Tratto da Avvenire del 10 gennaio 2010
Le cronache da Rosarno hanno raccontato in questi giorni immagini da guerriglia urbana. Incendi, barricate, cacce all’uomo, ferimenti a colpi di spranga o di fucile. Poi, giustamente, è stata imposta una tregua in quella sacca di barbarie metropolitana scoppiata come d’improvviso in Calabria. D’improvviso, ma lungamente covata. Le telecamere hanno portato nelle nostre case i tuguri di cartone, i giacigli di coperte sudice in cui vivono gli uomini che lavorano quattordici ore al giorno a raccogliere le arance, a giornata, e in nero. Le arance che noi compriamo anche a tre euro al chilo al mercato, passano per pochi centesimi tra le mani di braccianti neri come quelli. Chi le raccoglie altrimenti? La loro manodopera ci è indispensabile, ma sono irregolari, senza tetto né legge. Ed è proprio la eclissi di ogni legge e legalità che colpisce, in queste cronache calabresi d’inizio d’anno. Migliaia di braccianti irregolari a Rosarno erano forse invisibili? Le loro baracche, i loro libretti di lavoro inesistenti, i soldi in nero messi nelle mani a fine giornata, e gli efficienti gestori di questo traffico, tutto era invisibile? No, e ce l’hanno detto gli stessi rappresentanti dello Stato: tutti sapevano e molti hanno continuato a fingere di non vedere nell’inquieto vivere di quelle realtà inesorabilmente infiltrate di malavita e malapolitica. Ora è uno scaricare reciproco di responsabilità tra istituzioni, un parlare di «eccessiva tolleranza della clandestinità» – ma «tolleranza», da parte di chi? Gli abitanti di altre parti d’Italia, abituati a pagare multe anche se c’è un vasetto di plastica nel sacchetto dei rifiuti umidi, si chiedono dove fossero i 'controllori' a Rosarno.
E finalmente l’intermittenza della legge sino alla sospensione e infine all’eclissi ha generato quello che era inevitabile: una deflagrazione di rabbia, un inferocito vandalismo di miserabili; e la controrisposta, puntuale e simmetrica, di gente che magari ha avuto l’auto distrutta sotto casa e che ha visto la propria città devastata. Bastoni, agguati, pestaggi a sangue. Un rigurgito di brutalità primitiva, la logica bestiale delle faide che da antiche radici si allarga e si fa valere. Prevedibile, in quel limbo di precarietà e miseria che metteva assieme nello stesso paese quasi due distinte razze di uomini: i cittadini, e gli invisibili. Se a questo poi si aggiunge la presenza in quell’area della Calabria di una criminalità organizzata che regola la società come un antiStato – e forse è anche in grado di muovere i fili del malcontento popolare e di eccitare ad arte l’ira degli sfruttati – si arriva poi, in una sottocultura del sopruso, alle cacce all’uomo, o all’ostilità perfino verso quei volontari che agli extracomunitari danno ancora in questi giorni da mangiare.
Come il sonno della ragione, anche quello della legge genera mostri. Si torna alla guerra per bande, si torna alla occupazione del territorio con la clava. Vengano allora in massa gli uomini in divisa, venga anche l’esercito, se oggi è l’ultima possibile affermazione che una legge, uno Stato esistono. La prima urgenza, come ha detto il presidente Napolitano, è fermare definitivamente la violenza. Fermare la oscura brutalità riemersa in un angolo d’Italia, nel 2010.
E però non può bastare. È lo Stato, è l’Italia, che deve ritornare a Rosarno. La generosa fatica dei volontari per gli immigrati, in questo caso da sola non basta: se non c’è chi impedisce che si lavori per due euro all’ora, e che si dorma nel fango. Se non c’è quello che gli uomini di fede e di ragione invocano come «riscatto della giustizia». In un Paese, il nostro, che di ogni persona riconosce la dignità. E dove chi lavora ha diritto almeno a un tetto, e a essere trattato da uomo.