanto alla carriera. Eppure i nodi toccati
da Schönborn sono già stati oggetto
di studio e di stesura di documenti in Vaticano.
Da tempo dentro le mura leonine
c’è chi ne parla. Magari il dibattito è a fari
spenti, ma comunque c’è. Basterebbe
riprendere le ipotesi di riforme già vagliate.
Tra queste la riforma del processo
matrimoniale. Il cardinale Mario Francesco
Pompedda, oggi scomparso, aveva
proposto una riforma che permetteva di
abbreviare i tempi dei processi di annullamento
ma poi non se ne fece nulla”.
I temi sono sempre gli stessi, da anni: il
celibato dei preti, la dottrina circa i divorziati
risposati, e poi l’ipotesi dell’ordinazione
femminile. Il Vaticano su questo
punto monitora ogni movimento e punisce.
Per la Santa Sede non si tratta di
chiusura preconcetta, ma di corretta interpretazione
del dettato evangelico. Due
sono le contromisure che il Vaticano ha
preso negli ultimi anni. La prima è un decreto
emesso dalla Congregazione per la
dottrina della fede “circa il delitto di tentata
ordinazione sacra di una donna”. La
seconda è l’interdetto spiccato da Raymond
Leo Burke, quando ancora era arcivescovo
di Saint Louis, contro una suora
della sua diocesi, Louise Lears, colpevole
di aver assistito e dato sostegno all’ordinazione
al sacerdozio di due donne.
Nella chiesa cattolica, una spinta all’ordinazione
femminile venne soprattutto
dopo la pubblicazione della Lettera
apostolica di Giovanni Paolo II “Ordinatio
Sacerdotalis” del 1994. Quaranta vescovi
degli Stati Uniti scrissero su Origins,
la rivista della Conferenza episcopale,
un articolo dove lamentavano che il
testo di Wojtyla era stato emanato “senza
alcuna previa discussione e consultazione”,
quando invece riguardava una materia
“che molti cattolici ritengono bisognosa
di studi più approfonditi”. I quaranta
chiedevano che le conferenze episcopali
rispondessero colpo su colpo “ai
testi di varia natura che vengono da Roma”,
a cominciare da quello sull’ammissione
delle donne al sacerdozio. Il principale
promotore del documento era l’allora
arcivescovo di Milwaukee, Rembert
Weakland, già presidente dei benedettini
confederati di tutto il mondo e star dei
liberal americani, ora protagonista del
caso Murphy-New York Times con le accuse
di omesso controllo a Ratzinger e
Bertone (al tempo del Sant’Uffizio).
Forse è soltanto una coincidenza. Ma
molti osservatori qualche anno dopo annotarono
stupiti come la chiamata alla rivolta
di Weakland fosse stata messa in
campo per la prima volta in Austria: ancora
la terra di Groër e poi di Schönborn,
la terra dove Noi siamo chiesa agisce con
maggiore presa. Il primo vero atto di rottura,
infatti, avvenne nel 2002 sul fiume
Danubio, non lontano da Passau, al confine
tra Austria e Germania. Lì, su un
battello, un vescovo scismatico argentino,
Romulo Braschi, ordinò al sacerdozio
sette donne, le prime del movimento denominato
Roman Catholic Womenpriests,
che conta oggi diverse decine di ordinate
prevalentemente degli Stati Uniti e
del Canada, tra le quali quattro donne
vescovo. Il 10 luglio 2002 il Vaticano reagì
alle ordinazioni del Danubio con un decreto
di scomunica.
Da Roma si teme che il numero delle
donne ordinate cresca. E che vi sia qualche
infedele: Patricia Fresen, l’ex suora
che è una dei quattro vescovi del Roman
Catholic Womenpriests, afferma d’essere
stata ordinata all’episcopato nel 2005 da
tre vescovi di cui tiene segreti i nomi.
© Copyright Il Foglio 15 maggio 2010
Dopo lo schiaffo di Vienna, perentorie richieste di repulisti nella gerarchia
deve dire di servire la chiesa con la preghiera.
Tutti devono sapere che ci sono delle conseguenze
per errori così scandalosi”. E’ nettissima
e definitiva la presa di distanza dal decano
del collegio cardinalizio, il cardinale Angelo Sodano,
messa in campo da Joseph Bottum, direttore
di First Things, la rivista punto di riferimento
dell’area theocon americana fondata dall’ex
luterano, poi sacerdote cattolico, Richard
John Neuhaus. Dopo lo schiaffo a Sodano dell’arcivescovo
di Vienna, Christoph Schönborn,
perché a suo dire quindici anni fa insabbiò il
“caso Hans Hermann Groër”, è la rivista attorno
alla quale ruota uno dei gruppi di intellettuali
più influenti d’America ad aprire il fuoco
contro un principe della chiesa che per anni,
nell’era Wojtyla, ha tenuto le redini del governo
della curia romana. La colpa attribuita a Sodano
è esplicita: ha coperto, ottenendo anche diversi
favori finanziari, le malefatte di Marcial
Maciel Degollado, “il corrotto truffatore che ha
fondato la Legione di Cristo e l’associazione laica
Regnum Christi”.
Attorno a First Things ci sono personalità
ascoltate non solo nel mondo cattolico americano
ma anche in Vaticano: c’è Michael Novak, il
profeta del capitalismo democratico, e George
Weigel, biografo di Papa Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI, senior fellow all’Ethics and Public
Policy Center di Washington. C’è Mary Ann
Glendon, ex ambasciatore americana presso la
Santa Sede e docente di legge nella facoltà di
Giurisprudenza di Harvard. Insieme a loro, c’è
Robert Royal, presidente del Faith & Reason
Institute della capitale federale.
Nella critica veemente a come la curia romana
ha gestito il “caso Maciel”, First Things si accoda
al National Catholic Reporter, il settimanale
leader dei cattolici progressisti degli Stati
Uniti nel quale scrive la stella del vaticanismo
americano John Allen. E’ stato il National
Catholic Reporter qualche giorno fa a scrivere
un articolo in due parti sulle spericolate operazioni
finanziarie portate avanti dai Legionari
sotto la guida Maciel. Ma, scrive Bottum, “l’articolo
ha ricevuto scarsa attenzione forse perché
i legami della Legione con Carlos Slim non sono
stati dimostrati”. Il miliardario messicano
Carlos Slim, assieme ad altri supporter di peso,
è stato indicato in questi giorni da alcuni giornali
tra i principali finanziatori della Legione.
Si sono anche letti i nomi del produttore cinematografico
Steve McEveety, di Thomas Monaghan,
fondatore di Domino’s Pizza e dell’Ave
Maria University in Florida, dell’ex governatore
della Florida Jeb Bush e dell’ex senatore
della Pennsylvania Rick Santorum.
Tra i finanziatori più volte si è anche fatto il
nome di Neuhaus. Del resto fu lui nel 2002 a
scrivere che le accuse contro Maciel erano “false
e malevole”. Ma, spiega Bottum con tono
amaro e malinconico, “Maciel ha ingannato
molte persone, tra cui il fondatore di questa rivista”.
Scrive ancora Bottum: “L’ironia della sorte
fu che Neuhaus non fece questa difesa su richiesta
di Maciel, che tra l’altro non conosceva
bene, ma l’ha fatta perché giovani sacerdoti della
Legione gli chiesero di farla e gli dissero che
Maciel era sotto un attacco falso e sleale”.
Qualcuno per il caso Maciel deve pagare. Per
Bottum è Sodano il capro espiatorio: “Deve andarsene”
scrive. “E’ tutto molto triste. Una lunga
carriera nella chiesa non sta finendo bene.
Senz’altro sarebbe più gentile proteggere Sodano
e lasciare che tutto scivoli via così. Ma è lo
stesso Sodano che non sembra disposto a lasciare
il campo in questo modo”. E una dimostrazione
di ciò, secondo Bottum, si è vista nella difesa
di Benedetto XVI che Sodano ha fatto il giorno
di Pasqua: “E’ con lei il popolo di Dio, che
non si lascia impressionare dal ‘chiacchiericcio’
del momento” ha detto il cardinale. E poi
l’affondo più duro: “Stando così le cose (Dio non
voglia) se Benedetto XVI dovesse morire, le esequie
funebri sarebbero guidate dal cardinale
Sodano e così i telegiornali, ora dopo ora, tirerebbero
fuori tutto quello che adesso viene associato
al suo nome”.
Paolo Rodari
© Copyright Il Foglio 14 maggio 2010
Le grandi manovre della curia lasciano lo Ior senza prelato. Il Papa non ha ancora indicato il nome del successore di mons. Pioppo, ex segr. di Sodano
2010, alla voce “prelato dello Ior” c’è ancora
il nome di monsignor Piero Pioppo.
Ma in realtà oggi il posto è vacante perché
Benedetto XVI, pochi giorni dopo che
l’annuario era stato stampato, ha elevato
Pioppo al rango di arcivescovo nominandolo
nunzio in Camerun. Il Papa non ha
ancora indicato il nome di un successore
e, secondo quanto trapela da oltre il Tevere,
potrebbe anche non indicarlo più.
Per far funzionare la macchina, infatti,
l’incarico che era di Pioppo non è strettamente
indispensabile.
La prelatura dello Ior è comunque un
incarico importante. Chi la occupa, anche
se non interviene direttamente nelle decisioni
della dirigenza della banca vaticana,
ha il privilegio di poter monitorare tutto
ciò che avviene al suo interno: per statuto
ha accesso a tutti i documenti bancari. Ma
per tanti anni il posto è rimasto vacante.
Dopo la stagione dei Paul Marcinkus, Luigi
Mennini, Pellegrino de Strobel e Donato
De Bonis, quindi dal 1993, nessuno è stato
più nominato prelato. E la banca ha funzionato
comunque bene. Così fino al 2006
quando, a sorpresa, fu il cardinale Angelo
Sodano a nominare prelato dello Ior il suo
segretario particolare, appunto monsignor
Pioppo. La nomina fece molto discutere
perché arrivò poche settimane prima che
il cardinale Tarcisio Bertone gli succedesse
come segretario di stato e come presidente
della commissione di vigilanza dello
Ior. E fu letta da molti come la volontà
di Sodano di lasciare un proprio uomo
dentro la banca vaticana. Ma in realtà
Pioppo non ha svolto la funzione di watchdog
che molti avevano paventato. E anche
la sintonia con il nuovo presidente Ettore
Gotti Tedeschi è stata infatti totale.
Adesso sono attese le eventuali decisioni
del Papa. Settimana scorsa qualcosa si
è mosso. Ha fatto molto discutere, infatti,
un breve trafiletto uscito sul Mondo. Si
legge che ci sarebbero “grandi manovre”
attorno allo Ior. E cioè che la corsa per la
successione di Pioppo è aperta. Scrive il
Mondo: “Sodano non sembra rassegnarsi a
lasciare definitivamente il controllo dello
Ior. L’ex segretario di stato è riuscito a far
assegnare a un altro suo fiduciario, Antonio
Filippazzi, il delicato dossier sull’inserimento
dello Ior nella ‘white list’ delle
banche che non trafficano con i paradisi
fiscali. Filippazzi è considerato molto vicino
al cardinale Bagnasco e rafforzerebbe
la linea dei prelati genovesi che fanno
capo a Bagnasco e di quelli piemontesi
che si riconoscono in Sodano, con l’obiettivo
di impedire a Bertone di esercitare la
sua influenza sullo Ior”.
Non è semplice dire se questa ricostruzione
corrisponde in tutto al vero. Di certo
c’è un fatto. Che l’indiscrezione attorno a
Filippazzi difficilmente può essere giunta
alla stampa da ambienti esterni alle Mura
leonine. Qualcuno, da dentro il Vaticano,
ha probabilmente voluto dire qualcosa.
Tanto che c’è chi sostiene che, al di là del
dossier sulla “white list”, il nome di Filippazzi
sia stato fatto uscire non tanto per avversione
al candidato in questione – il quale
tra l’altro non ha particolari legami con
Sodano – ma per far sapere che nessun
candidato è gradito. Dice un ex dirigente
vaticano ben informato: “Forse dopo l’addio
di Pioppo e l’istituzione del nuovo consiglio
di sovrintendenza dello Ior qualcuno
dentro il Vaticano non gradisce nuove nomine”.
E il Papa, che in qualsiasi momento
può decidere qualunque cosa, potrebbe
anche adeguarsi allo status quo.
© Copyright Il Foglio 7 maggio 2010
ROCK AROUND THE POPE. Prima i Beatles, poi Springsteen, M. Jackson, gli U2 e Guccini L’imprevedibile compilation vaticana dello “Sdoganatore Romano"
Non è colpa soltanto del fatto che
essendo l’Osservatore Romano
un giornale di idee e che predilige il
dibattito delle idee – così lo vuole il
direttore Gian Maria Vian in scia ad
auspici espressi tempo addietro da
uno che di giornalismo ci capiva parecchio,
ovvero Papa Paolo VI, figlio
di Giorgio Montini, direttore del Cittadino
di Brescia – la musica pop ha sul
giornale vaticano un posto di rilievo.
E’ anche colpa, se di colpa si può parlare,
dei cronisti che Vian ha in redazione
se ogni tanto il quotidiano del
Pontefice che ama Mozart, Bach,
Beethoven, Palestrina, Berlioz, Händel
e Liszt, sdogana, critica, boccia e
riabilita ora questo ora quel cantante
della musica contemporanea.
C’è Marcello Filotei, giornalista e
insieme compositore, che vanta una
conoscenza musicale variegata tanto
che in via del Pellegrino dov’è la sede
del giornale lo chiamano “il maestro”.
Filotei, tra l’altro, è un raffinato
conoscitore di musica elettronica,
il sogno futurista di anticipare i rumori.
Ci sono il segretario di redazione
Gaetano Vallini e il capo del servizio
internazionale Giuseppe Fiorentino
che sono appassionati di musica poprock.
C’è il vicedirettore Carlo Di Cicco
che pur prediligendo la classica
ama il rock ma anche Fabrizio De André.
Poi, certo, ci sono gusti più sobri
come quelli dell’assistente alla direzione
Marilia D’Addio che predilige
la lirica. E, infine, quelli decisamente
più eclettici come sono le passioni
musicali di Vian il quale, come disse
lui stesso in un’intervista rilasciata
più di un anno fa, spazia “dal gregoriano
a Peppino Di Capri, da Frank
Sinatra ai Blues Brothers, polifonia e
oratori barocchi compresi”.
Cos’è la musica? Quell’arte normale
che coglie verità attraverso la bellezza,
disse Benedetto XVI il 10 agosto
del 2008 incontrando il clero a
Bressanone. E l’Osservatore, quest’arte,
la scandaglia in lungo e in largo incurante
di quei mugugni che inevitabilmente
riecheggiano tra le mura
della curia romana quando sotto un
pezzo che rende noto un discorso del
Papa ce n’è un altro che informa del
valore musicale di una stella del rock.
L’infatuazione principale dell’Osservatore
è per i Beatles. Lo si è capito da
più indizi. Nel novembre 2008 il quotidiano
vaticano dedica un pezzo a John
Lennon, di fatto assolvendolo per
quella frase pronunciata quarant’anni
prima: “I Beatles sono più famosi di
Gesù Cristo”. E successivamente, lo
scorso 10 aprile, in occasione del quarantennale
dello scioglimento della
band, sono Vallini e Fiorentino a tornare
sul tema rilevando il “fiuto” epocale
della band inglese. L’Osservatore
ripercorre “i sette anni che sconvolsero
la musica” mettendo in pagina un
notevole repechage. Perché i Fab four
non hanno pari. “Le loro bellissime
melodie hanno cambiato per sempre
la musica leggera e continuano a regalare
emozioni”. Dopo di loro, “musicalmente,
nulla è più stato come prima”.
E ancora: “E’ vero, hanno assunto sostanze
stupefacenti; travolti dal successo
hanno vissuto anni scapestrati e
disinibiti; in un eccesso di spacconeria
hanno detto persino di essere più famosi
di Gesù; non sono stati il migliore
esempio per i giovani del tempo, ma
neppure il peggiore”. E poi “ascoltando
le loro canzoni tutto questo appare
lontano e insignificante. A quarant’anni
dal turbolento scioglimento restano
come gioielli preziosi le loro bellissime
melodie che hanno cambiato per
sempre la musica leggera e continuano
a regalare emozioni”. E poi il finale
agiografico: “Attraverso la loro musica
quei quattro ragazzi di Liverpool,
splendidi e imperfetti, sono stati capaci
di leggere e di esprimere i segni di
un’epoca che a tratti hanno persino indirizzato,
imprimendovi un marchio
indelebile. Un marchio che segna lo
spartiacque tra un prima e un dopo. E
dopo, musicalmente, nulla è più stato
come prima”.
Parole importanti. Una dichiarazione
d’amore in piena regola. Che
però non viene corrisposta. “Ha saputo
che l’Osservatore Romano vi ha riabilitati?”
chiede un giornalista della
Cnn al batterista dei Beatles, Richard
Starkey, in arte Ringo Starr. “I
couldn’t care less”, e cioè “non me ne
potrebbe fregare di meno” risponde
Ringo. “Ma come?” dice il batterista.
“Eravamo satanici e adesso ci perdonano?
Credo che la Santa Sede abbia
altre cose di cui parlare”. Ma l’Osservatore
non si dà per vinto e spiega
che in realtà il suo giornale non ha
riabilitato nessuno. Già nel 1966 l’Osservatore
dedicò un pezzo ai Beatles
i quali, per primi, spiegarono che dicendo
d’essere più famosi di Cristo
intendevano soltanto deplorare l’atteggiamento
della gente nei confronti
del cristianesimo. “Non ho mai detto
che i Beatles siano migliori di Dio o
di Gesù”, disse Lennon.
Quanto a satana, Ringo Starr non
ha tutti i torti. Già nel 2000 Joseph
Ratzinger parlava della musica rock
e pop, i cui raduni sono sostanzialmente
“pratiche di redenzione la cui
forma è apparentata a quella della
droga e che sono fondamentalmente
opposte alla fede cristiana nella redenzione”.
“Perciò è coerente con
tutto ciò – diceva Ratzinger – che ora
in quest’ambito dilaghino sempre più
anche culti satanici e musiche sataniche,
la cui potenza pericolosa, in
quanto scientemente finalizzata alla
rovina e alla distruzione della persona,
non è ancora presa sufficientemente
sul serio”.
Oltre ai Beatles, anche Bruce
Springsteen e la sua E Street Band. E’
il luglio del 2009. The Boss è a Roma
per un concerto. L’Osservatore lo segue.
Manda i suoi cronisti ad assistere
alla performance: “Tra badlands e
terra promessa in scena l’essenza del
rock” è il titolo che il quotidiano decide
di dedicare al pezzo. I concerti di
Springsteen sono “una garanzia” che
“difficilmente lascia delusi” si legge
nell’articolo. Il concerto del cantante
statunitense sono “tre ore di buon
rock, con la grinta e la bravura di
sempre”. E ancora: “La carica che
riesce a trasmettere, nonostante i
quasi sessant’anni, è pari alle emozioni
che la musica e i testi comunicano”.
E giù elogi. Ammiccamenti che
sembrano lontani dalle parole che
ancora il cardinale Ratzinger disse
nel 1996: il rock “è espressione di passioni
elementari, che nei grandi raduni
di musica hanno assunto caratteri
cultuali, cioè di controculto, che si oppone
al culto cristiano”.
La riabilitazione più impegnativa
dell’Osservatore è stata probabilmente
quella di Michael Jackson. La vita
sregolata e piena di eccessi dell’autore
di “Thriller” non scalfisce il riconoscimento
artistico che l’Osservatore
vuole tributargli. “'Ma sarà morto
davvero?” si chiede il quotidiano della
Santa Sede lo scorso giugno. E ancora:
“Ci sarebbe poco da stupirsi se
tra qualche anno venisse riconosciuto
in una stazione di servizio di
Memphis, magari assieme all’ex suocero
Elvis Presley, un altro di quei
miti che, come Janis Joplin, Jim Morrison,
Jimi Hendrix o John Lennon,
non muoiono mai nell’immaginazione
dei loro fan. E un mito del pop è
sicuramente Michael Jackson, morto
ieri all’età di cinquant’anni”. L’articolo
fa il giro del mondo. E arriva sulle
scrivanie dei principali attori neoconservatori
americani. Tra questi il
direttore di “Crisis” Deal Hudson
che commenta l’articolo dicendo che
oramai l’Osservatore ha intrapreso
una “spirale discendente”.
Il 2009 è un anno particolare quanto
al rapporto tra Osservatore e musica
rock. In febbraio il quotidiano vaticano
sorprende. A poche ore dall’inizio
del Festival di Sanremo pubblica
un “piccolo prontuario di resistenza
musicale”. Si tratta di un decalogo
formato da una serie di direttive e indicazioni
ritenute utili per difendersi
dalla valanga sonora in arrivo. A essere
proposte come valida alternativa
all’onda canora che “inonderà implacabile
l’etere fino alla prossima estate”
sono pietre miliari della storia
della musica, ossia “alcuni dischi di
cui non si può fare a meno per ritemprare
gli esausti padiglioni auricolari
dell’uomo mediatico”. Al primo posto
della classifica dell’Osservatore, ovviamente,
i Beatles con “Revolver”
(1966), “un Cd che segnò l’inizio di una
nuova epoca musicale, quella contemporanea”.
Al secondo posto David
Crosby con “If I could only remember
my name” (1971), nato dalla collaborazione
con grandi musicisti, come Joni
Mitchell e Neil Young. “The dark side
of the moon” dei Pink Floyd è al terzo
posto del prontuario di buona musica,
mentre al quarto posto c’è “Rumours”
dei Fleetwood Mac (1977). Al
quinto posto ecco “The nightfly” di
Donald Fagen, (1982), mentre al sesto
e settimo posto vengono segnalati rispettivamente
“Thriller” di Michael
Jackson e “Graceland” di Paul Simon.
A chiudere la classifica sono gli U2
con “Achtung baby” (1991), gli Oasis
con “(What’s the story) Morning
glory?” (1995), e “Supernatural” di
Carlos Santana (1999). In coda Bob
Dylan, per la “grande vena poetica
che sconfina spesso nel visionario e,
dopo la conversione, nel messianico”.
O forse, chissà, perché fu una delle
poche star ammesse a cantare davanti
a Giovanni Paolo II.
Non tutta la musica italiana per
l’Osservatore merita d’essere stroncata.
Lo scorso gennaio, infatti, il giornale
vaticano anticipa in pagina un’intervista
a Francesco Guccini che pochi
giorni dopo esce sulla rivista “Vita
e Pensiero”, il bimestrale dell’Università
cattolica del sacro cuore.
L’“agnostico” Guccini, come “in genere”
si definisce lui, spazia sulle pagine
del giornale del Papa dal senso religioso
della vita che “può essere l’avere
una morale che hai assunto fin
da quando eri bambino: poi si è modificato
con certe conoscenze, certi incontri
e certe cose, ma grosso modo è
quello”, alla Bibbia che, dice, “è un
grande libro, assolutamente da leggere”.
Perché? “E’ pieno di storie affascinanti,
di testi poetici. Da ragazzetti
si leggeva soprattutto il Cantico dei
Cantici, che era così erotico. Certo,
quando t’imbatti nel Levitico o in
quelle interminabili genealogie di
personaggi più o meno sconosciuti,
l’entusiasmo tende inevitabilmente a
scemare, e li salti a piè pari. Amo in
particolare, naturalmente, la Genesi e
l’Apocalisse, e sono convinto che ci
possa essere una lettura di questi libri
non necessariamente confessionale”.
Peggior fortuna ha sull’Osservatore
un altro italiano: Giovanni Allevi.
Questi non canta. Non suona musica
rock. Semplicemente compone col
piano. O così sembrava ai più prima
che l’Osservatore dicesse la sua: “Giovanni
Allevi non è affatto ‘strambo’ –
scrive il giornale del Papa –, è costruito
con una cura assoluta ed è la rappresentazione
oleografica del compositore,
così come se l’aspetta chi non
ha molta consuetudine con le sale da
concerto”. E ancora: “Il compositore
marchigiano arriva e offre al pubblico
quello che già conosce. E questa è
la forza culturalmente pericolosa dell’operazione
Allevi: convincerci che
tutto quello che non capiamo non vale
la pena di essere compreso. Rassicurati
sul fatto che ‘non siamo noi
ignoranti, sono loro che non sanno
più scrivere una bella melodia’, potremo
finalmente andare fieri di non
avere mai ascoltato Stravinskij”.
Allevi definisce la sua musica
“classica contemporanea”. E questa,
a differenza del rock contemporaneo,
non piace al quotidiano vaticano. Così
si conclude l’articolo: “In un paese
come l’Italia dove c’è chi, come Alessandro
Baricco, arriva a scrivere e dirigere
film per spiegare che Beethoven
è sopravvalutato, è abbastanza
frequente che si cada nel tranello
dell’artista svagato. Certo non è colpa
dell’artista in questione, ma di un sistema
scolastico fatto di flauti dolci e
Fra Martino campanaro che spesso
non fornisce gli strumenti per distinguere
Arisa da Billie Holiday, figuriamoci
Puccini da Allevi”.
Dall’Italia si torna fuori i patri confini.
Fino in Irlanda, a Dublino, la
città degli U2. E’ Vallini a condurre
un’indagine su Bono. E il risultato
sorprende. E’ Bono a essere uno degli
artisti più credenti, almeno a giudicare
dalla quantità di riferimenti e allusione
ai testi sacri presenti nei testi
che scrive per gli U2. Dice l’Osservatore
che i testi di Bono hanno in più
di una occasione dei risvolti religiosi.
Nel brano “Gloria”, presente nell’album
del 1981 “October”, Bono e gli altri
sembrano essere alla ricerca di
Dio: “I try, I try to speak up / But only
in you I’m complete”. E anche negli
ultimi lavori come in “No Line On the
Horizon”, la valenza liturgica della
band non sembra aver perso forza.
Nella “litaniante” “Magnificent” (che
già nel titolo fa capire l’antifona del
brano) “l’esplorazione sembra essere
andata davvero troppo avanti”, mentre
in “Unknown Caller” “tutto sembra
essere tornato sulla retta via”.
Le pagine dell’Osservatore dedicate
alla cultura sono fatte così: si trovano
tante cose diverse tra loro. Le invasioni
nel campo musicale non sono
capite da tutti ma comunque si fanno
notare. E sorprendono. Come sorprese
nel luglio del 2008 una chicca:
un’intervista a Dolores Hart, che in
“Loving you” fu la prima attrice a baciare
Elvis Presley sul grande schermo
e nel ’63 diede l’addio alle scene
per chiudersi in un convento di clausura.
Il titolo è azzeccato: “Love me
tender di un amore più grande”. E’
l’amore per Dio che porta Dolores a
entrare in clausura. E’ l’amore per la
musica, anche per il rock profano,
che spinge l’Osservatore a scriverne.
© Copyright Il Foglio 1 maggio 2010
Ora il Vaticano ammetta gli errori nella comunicazione. Le accuse alla Chiesa. di Vittorio Messori
Un cappuccino che conosciamo dai tempi in cui era giovane, brillante docente di Nuovo Testamento alla Cattolica di Milano. Religioso non solo di grande cultura ma anche di autentica vocazione francescana, stupì tutti, dimettendosi da quella cattedra prestigiosa per consacrarsi interamente all’apostolato. Anche per l'equilibrio mostrato nelle pagine dei suoi molti best seller, padre Raniero fu chiamato al ruolo delicato e influente di Predicatore della Casa Pontificia.
Come aspettarsi un infortunio come quello del Venerdì Santo, da parte di uomo che allo zelo pastorale unisce la lunga esperienza e la prudenza, la prima delle virtù cristiane? Ma, innanzitutto: proprio di infortunio si è trattato? Completando la lettura «innocentista» del rabbino americano, ci pare che si debba parlare di inopportunità, considerate anche la sede e l'occasione liturgica, ma che le parole di padre Cantalamessa siano per qualcuno opinabili ma non condannabili. La consueta semplificazione giornalistica ha fatto credere che la persecuzione degli ebrei sia stata, scandalosamente, equiparata alla doverosa severità per la pederastia clericale. In realtà, se si va al testo, il Predicatore Pontificio ha precisato che non intendeva parlare della «sciagurata macchia della pedofilia che ha coinvolto anche elementi del clero», visto che «di questa già si è parlato e si parla molto fuori di qui». Ciò cui padre Raniero intendeva alludere era «l'attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli cattolici in molte parti del mondo». L'oggetto era, insomma, quel crescente «complesso anticristiano» (e, in particolare, anticattolico) di cui su questo giornale parlava di recente anche Ernesto Galli della Loggia (Corriere del 21 marzo, ndr). Secondo Cantalamessa, ci sarebbero i segni di una persecuzione della Chiesa e dei suoi membri già in atto, ma che potrebbe peggiorare. Si tratta di segni che l'amico israelita, di cui ha letto la lettera, sarebbe in grado di identificare per dura esperienza, «sapendo, come ebreo, che cosa significhi essere vittime della violenza collettiva».
Quei segnali allarmanti sarebbero «l'uso dello stereotipo» e «il passaggio dalla responsabilità personale a quella collettiva». Per stare alla questione pedofilia, lo stereotipo starebbe in quelle rappresentazioni, che diventano luoghi comuni, che identificano vita religiosa e pederastia. O che vedono nella prospettiva cattolica solo il moralismo ipocrita di chi, in segreto, è assai peggio degli altri, praticando vizi inconfessabili.
Da qui, il passaggio a generalizzazioni, come se ogni battezzato fosse, in quanto tale, un potenziale maniaco sessuale; così come, per l'antisemitismo, ogni ebreo era tacciato di essere un cittadino infido e una sanguisuga dei popoli. Una denuncia, insomma, della gravità della persecuzione che colpì gli ebrei e, insieme, della possibilità che anche i cristiani diventino perseguitati. È una prospettiva, peraltro, che già si è fatta realtà: se in Occidente qualcuno vorrebbe respingere il cattolico in una riserva, chiudendolo in una sorta di apartheid, in altre parti del mondo non scorre inchiostro ma sangue. Stando anche alle statistiche della insospettabile Amnesty International, da almeno due decenni il cristianesimo è, nel mondo, la religione più perseguitata. Il martirologio dei credenti nel Vangelo giustifica la denuncia di una persecuzione sempre crescente. Non solo ogni anno Ordini e Congregazioni missionarie stilano un elenco impressionante di vittime, ma le Chiese locali stesse piangono i loro defunti, spesso massacrati nei modi più crudeli.
È a questo scenario di vastità mondiale e di lunga durata, non all’attuale cronaca nera a sfondo sessuale, che voleva riferirsi padre Cantalamessa. Per questo non ha avuto torto il portavoce vaticano, padre Lombardi, nel rassicurare il mondo ebraico che non vi era alcuna intenzione di equiparare le campagne antisemite alle campagne contro la pedofilia. Come se si volesse mettere sullo stesso piano la persecuzione degli innocenti ebrei e la giustizia verso dei religiosi colpevoli non solo di un peccato contro i comandamenti di Dio ma anche contro la legge degli uomini. E ha avuto ragione, il padre Lombardi, anche nel rinviare al testo autentico, per constatare come il padre Cantalamessa non solo non avesse proceduto a cinici confronti, ma desiderasse, anzi, dire la sua gratitudine a un israelita amico e solidale.
Se lette in questo modo, le affermazioni «scandalose» del Predicatore Pontificio non sono più tali: anzi, meritano riflessione perché, mentre deprecano un passato di violenza, denunciano un presente e un possibile futuro segnati essi pure dalla violenza. Questo riconosciuto, non ha torto neppure il pacato rabbino del Jewish Committee nel deprecare «un uso sfortunato del linguaggio» da parte dell'autorevole cappuccino. Più che di «sfortuna » parleremmo, lo si diceva, di inopportunità: come ha ricordato il rabbino capo di Roma, il momento per rischiare equivoci su questi temi non è certo il venerdì santo, ricorrenza di una morte in croce a Gerusalemme. Il malinteso di cui è stato vittima il buon francescano padre Raniero ricorda quello che provocò la sollevazione dell'altro monoteismo, l'islamico. La citazione, fatta da Benedetto XVI nella sua Ratisbona, di una frase ingiuriosa verso Maometto scritta da un imperatore bizantino del XIII secolo, fu «lanciata» dalle consuete agenzie come se rispecchiasse il pensiero del Papa. Al contrario: era stata fatta da papa Ratzinger per dissentirne. Altri, troppo numerosi, infortuni mediatici hanno coinvolto in questi anni la Gerarchia. Le cause? Innanzitutto, forse, l'eccesso di parole dette e scritte; poi, la minor qualità della «macchina» ecclesiale chiamata al controllo dei testi; infine, una certa ingenuità degli uomini di Chiesa. Abituati a discorsi complessi e articolati, non mettono in conto la necessità dei media di sintesi, spesso brutali se non deformanti, che facciano titolo. Educati, poi, alla lealtà, confidano in quella del «mondo» dove, invece, non pochi li attendono al varco per danneggiare quella Chiesa che considerano avversaria. Da qui una «modesta proposta per prevenire»: affiancare, cioè, ai severi corsi di aggiornamento biblico e teologico, anche l'incontro con qualche vecchio, scafato cronista che, ai troppo fiduciosi pastori, riveli trappole e agguati del media-system e gli onesti, ma furbi, trucchi per evitarli.