DI C HIARA Z APPA
L’ anno dell’Africa. Fu definito così il 1960, quando 17 Paesi del continente conquistarono uno dopo l’altro l’indipendenza, in un movimento in larga parte pacifico. Il «vento del cambiamento » cominciò a soffiare dal Camerun, il primo gennaio. Presto vennero i possedimenti francesi di Togo, Mali e Senegal. Poi il Madagascar, il Congo belga (che però subito sprofondò nella guerra civile), la Somalia. Ad agosto, a distanza di pochissimi giorni l’uno dall’altro, divennero indipendenti Benin, Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo e Gabon. In autunno, infine, fu la volta di Nigeria e Mauritania. Il 14 dicembre, l’Assemblea generale dell’Onu (a cui avevano ottenuto un seggio tutti i Paesi di recente indipendenza, tranne la Mauritania), votò le prime risoluzioni di condanna esplicita del colonialismo. Mentre le potenze europee si erano ormai convinte dell’irreversibilità della decolonizzazione, nella società civile si diffondevano aspettative, si coltivavano sogni e – col senno di poi – anche grosse illusioni. Cinquant’anni dopo, il panorama è per molti versi sconfortante. Dove sono finite le grandi speranze dell’autodeterminazione? Perché, oggi, il continente africano nel suo complesso non può certo essere definito «indipendente»? «La decolonizzazione non rappresentò la fine dell’interdipendenza asimmetrica e se mai la cristallizzò nel divario sul piano politico e soprattutto economico», chiarisce subito il noto africanista Giampaolo Calchi Novati , docente all’università di Pavia, autore per l’Ispi di un policy brief
dedicato proprio al cinquantesimo anniversario dell’Anno dell’Africa. «Il potere ordinativo del mercato prese il posto delle altre forme di dominio». Secondo Calchi Novati, in quel contesto di repentino mutamento mancò «un po’ a tutti i beneficiari della decolonizzazione, e soprattutto ai governi africani, una strategia coerente e consapevole della transizione», così che «in Africa lo Stato postcoloniale, costituito più sul 'riconoscimento' internazionale che sulla verifica del consenso interno, si trovò davanti al problema oggettivamente improbo di costruire valori comuni senza mezzi adeguati». Ciò che resta purtroppo evidente è che in questi decenni, pur essendo stati raggiunti «risultati notevoli nel campo della mortalità infantile, della scolarizzazione della popolazione femminile, della produttività agricola», per molti aspetti «la situazione dell’Africa a sud del Sahara è peggiorata nonostante gli aiuti».
«Una teoria abbastanza diffusa – spiega Anna Bono, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’università di Torino – è che dalla dipendenza si sia passati a una forma più subdola di colonialismo, fatta di cooperazione sotto condizioni e interferenze sia politiche che economiche. La mia opinione, tuttavia, è che le leadership africane con rarissime eccezioni si sono ben volentieri prestate ad assecondare gli interessi geopolitici e strategici delle ex madrepatrie, in cambio di favori per sé». La responsabilità fondamentale del mancato sviluppo, dunque, appartiene – secondo Bono – ai governi locali, che «avrebdibattito bero avuto i mezzi per imporre le proprie condizioni». E che, invece, continuano a non farlo: «Si sente parlare spesso di 'saccheggio dell’Africa', ma si tratta di un’espressione impropria, perché lascia intendere che le risorse abbandonino il continente senza essere remunerate. In realtà il problema è chi beneficia dei proventi delle ricchezze africane». La studiosa cita casi di ordinaria corruzione ma anche di «gestione anomala» del po- tere, «come quello del presidente della Repubblica democratica del Congo Joseph Kabila, che stipula accordi con le multinazionali senza neanche interpellare il parlamento ». Qualche spiraglio, secondo Bono, potrebbe venire dal tessuto produttivo africano: «Praticamente in tutti i Paesi del continente ci sono nuclei di ceto medio imprenditoriale con una visione sia politica che economica sostanzialmente sana, ma si tratta di minoranze che non riescono ancora a diventare soggetti politici di peso. Essenziale è sostenere la creazione di aree regionali di libero mercato e libera circolazione di merci e persone: un passo importante perché si sviluppi un’economia nel continente».
Grande ostacolo allo sviluppo, tuttavia, resta «l’arretratezza, politica e industriale»: ne è convinto il missionario del Pime (e giornalista) padre
Piero Gheddo , che spiega: «Nel mondo globalizzato nessuno Stato è davvero indipendente, basti pensare all’America che ha un debito con la Cina di 88 miliardi di dollari! Ciò che fa la differenza, in negativo, è che l’Africa non ha raggiunto un’autosufficienza alimentare e quindi, nonostante le grandi ricchezze di questa Terra, i Paesi non possono sopravvivere senza importare il cibo, o ricevere aiuti alimentari ». La questione chiave, secondo il missionario, è che, «dopo le indipendenze troppo affrettate, i Paesi che provenivano da un’economia di sussistenza e dal governo dei capo-villaggio non sono riusciti a elaborare forme di Stato adeguate. Le strutture lasciate dai colonizzatori non sono state recepite e non si è però nemmeno si è verificata una crescita politica originale. Tribalismi e dittature, insieme a innegabili fattori esterni come le influenze militari delle ex madrepatrie, hanno ostruito la via dello sviluppo ». Cinquant’anni dopo, l’unica strada per cambiare rotta resta, per Gheddo, «l’educazione del popolo. Dobbiamo puntare sulla formazione e l’alfabetizzazione, per poi arrivare all’organizzazione della società civile, attraverso cui l’Africa potrà fare sentire la propria voce ». Il cammino non è semplice. Anna Bono ricorda il ruolo di un attore recente come la Cina, che «proprio mentre si cercava di condizionare gli aiuti a scelte di trasparenza, buongoverno, rispetto dei diritti, è invece disposta a 'cooperare' con l’Africa senza porre scomodi paletti ». In questo contesto Calchi Novati, citando anche osservatori africani come Wangari Maathai e Dambisa Moyo, ritiene oggi urgente «un miglioramento delle procedure stesse della cooperazione». Anche al tempo dei nuovi rapporti SudSud, con l’irruzione sulla scena di Cina, India, Brasile nonché dei Paesi del Golfo, «superare l’asimmetria è il presupposto minimo per una cooperazione che promuova uno sviluppo reale e sostenibile».
Nel 1960 ben 17 Paesi del Continente nero diventarono indipendenti Grandi speranze, ma non fu piena autonomia: perché?
Esperti a confronto
Dopo mezzo secolo si può dire che la situazione è peggiorata, nonostante gli aiuti internazionali Saccheggio estero delle materie prime, ma anche corruzione, tribalismi, dittature
Avvenire 31 dic. 2009