DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Addio vecchia Harlem i neri sono minoranza

Era il cuore di tenebra nel corpo della città luminosa, con quel suo nome ingannevolmente gentile da tulipano, Harlem, come la capitale dei fiori olandesi, imposto dai primi bianchi arrivati nel Seicento appunto da Haarlem. I figli degli schiavi vi avevano trovato rifugio dal Sud razzista, soltanto per cadere nelle grinfie del Nord esoso degli immobiliaristi, i signori degli slum. I bianchi della Manhattan buona andavano a visitarla come si va vedere le fiere allo zoo, per ascoltare con il brivido del finto safari disneyano la jungle music, la musica della giungla che Duke Ellington avrebbe dovuto comporre ed eseguire per loro al Cotton Club. Harlem era cultura, storia, dolore, crimine, musica, violenza, gospel, fede disperata, cori angelici di bambini e covi di magnaccia. America.
Era: perché sta inesorabilmente estinguendosi e rinascendo come un grande villaggio multirazziale, sempre più bianco e sempre meno neo. È una buona notizia. È una cattiva notizia. È il destino ciclico di tutti i villaggi che formano New York, le Little Italy scomparse e le Chinatown esplose, le Little Odessa e la SoHo, la "Cucina del Diavolo" e il "Distretto della moda", membra di un corpo che non può riposare e distrugge, poi ricostruisce se stesso nel metabolismo furioso della città che non dorme mai.

Harlem, che sembrava resistere protetta e incarcerata nella gabbia del colore, è ormai più bianca che nera, ci racconta il quotidiano locale, il New York Times. Soltanto quattro residenti su dieci che vivono oltre quella 96esima strada che un tempo era il confine tra la giungla bianca e quella nera, chiusa a nord dal fiume Harlem, sono afroamericani e la trasformazione accelera. I nuovi arrivati non sono "afro", ma famiglie bianche attratte dalle nuova costruzioni che spuntano sui crateri dei vecchi tenement, dei termitai demoliti, dai prezzi più convenienti, dal "multiculturalismo" che sta spingendo sempre più a nord la frontiera, ormai salita dalla vecchia 96esima strada alla 125esima e oltre.


Si chiama, nel gergo della sociologia e dei piani regolatori, gentryfication: la "borghesissazione", la "perbenizzazione" dei quartieri e delle zone "per male". L'avanzata dei cantieri e dell'edilizia, la sola forza alla quale nessuno resiste, espande il territorio con il richiamo di prezzi. Appartamenti nuovi o ristrutturati che costano, a parità di dimensioni, seicento, settecentomila dollari contro il milione e mezzo, o i due, che costerebbe lo stesso alloggio venti o trenta strada più a sud. Sbocciano, segnali eloquenti della metamorfosi di Harlem, le insegne dei negozi, delle caffetterie, dei supermercati con pretese "organiche", noi diremmo biologiche. gli Starbucks e i centri di yoga, i Jamba Juice per le spremute di frutta fresca, i Whole Foods che sostituiscono i negozietti con le grate di ferro alle vetrine, la pubblicità della lotteria gratta-e-vinci, le Marlboro e le friggitorie di soul food, la cucina afro del Sud.

Buone notizie, cattive notizie. La marea immobiliare solleva tutte le barche, secondo il dogma dell'economia di mercato, e neppure la mazzata dell'11 settembre, quando un gruppo di assassini ignoranti credette di poter spezzare le gambe a New York polverizzando due grattacieli, o il temporaneo collasso della finanza nel settembre 2008, hanno mai fermato la città. Adesso la marea bianca spinge decine di migliaia di famiglie nere ad andarsene, a rifugiarsi in sobborghi lontani, disperdendosi nel grande nulla della cintura extraurbana. Nel 1950, dopo la grande migrazione bellica, vivevano a Manhattan 350mila americani di colore. Oggi sono 175mila.
Con l'espulsione resa facile dal fatto che pochissimi fra i residenti di Harlem sono proprietari di case e tre quarti vivono in affitto, scende il crimine, calmierato dall'altro grande segreto di Pulcinella della sicurezza urbana, la presenza molto più numerosa e visibile della polizia. Da 8mila reati gravi all'anno, siamo a meno di duemila e fra essi, da sempre, lo stupro è una rarità. Un segno, dice lo storico di Harlem Michael Adams, del "senso di comunità" che esisteva anche negli anni più duri.

Ma la Harlem della cultura tragica e insieme forte del ghetto e della marginalità inevitabilmente si dissolve. I club malfamati, dove il neo-maturato liceale Gianni Agnelli volle correre nel suo primo viaggio premio in America nel 1939, scortato su consiglio dei Rockefeller dal campione dei massimi Joe Louis per evitare guai, è un ricordo. L'Apollo, il teatro, resiste ospitando performer e soprattutto comici ancora di pelle scura, ma divenuti fenomeni nazionali, come Chris Rock. Il sound, la musica di Harlem esplosa negli anni del "Rinascimento di Harlem", negli anni Venti, di "Duke", di Cab Calloway, di Miles Davis, di Satchmo Armstrong che qui dovette venire da New Orleans per affermarsi, fino al rap e allo hip hop, si sta spegnendo. La gentryfication, l'imborghesimento, porta discreti cappuccini e arance biologiche, ma non il grido della creatività musicale. Anche il celebre Coro dei bambini di Harlem, che cantava il Requiem di Mozart in latino e Bach in tedesco, che incise con Pavarotti, intrattenne regine europee e consolò New York al funerale per le due Torri, è stato sciolto
Harlem non tornerà a essere il villaggio bucolico di fattorie e di ville signorili che era nel Settecento. Sta diventando quello che il furbissimo Bill Clinton aveva capito nel 2001, quando lasciò la Casa Bianca e scelse, come proprio ufficio, un palazzetto sulla 125esima strada. Una giungla diventata un giardino della multietnicità, dove - e questa è la novità straordinaria - abita chi ci vuole abitare e non più chi è costretto dalla propria pelle.

© Corriere della sera (07 gennaio 2010)