DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Epifania, festa di nozze divine. Don Divo Barsotti

Epifania, festa di nozze divine

Adunanza 6 gennaio 1963

«Hodie coelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Jordane lavit Christus ejus crimina; currunt cum muneribus Magi ad regales nuptias, et ex aqua facto vino laetantur convivae, alleluja». (Antifona al Benedictus delle “Lodi” dell’Epifania).
Il testo delle “Lodi” più di ogni altro testo liturgico ci dice che cosa sia la festa di oggi: la festa delle nozze divine. Il Cristo in questo giorno ha unito a sé la Chiesa. L’Incarnazione del Verbo è soltanto condizione a questo mirabile mistero onde un Dio si unisce all’uomo. L’unione ipostatica, cioè l’unione della natura umana e della natura divina nel Cristo, non è ancora le nozze divine. Le nozze implicano l’unione di due volontà, l’unione di due persone in una sola carne. L’unione di Cristo e della Chiesa: ecco il mistero della festa di oggi. Ma il mistero di queste nozze divine si ripete, anzi si fa presente, nel dono che ciascuno di noi fa di se stesso a Cristo. Ecco perché noi abbiamo scelto la festa dell’Epifania come festa delle nostre consacrazioni, come festa della rinnovazione del dono di noi stessi al Signore. Come Egli ci ha donato tutto se stesso incarnandosi per noi e per noi morendo sopra la croce, fino a non riservarsi più nulla per esser totalmente nostro, così noi in questo giorno siamo chiamati a donarci interamente a Lui per esser suoi figli. Certo che siamo figli di Dio come sue creature, certo che dobbiamo esser suoi, perché solo nell’essere posseduti da Lui possiamo trovare di fatto la nostra beatitudine e la nostra vita; tuttavia questo dono di noi stessi a Lui deve essere ratificato da una volontà cosciente, da un impegno reale di tutta la vita. Ed è quello che il Signore chiede stamani a tutti noi.
Quale dono portare a Colui che si è donato interamente a noi se non tutto l’essere nostro? Come Egli si dona a noi totalmente e per sempre, non dovremmo oggi a Lui donarci totalmente e per sempre? Certo che Dio ci dona l’infinita ricchezza della sua divinità e noi non abbiamo da portare a Lui altro che la nostra povertà, altro che la nostra miseria, ma quello che realizza l’unione nuziale non è tanto la grandezza del dono quanto il fatto che il dono deve essere totale. Almeno in questo noi possiamo vivere l’impegno stesso che Dio si è assunto a nostro riguardo: come Egli tutto si è donato, così noi tutti dobbiamo immolarci. È la totalità del dono che realizza l’unione nuziale, il non riservarci più nulla, il non appartenerci più, il non voler essere più che suoi. Ed è quello che il Signore oggi dunque a noi tutti chiede: che vogliamo liberarci da ogni riserva, che non vogliamo più porre alcuna condizione al suo amore, che vogliamo a Lui pienamente donarci e per sempre; che non vogliamo più possedere nulla di nostro ma divenire sua proprietà. Ogni sposo ha diritto sull’altro coniuge; il marito non si appartiene, dice Paolo, ma appartiene alla sposa e la sposa non appartiene più a sé: non appartiene più che allo sposo. Proprio questo definisce l’unione nuziale: non tanto, si noti, l’amore, quanto l’amore che è il dono totale di se stessi all’altro: un dono totale che non può essere ripreso mai più. Già nel matrimonio umano l’indissolubilità è una delle note fondamentali del contratto nuziale: dono totale e indissolubile. Ora, è precisamente questo che noi dobbiamo vivere; proprio a questo ci chiama la nostra vocazione cristiana e tanto più la nostra vocazione religiosa: a donarci e non appartenerci più, a donarci e a non riservarci più cosa alcuna. Esser totalmente di Dio, non essere più che di Dio, eternamente: suo possesso, sua ricchezza, suo bene. Che cosa Dio ci guadagni non so; ma una cosa noi sappiamo: che noi riceviamo in cambio tutta la pienezza divina. Come noi non possiamo riservarci nulla in questa unione nuziale, così Dio non si riserva nulla nel dono che ci fa di se stesso. Tutto è nostro. La preghiera dell’anima innamorata in San Giovanni della Croce possiamo ben ripeterla con pieno diritto, ciascuno di noi: «Miei sono i cieli e mia la terra, miei gli angeli, miei i santi, mia la Madre di Dio, perché Cristo è mio, è tutto per me».
Che cosa dirvi miei cari figlioli? Che cosa? Non so. Dinanzi al mistero di questa elezione divina davvero rimaniamo senza parole. Perché, in fondo, insistere sulle esigenze dell’amore divino? Abbiamo tutto da guadagnare donandoci a Dio. Non perdiamo, non rinunziamo se non alla nostra miseria, se non alla nostra povertà, se non alla nostra impotenza. Come è possibile insistere sul lato negativo della vita cristiana? In fondo, ogni rinuncia che il cristianesimo c’impone è una rinuncia alla morte, non una rinuncia alla vita. È una rinuncia a quelli che sono i limiti di un vivere di creatura povera e inferma per vivere la pienezza di una vita immensa come la vita divina. Che cosa dunque, dirvi? Non abbiamo che da ringraziare Dio perché Egli ci ha voluto per sé, non abbiamo che da lodare e adorare il Signore dell’ineffabile disegno di misericordia onde Egli ha segnato l’anima nostra.
«Hodie coelesti sponso juncta est Ecclesia». Si noti l’Antifona delle Lodi. Intanto, l’affermazione solenne e assoluta di un mistero che è veramente presente. E come è presente se tu non lo vivi? E come è presente se non si fa presente per te? L’unione di Cristo e della Chiesa deve farsi presente nella vita di ciascuno di noi: nella vita di noi consacrati al Signore, nella vita di coloro che oggi si consacrano ratificando quella consacrazione che già essi fecero il giorno del loro Battesimo, ma volendo viverla fino in fondo così da rinunziare per sempre ad ogni diritto su qualunque bene, sul loro medesimo corpo, sulla loro stessa anima: ché da oggi in avanti tutto questo non può appartenere più che al Signore. “Hodie”: prima di tutto, dicevo, dobbiamo sottolineare questo: il mistero si fa presente, il mistero di questa unione ineffabile, “oggi”. E non è presente oggi che nella risposta al Signore.
Ogni festa cristiana non è festa soltanto di Gesù di Nazareth, non è ricordo di un avvenimento passato: è la festa del cristiano, è il cristiano che attraverso ogni festa vien chiamato a partecipare al mistero. Ed è questo che dice L’Antifona: «Hodie coelesti sponso juncta est Ecclesia». Non dice che alla sposa oggi si unisce Gesù, perché il Cristo rimane permanentemente in questo dono totale che Egli ha fatto di Sé un giorno nell’atto della sua morte: Egli rimane in questo atto di donazione piena, totale, di tutto se stesso alla Chiesa, ma è oggi che la Chiesa per me si unisce a Cristo. L’Epifania è precisamente il giorno di queste nozze divine, di queste nozze dell’anima nostra con Lui. E come Gesù rimane permanentemente nell’atto di una sua donazione totale alla sposa, così la sposa deve vivere in un atto unico, definitivo, la donazione integrale di sé allo sposo, sì da non vivere ciascuno di noi più che questo giorno, così come ciascuno di noi non deve vivere più che questo mistero, il mistero di una unione con Lui.
«Hodie coelesti sponso juncta est Ecclesia». Dobbiamo renderci conto che la Chiesa non è un’ipostasi distinta da ciascuno di noi: non si può personificare la Chiesa quasi che la Chiesa sia senza i cristiani. Se voi togliete tutti i cristiani, Maria Santissima, tutti i santi del cielo, tutti i fedeli quaggiù, la Chiesa dov’è? La Chiesa in qualche modo si ipostatizza in ciascuno di noi; ciascuno di noi deve realizzare il mistero della Chiesa. Lo realizza più di ogni altra creatura la Vergine, e per questo è tipo della Chiesa, e quanto si dice della Chiesa si può dire di Maria, e quanto si dice di Maria si può dire della Chiesa. In noi questa ipostatizzazione della Chiesa è certo molto minore, ma è precisamente vocazione di ognuno di noi il vivere il mistero della Chiesa; e per questo quanto dice la Sacra Scrittura dell’unione della Chiesa con Cristo (Antico e Nuovo Testamento) si può e si deve applicare a ciascuna anima. Il principio è stato riconosciuto valido fin dai primi secoli del Cristianesimo. Già Origene, commentando il Cantico dei cantici, non si vede un Epistolario dell’unione di Dio con Istraele e poi di Cristo con la Chiesa: vede il canto nuziale dell’unione di ciascuna anima con Cristo. Quello che è il mistero della Chiesa è il tuo stesso mistero.
«Hodie coelesti sponso juncta est Ecclesia». Ora, alle nozze si preparava la sposa col bagno nuziale. Si doveva far bella per il suo sposo divino. E continua l’Antifona (perché è oggi che si celebra anche il Battesimo di Gesù) dicendo che l’acqua purifica il corpo della sposa nel Giordano, e corrono alle nozze i Magi portando i loro doni, e si allietano i convitati al banchetto per il tramutamento dell’acqua nel vino. Il tema dunque del matrimonio si arricchisce col ricordo di altri temi: il tema dell’unione nuziale non è separabile, di fatto, dal tema di una bellezza nuova che la sposa acquista nel giorno delle sue nozze. Ella diviene bella per lo sposo che la impalma. (Vi sono poi il tema dei doni e il tema della trasmutazione dell’acqua in vino. Questi temi, dicevo, sono legati al tema dell’unione nuziale).
È possibile per noi farci belli per essere sposati da Cristo? È mai possibile che il Cristo, che Dio, scelga la sua sposa perché trova nella sposa qualche bellezza che lo innamora? Certo, nell’unione nuziale fra gli uomini avviene così: è precisamente la bellezza della sposa che attira l’attenzione di colui che la sceglie. Ma non così può avvenire nella unione nostra con Cristo. La bellezza, la sposa l’acquista precisamente nella sua unione con Cristo. «Nigra sum, sed formosa» («sono negra ma bella»). La nostra anima inutilmente cercherà di avere qualche valore indipendentemente dalla sua unione con Lui. Al di fuori di questa unione nuziale, all’uomo non rimane che la sua miseria e la sua povertà, non rimane che il suo nulla, la sua indegnità, il suo peccato. Non possiamo noi gloriarci di alcuna nostra bellezza: tutta la bellezza, tutto il valore, tutta la grandezza nostra è nell’essere amati da Lui; è l’amore onde Egli ci ama e ci fa belli, è l’amore onde Egli ci sceglie che dona all’essere nostro un qualche valore. E quale valore, se siamo amati da Dio, se siamo la sposa del Cristo! In sé e per sé dunque ciascuno di noi deve riconoscere il proprio nulla, deve sentire la sua indegnità; ma ciascuno di noi deve essere consapevole anche dell’estrema grandezza della sua vita, dell’infinito valore che egli ha davanti agli occhi di Dio: noi contiamo quanto il suo medesimo sangue. Il prezzo di ciascun’anima è tutto l’amore infinito di Dio. Con quale riverenza dovremmo accostarci a ciascun’anima, di quale amore dovremmo amare ciascuno! Ciascun’anima vale quanto Dio. Dio non può fare differenza, se veramente ciascun’anima è la sua sposa, perché lo sposo non può giudicare meno di sé la sua sposa. Sposando, egli innalza al suo stesso livello, al suo medesimo prezzo, colei che egli ama.
La bellezza della sposa! Quale tema di meditazione per noi, miei cari figlioli! Un tema di meditazione continua. L’umiltà, virtù fondamentale nella vita cristiana, non autorizza nessuno di noi ad avere verso se stesso meno riverenza di quanta non se ne debba alle cose più sacre. La dignità, la grandezza di ciascun’anima è tale che io debbo sempre ricordarmi come gli stessi sacramenti divini siano per me: non io vivo per i sacramenti ma i sacramenti vivono per me. Non vi è dunque nulla di più alto, di più grande nell’universo che me: perché Dio, che è più grande di me, vive per me, e vivendo per me si nasconde: non vuole che a Lui sia tributato, si direbbe, l’onore, il riconoscimento, l’amore. Egli rimane, sì, presente nel mondo, ma nascosto; Egli rimane nel mondo, ma gli uomini non lo vedono né lo ascoltano: Egli è nel mondo solo per alimentare la nostra vita interiore, solo per donarsi a ciascuno di noi, solo per essere la nostra salvezza. Sul piano della storia, sul piano visibile, sul piano dell’economia presente tutto è per me: l’uomo è al centro e al vertice dell’universo. Lo sposo è più grande della sposa, perché è Lui che fa grande la sposa, ma lo sposo vive nel mondo solo la sua “kenosis”, solo il dono che Egli fa di se stesso alla sposa perché la sposa soltanto appaia nella sua pura bellezza. È quello che del resto avviene in generale: è la sposa che è bella; il marito si compiace soltanto che la sposa sia bella. La vera bellezza dello sposo è la sposa, non è lui. Egli si rispecchia, egli si contempla nella sua sposa. E così il Cristo.
Vertice della creazione. Nella misura che tu vivi la tua unione con Cristo tu vivi in questo vertice; tu sei veramente elevato, uguagliato a Dio, come dice San Giovanni della Croce. Certo che questo uguagliarmi a Lui è puro dono di amore, è gratuito dono di amore; in te non vi è nessuna bellezza, si diceva; la tua bellezza deriva soltanto dall’essere amato da Dio, dall’essere tu colei che Egli ama, colei nella quale riposa tutta la compiacenza dello sposo divino.
Altro tema: quello dei doni. Di quali doni si può parlare? Vi è un dono maggiore, che realizzi il matrimonio, di quello che la sposa deve fare di tutta se stessa allo sposo, sì da non appartenersi mai più? Ma qui si parla di “doni”, non di “dono”; ma precisamente si tratta di doni fatti da coloro che non sono la sposa. È indubbio che qui i Magi non rappresentano davvero la sposa. La sposa può essere l’umanità del Cristo, può essere la Vergine: non sono i Magi. I doni di cui parla qui l’Antifona non vogliono dunque significare il dono che la sposa fa di se stessa allo Sposo divino. Questo è già implicito nell’unione nuziale. Si parla di doni. Ma si parla di doni che fanno i convitati. Ora, tutti dobbiamo portare dei doni, ciascuno per gli altri. Consapevoli dell’immensa dignità di ciascuna nostra sorella, di ciascun nostro fratello, dobbiamo portare dei doni per celebrare la festa delle loro nozze col Cristo. Noi viviamo non soltanto l’unione con Cristo: dobbiamo vivere quaggiù nel mondo anche la festa dell’unione nuziale dei nostri fratelli. Siamo chiamati a vivere le nostre nozze e a partecipare a un banchetto di nozze di tutti gli altri che vivono con noi una stessa elezione divina; non possiamo vivere dunque la nostra unione nuziale separandoci totalmente dagli altri, non vivendo la gioia che ogni nostro fratello. Ogni nostra sorella vive nel rispondere a Cristo. Ognuno deve godere dell’elezione degli altri, ognuno deve essere pieno di gioia per l’ineffabile grazia che il Signore ha fatto a ciascuno. E questa gioia deve esprimerla correndo al banchetto, portando dei doni.
Pensate: in Paradiso, dice la teologia, la gioia sostanziale di ogni beato deriva dalla visione immediata di Dio, cioè dal possesso di Dio, che per ogni anima è dono personale, dono integrale. Sembrerebbe che questo, allora, separasse ogni anima dalle altre, in modo che ciascuna di queste anime dovesse vivere il suo Paradiso e vivere questa sua gioia intima, segreta, infinita, in un totale oblio di ogni altro fratello, di ogni altra sorella che viva lo stesso mistero. In tal modo l’anima è colma di gioia che sembrerebbe non avere nemmeno più ricordo degli altri. Invece, la teologia ci dice che ogni anima, alla gioia sostanziale che deriva dalla sua unione con Dio aggiunge la gioia di vivere una partecipazione alla gioia che hanno tutte le altre anime. Ogni anima che entra in Paradiso accresce la beatitudine accidentale, dice la teologia, di ogni anima che vive lassù: ossia, pur vivendo noi la nostra unione con Dio, questa unione non ci sottrae agli altri ma ci rende più capaci di partecipare alla gioia dei fratelli e delle sorelle che vivono lo stesso mistero?
Vivendo noi la nostra risposta al Signore, stamani siamo chiamati a vivere anche la gioia di una prima consacrazione a Dio e la gioia di un dono totale che due vostre sorelle fanno di se stesse oggi al Signore coi voti religiosi. La gioia che noi possediamo per la vocazione divina che il Signore ci ha dato si accresce per sentirci uniti in una famiglia sempre più vasta di anime che vivono lo stesso mistero di predilezione divina, che vivono la stessa risposta all’amore infinito di Dio. Ma si accresce questa gioia, e si deve manifestare questa gioia, nei doni: quali doni? E a chi si portano? Allo Sposo e alla Sposa. E sono dono di preghiera, e sono dono di carità, e sono dono di un’intima, sempre più intima unione fra noi. Dono di carità che si esprime nell’ora, dono di preghiera che si esprime nell’incenso. Il nostro amore per gli altri, il nostro sentirci legati e partecipanti tutti alla gioia di ciascuno, che cosa implica se non precisamente una carità più viva, una preghiera sempre più fervida, un ricordo continuo dei nostri fratelli?
Ultimo tema legato al tema fondamentale dell’unione nuziale è la trasmutazione dell’acqua. Ma questo tema, in fondo, era già implicito nell’altro tema del cangiamento della bruttezza, della “negritudine” (per usare il linguaggio degli Antichi Padri) nella bellezza. Che cosa trasmuta il Cristo? Nelle nozze quale trasmutazione avviene? La trasmutazione della nostra condizione di pena, di sofferenza, di miseria, si cangia in una condizione di beatitudine e di pace, di dolcezza e di amore, di ebbrezza divina. Se veramente ti doni a Cristo, tu non vivi più in te stesso, tu non vivi più che l’estasi, l’estasi dell’amore. Tu non appartieni più a te stesso, tu appartieni a Dio: tu esci dunque da te stesso per essere posseduto da Lui. Ed è questa la vita del cristiano una volta che viva la sua risposta alla vocazione divina: l’estasi. Il cristiano non può vivere che l’estasi. Ce lo insegna San Francesco di Sales, ce lo dicono tutti i santi: fintanto che viviamo in noi stessi noi ci rifiutiamo di vivere l’unione nuziale, noi apparteniamo ancora a noi stessi; fintanto che noi viviamo in noi stessi e per noi, noi non viviamo la nostra vocazione; noi ci sottraiamo al mistero. Quello che impone la nostra risposta alla vocazione che abbiamo ricevuto da Dio è che usciamo sempre di noi stessi per non vivere più che per il Signore: un uscire continuo, totale, fuori di sé. Ecco quello che esige la vita cristiana. Vivere in Dio, come Egli vive nell’uomo. Nel suo amore infinito Egli ha scelto di vivere in noi, Egli ha scelto di farsi uomo, di assumere la nostra miseria, la nostra povertà, il nostro peccato. L’estasi di Dio. Ma a questa estasi di Dio deve risponde l’estasi nostra: non possiamo vivere più in noi, non dobbiamo vivere più che in Lui: è il vino che dona l’ebbrezza. La trasmutazione che implica l’unione nuziale è precisamente questa ebbrezza che è il clima dell’anima che continuamente vive al di fuori di sé in Colui che essa ama.
Vivere in Dio: non soltanto vivere per Iddio, non soltanto vivere con Dio, ma vivere in Dio come dimentichi totalmente di noi stessi, come totalmente morti a noi stessi, per non vivere più che la sua medesima vita, il suo infinito amore, la sua beatitudine pura.
Lascia dunque che Dio prenda sopra di Sé la tua miseria, non ricordarla mai più. «Dimentica la tua patria» [Sal 44, 11], dice il cantore alla sposa. Non ricordare più che il tuo sposo, non voler ricordare nemmeno i tuoi peccati: non esiste più per te che la misericordia infinita di Colui che ti ha scelto, non esiste più per te che l’infinita bontà di Colui che si è fatto tutto tuo, che vuol essere tutto tuo. Dimentica, non ritornare a te, non ti compiacere di fermarti nella tua miseria, non compiacerti della tua povertà. Quante sono le anime che non sanno liberarsi da questo ricordo, che non sanno superare questa esperienza dolorosa della propria miseria e del proprio nulla! Oh. Certo, non possiamo vivere la ricchezza divina che come dono d’amore gratuito, che come dono d’amore infinitamente libero; ma non possiamo vivere che questo, se non siamo cristiani. Nell’eternità, dice Santa Caterina da Genova, non potremo ricordare più nemmeno per un istante i nostri peccati: Dio solo la nostra vita. Noi viviamo in Dio, Lui ha voluto per Sé i nostri peccati. Se noi li ricordiamo, se noi ci radichiamo nel senso di amarezza, di avvilimento che la nostra miseria e il nostro nulla ci consentirebbero, vuol dire che non abbiamo donato questi peccati e questa miseria a Dio. È l’unica cosa che Egli ci chiede, è l’unica cosa che Egli vuole, giacché non possiamo dargli altro: doniamogli tutto, che Egli prenda tutto quello che siamo, perché ci doni in cambio Se stesso, perché noi viviamo in Lui, al di fuori di noi, perché viviamo in Lui senza più in noi ritornare, come colui che entra nel Cielo e in Dio totalmente si perde; eternamente si perde; per non ricordarsi mai più di sé, per regnare per sempre, eternamente, con Dio che l’ha amato.
Questo ci chiede la festa di oggi.

U.S.F.P.V.

© Divo Barsotti