Interpretazione
dei primi tre comandamenti
In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell'arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l'avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell'onore - qualunque sia la forma di questi beni - non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c'è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all'infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è 'Io'. L'uomo deve trattare con questo "io", non con una legge generale, non con un "si deve fare questo o quello", ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l'ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti "Parole di vita" (Atti 7,38).
Forse invece di dire "dieci comandamenti" sarebbe meglio parlare delle "dieci parole" di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il "Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l'eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un'abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice "Io", allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice "Io", questo è grazia. Quando Dio dice "Io", dice semplicemente tutto, la prima cosa e l'ultima; quando Dio dice "Io", vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l'unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C'è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l' obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l'obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l'unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com'è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell'arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell'arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.
Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L'imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»... e perciò non... È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l'unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l'uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c'è posto per null'altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d'essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l'arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l'onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di "altri dei". Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c'è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l'insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l'onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l'incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell'imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all'idolo d'oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D'altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell'esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell'imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l'animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».
Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell'Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l'Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». "Dio" non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. "Dio" è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono "dio", o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. "Dio" è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire "Dio", lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo "Dio", è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).
La parola "dio" è nulla; il nome "Dio" è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire "Dio"; e dicono invece "divinità", "destino", "provvidenza", "natura", "l’onnipotente". "Dio" suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola "dio" non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C'è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la "perla ai porci". È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l'obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell'occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c'è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c'è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola - non certo più vera - ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.
Il terzo comandamento
«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell'adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l'uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l'Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l'uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L'uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall'azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con "sabato" ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
"Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall'operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».
Dietrich Bonhoeffer nacque il 4 febbraio 1906, studiò per un semestre all'università di Tubinga e poi a quella di Berlino, fu assistente di Wilhelm Lütgert ed ebbe la libera docenza con Reinhold Seeberg. Dopo esser stato vicario nella comunità di lingua tedesca a Barcellona e dopo un ulteriore anno di studio al ‘Union Theological Seminary’ di Nuova York iniziò a tenere corsi alla facoltà teologica di Berlino ed allo stesso tempo fu pastore degli studenti del politecnico. Alla fine del 1933 andò a Londra per occuparsi lì di due comunità di lingua tedesca all'estero. Da lì tornò nella primavera del 1935 per dirigere il seminario per predicatori della chiesa confessante a Finkenwalde presso Stettino, finché nel 1940 dovette interrompere definitivamente quest'attività considerata illegale. Nel 1939 tentò di emigrare in America, ma tornò ben presto, convinto di aver preso una decisione errata con questo suo tentativo di emigrazione. Fino a quando fu arrestato, nel 1943, egli si occupò di compiti particolari per la chiesa confessante e partecipò sempre più attivamente ai preparativi per abbattere il regime nazista. Il 9 aprile 1945 fu ucciso nel campo di concentramento di Flossenbürg. A ventun anni scrisse la sua prima opera Sanctorum communio, la sua tesi di laurea. Nel 1931 fu edita la sua tesi di libera docenza Akt und Sein (Atto ed essere). Da uno dei corsi nacque la sua esegesi di Genesi 1-3: Schöpfung und Fall (Creazione e caduta), pubblicata nel 1933. Durante la sua attività al seminario dei predicatori scrisse Sequela, edito nel 1937, e La vita comune,. edito nel 1939. Lavorò alla sua Etica durante il periodo in cui gli era stato proibito di parlare e scrivere; l'opera è rimasta frammentaria. Il suo internamento gli impedì di portare avanti il lavoro di sistemazione. I frammenti apparvero postumi nel 1949. L'edizione di una scelta delle lettere, uscite in gran parte di nascosto dalla prigione, è stata fatta nel 1952, con il titolo Widerstand und Ergebung (Resistenza e resa); essa ha rinnovato e rafforzato l'interesse per il pensiero e l'azione di Bonhoeffer. Ora il Chr. Kaiser- Verlag di Monaco pubblica i suoi pensieri, le lettere e gli articoli sparsi e inediti in Gesammelte Schriften (Raccolta di scritti).