“Non ci può essere la guerra il giorno prima, e poi la pace”, ha detto venerdì notte un ispettore di Polizia accendendosi una sigaretta di fronte al municipio di Rosarno, in attesa che arrivassero i rinforzi dalla Sicilia e dalla Campania per sedare la guerriglia degli immigrati e le rappresaglie dei cittadini. Nonostante le agenzie già battessero i primi lanci intonati alla “ritrovata calma” per le strade della cittadina, le forze dell’ordine non sembravano del tutto tranquille. Perché su questo centro alle spalle di Gioia Tauro, come sul resto della piana, ha ragione l’ispettore: non ci può essere la guerra il giorno prima e poi la pace. E viceversa: l’attuale pacificazione, con i cittadini di Rosarno che ieri hanno manifestato per dire “no al razzismo”, non esclude il conflitto di domani. Perché Rosarno non si è infiammata d’un tratto, anche se la sintesi dei titoli a volte ci costringe a sostenerlo. Rosarno brucia (ancora) a fuoco lento. Ci sono, certo, i pallini esplosi giovedì scorso contro due immigrati e provenienti da un fucile ad aria compressa. C’è anche, forse, una provocazione precedente e la violenta vendetta che ne è seguita. Ma comunque la similitudine della scintilla che accende le polveri regge solo fino a un certo punto, se non altro perché all’esplosione che ne è risultata – prima i due giorni di guerriglia degli immigrati, poi le rappresaglie violente di alcuni locali, infine il caos mediatico-politico – non seguirà la polverizzazione dei problemi sottostanti. Come il cortocircuito tra politica e criminalità organizzata, e la pressoché totale incapacità di prevedere e gestire, cioè di governare, emergenze sociali ed economiche come l’immigrazione e la crisi del sistema produttivo locale.
Al municipio di Rosarno, innanzitutto, non c’è un sindaco, né ci sono consiglieri comunali eletti. Dal dicembre 2008, da quando cioè la giunta è stata sciolta dal governo per infiltrazioni mafiose, l’amministrazione cittadina è commissariata. L’ufficio di quello che una volta fu il primo cittadino si trova alle spalle del cimitero, come sottolinea ridendo la tassista mentre ci avviciniamo a tarda sera. “Rosarnesi” al massimo si può morire, però sicuramente non si nasce più, visto che l’ospedale inaugurato da Giacomo Mancini negli anni Settanta non ha mai aperto i battenti ed oggi è ridotto a un rudere. Ma la stanza occupata dal prefetto, Domenico Bagnato, è stata comunque al centro dei fatti di questi giorni, forse per l’affabilità del suo inquilino, abituato a operare in contesti difficili. E così Bagnato parla con tutti, ma proprio tutti: riceve gli immigrati anche venerdì mattina, a devastazioni già avvenute e reiterate, assicurando che nell’ultimo anno ci sono stati alcuni passi concreti verso un migliore trattamento degli stranieri. I bagni chimici posizionati nella “Rognetta”, una fabbrica dismessa e adibita a dormitorio di circa 300 stranieri, a pochi metri dalla scuola elementare cittadina; la bonifica della “Cartiera”, un altro ex complesso produttivo trasformato in foresteria abusiva, bruciato l’estate scorsa da un fornelletto da campo rovesciato per sbaglio; infine l’allaccio dell’acqua potabile portato ad altri 600 immigrati che bivaccano sulla collina del comune limitrofo di Rizigoni, anch’esso commissariato. Prefetto disponibile dimostra di esserlo anche quando dialoga con i cittadini locali che occupano il municipio, “finché quelli (ovvero gli immigrati che vivono alla Rognetta) non se ne saranno andati da vicino alla scuola”, annunciano al Foglio pochi minuti dopo averlo detto alle autorità.
Erano una trentina di persone in tutto, gli occupanti del “comitato spontaneo”; a ogni piè sospinto assicuravano di “rappresentare tutti i cittadini” e di “non c’entrare nulla con la politica”.
Passata la notte, vanno ancora una volta al secondo piano del municipio, con le loro richieste da presentare. A pochi metri dalla soglia dell’ufficio del prefetto, Domenico Ventre, ex assessore di destra dell’ultima giunta sciolta per mafia e uno dei leader dell’autodefinito “comitato spontaneo”, sussurra alla volta dei suoi: “E’ un momento storico per Rosarno”.
Lo sgombero della Rognetta, era la prima richiesta del comitato. Esaudita, anche perché ora sembrano d’accordo pure gli immigrati. Lì non potevano più stare: alla guerriglia esplosa su via Nazionale, la strada che attraversa Rosarno passando per il suo centro, sono seguite infatti le rappresaglie di alcuni residenti. “Bravo Mohammed! Hai fatto bene, è nel tuo interesse”, urla, quasi esultando, Don Pino De Masi, mentre anche l’ultimo immigrato – ancora venerdì sera – esce fuori dal labirinto di tende accatastate tra le quattro mura senza tetto della Rognetta. Poi si rivolge ai poliziotti che lo accompagnano nell’operazione di sgombero, quasi a giustificare il giovane: “Non voleva uscire, dice che tutti lo conoscono in paese e sanno che non farebbe del male a nessuno. Ma ora ha capito”. Come lui hanno capito altri 320 immigrati, partiti su otto pullman scortati alla volta del Centro di prima accoglienza di Crotone. Sono solo i primi di una serie. Tra venerdì e domenica i trasferimenti continuano. Complessivamente 428 extracomunitari sono stati portati al Centro di prima accoglienza di Crotone; altri 400 al Centro di accoglienza di Bari; e altri 300 si sono diretti al nord in treno.
Perché oltre a quelli che vivono concentrati nei capannoni dismessi di Rosarno, ci sono poi quelli come Moussa, giovane africano con regolare permesso di soggiorno che si trova in un casolare diroccato in località Fabiana, sulla strada che da Rosarno porta a Vibo Valentia. Mentre Laura Boldrini, portavoce per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, gli chiede se voglia restare, dalla casa a due piani e dai campi circostanti iniziano a comparire altri africani. Si avvicinano alla spicciolata, quando capiscono che non siamo locali alla ricerca di capri espiatori. Hassan, del Burkina Faso, parla francese a voce bassissima: “Non mi hanno pagato”, dice indicando gli aranceti tutti intorno e alludendo ai proprietari. Come lui anche altri lamentano di non aver ricevuto lo stipendio, e di non potere recarsi in paese a chiederlo visto anche il clima che c’è ora. Moussa poi sovrasta il chiacchiericcio e, prima in italiano e poi in francese – come per accertarsi di essere stato capito – spiega: “Noi vogliamo andare via da qui. Questa notte non abbiamo dormito per la paura”.
Eppure i braccianti stagionali a Rosarno ci sono da decenni, ogni anno tra dicembre e marzo, a raccogliere prima i mandarini e poi le arance. Fino agli anni Ottanta erano italiani, soprattutto calabresi dei paesini limitrofi – come Anoia, Serrata, Cinquefrondi –, ma non solo, come testimonia l’insegna sulla via Nazionale 18 di “Antonino Branca Spa”, industria agrumaria di origine siciliana e trasferitasi al di là dello Stretto ormai da decenni. Poi nei primi anni Novanta è stata la volta degli africani. E il fatto che andasse così da anni, rende l’impazzimento avvenuto proprio in questi giorni soltanto più difficile da spiegare.
Certo le avvisaglie non erano mancate: “Nei primi mesi del mio mandato”, dice al Foglio Peppino Lavorato, già sindaco di Rosarno per i Democratici di sinistra tra 1995 e 2003, “pensai di dedicare la festa dell’unità nazionale del 4 novembre alla necessità di ritrovare uno spirito di convivenza. Allora infatti uno di questi braccianti immigrati venne ucciso”. Era la metà degli anni Novanta, poi l’anno scorso due immigrati sono stati colpiti con un’arma da fuoco mentre tornavano a casa dopo una giornata passata a raccogliere agrumi per circa 25 euro di salario. Gli extracomunitari allora manifestarono per le vie del paese. “Quella volta però erano stati civili”, ripetono tutti in paese, “mentre questa volta hanno esagerato”. Il corteo di oltre 400 immigrati tra giovedì e venerdì ha effettivamente lasciato i segni: non solo cassonetti rovesciati e pneumatici dati alle fiamme, ma anche macchine danneggiate e cittadini locali aggrediti, e insegne delle attività commerciali completamente distrutte. O quasi, visto che alcune pompe di benzina pare siano state volutamente “risparmiate”, così come i negozi gestiti da commercianti cinesi.
Violenza inusitata da parte degli africani, questo sicuramente può spiegare l’incredulità che serpeggia tra i locali. Quanto agli episodi di caccia all’uomo, però, fonti investigative confermano che “qui nulla di significativo si muove senza che ci sia quantomeno l’assenso della malavita organizzata. A maggior ragione quando si inizia a sparare”. Se e perché la ’ndrangheta abbia avuto interesse a creare il caos a Rosarno è ancora da capire. Gli investigatori, come primo passo, stanno analizzando i video di questi giorni – all’ingresso di Rosarno campeggia la scritta “città videosorvegliata” – : “I volti noti non sono difficili da individuare in realtà così piccole”, spiegano gli inquirenti. Molti osservatori intanto hanno ventilato l’ipotesi di un diversivo attuato per distogliere l’attenzione dello stato dopo la bomba esplosa di fronte alla procura di Reggio. “Sempre a livello di ipotesi – aggiunge l’ex sindaco Lavorato – ci si può chiedere a chi giovi che le campagne si spopolino e i produttori, a corto di manodopera, siano costretti a svendere i terreni”. Fuori di (domanda) retorica, conviene forse ai proprietari terrieri malavitosi, sempre più alle strette per confische dei terreni e alla ricerca di nuova terra.
Ma a voler ascoltare le persone del posto, ci si rende conto che i problemi di convivenza erano innegabili. Un abitante di Rosarno su cinque è straniero, e nel caso degli africani, generosa benificenza a parte, mancava qualsiasi processo di reale integrazione. “Pisciano dappertutto” è la frase che si sente ripetere sempre in giro, quasi una cartina di tornasole di una convivenza ravvicinata cresciuta rapidamente e senza alcuna programmazione, come dimostra la collocazione del dormitorio della Rognetta a fianco della scuola elementare. “Ha ragione il ministro Maroni, c’è stata troppa tolleranza nel farli entrare nel paese”, si sente dire. Poi encomi al sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi.
Di esagerazione in esagerazione, si è arrivati alle barricate, come quelle costruite fuori dall’ex Opera Sila, un frantoio mai avviato per la produzione e occupato prima degli scontri di questi giorni da circa seicento immigrati. Automobili bruciate e rovesciate, l’odore acre di pneumatici andati in fumo: la statale per arrivare a Gioia Tauro – le gru del porto si vedono all’orizzonte, a nemmeno dieci chilometri – è stata bloccata a lungo. La barricata l’hanno innalzata gli immigrati, poi hanno continuato i locali. Armati, tutti – almeno quelli presenti venerdì notte – di bastoni. Tra loro, non solo nativi. Giorgio, bulgaro, chiede in italiano stentato: “Credi che gli faccia più male questo o quello?”, indicando prima il bastone che ha in mano, poi quello del vicino, anche lui bulgaro. Impazzimento, perché quest’anno, però? E’ probabile c’entrino le arance, e il fatto in particolare che ormai quelle della piana di Gioia non siano più assolutamente competitive nel mercato: “Un chilo di succo d’arancio concentrato costa 1 euro e 20 centesimi se arriva dal Brasile. Noi qui non riusciamo a scendere sotto 1 euro e 70 centesimi”, dice al Foglio Benedetto De Serio, direttore della Coldiretti calabrese. Risultato, le arance – che peraltro nella qualità coltivata in loco non sono più appetibili per il mercato della frutta fresca, ma utilizzate solo come materia prima per il succo – vengono raccolte sempre meno dall’albero e lasciate cadere a terra. Senza impiegare manodopera, come era stato previsto anche da tutti gli operatori. Ci perdono i locali, e ci perdono gli stagionali, soprattutto quegli extracomunitari per cui non c’è un secondo lavoro o una rete sociale cui fare riferimento. Arance amare, per il 2010.
Il Foglio 12 gennaio 2010