Omelia
Israele e la sua storia
Quello che in questo anno mi ha soprattutto colpito, nell’ascoltare la parola di Dio, è uno dei temi più consueti della meditazione patristica. I Padri, da Origene in poi, si soffermarono su questo argomento trattando del comando dato da Dio a Israele quando, doveva fuggire dall’Egitto. Israele doveva portare con sé tutto quello che poteva portare e i Padri dicevano: tutto appartiene a Dio e tutto a Dio viene ricondotto attraverso il ministero del popolo eletto.
Quanto più questo è vero a proposito di Cristo Signore! È vero che quando io andavo a scuola di teologia, mi si raccontava che il popolo d’Israele era il popolo che più si manteneva immune da ogni influenza dei popoli stranieri. Ma quando poi ho studiato, da sacerdote, mi è apparsa totalmente capovolta la posizione che mi era stata presentata nella mia scuola di teologia. Cioè, veramente il miracolo d’Israele è che Dio, che vive in mezzo a questo popolo, gli dona la capacità di assumere tutti i valori delle culture dei popoli vicini, senza per questo contaminarsi, senza per questo perdere la propria individualità. Confluisce nel popolo di Israele la sapienza dell’Egitto e la sapienza di Babilonia; esso assimila la religione di Canaan senza tuttavia cadere nel politeismo. Assume tutti i valori religiosi, culturali, linguistici e rimane l’unico, fintanto che non assume anche i valori culturali della Grecia: lo stoicismo, il platonismo, il modo di sentire, lo stesso modo religioso di vivere in rapporto alla creazione, tutto questo Israele assumerà.
Il Cristianesimo e la sua storia
E quello che fa Israele, tanto più si realizza in seno alla Chiesa. È questo che dimostra che il Cristianesimo è l’unico, cioè che non è una setta: il fatto che ha la forza di assumere tutto rimanendo quello che è. Infatti la grandezza di un essere si manifesta nella capacità che esso ha di trarre a sé tutto il resto e di trasformarlo in sé medesimo. Se invece io sono debole nei confronti di un altro, io stesso vengo assimilato, io stesso vengo distrutto nella mia individualità e divengo l’alimento dell’altro. La capacità del tutto divina del Cristianesimo si esprime precisamente in questo: che il Cristianesimo solo è cattolico, cioè ha la forza di trarre tutto a sé, di assumere tutto e di tutto trasformare nel suo sangue, di tutto trasformare in sé.
È quello che diceva alcuni anni fa De Lubac a proposito dell’ultimo combattimento che forse avverrà quaggiù sulla terra: combattimento culturale religioso tra Buddhismo e Cristianesimo. Tutte le altre religioni cadono, non esistono più, sono tutte moribonde: l’ultimo scontro sarà fra la grandezza veramente impressionante del Buddhismo e del Cristianesimo. E oggi gli studiosi di religione dicono che sono due religioni del tutto inassimilabili l’una dall’altra.
Se questo fosse vero cioè se il Cristianesimo venisse assorbito dal Buddhismo, allora il Cristianesimo non sarebbe più religione divina. Bisogna che il Buddhismo possa essere totalmente assimilato dal Cristianesimo, senza perdere nulla del suo valore positivo. Se il Cristianesimo può questo, allora il Cristianesimo dimostrerà di essere divino; altrimenti il Cristianesimo stesso è una setta, il Cristianesimo stesso è l’espressione culturale, sia pure religiosa, di una certa epoca e di un certo popolo: dell’Occidente piuttosto che dell’Oriente, di questa epoca piuttosto che dell’epoca antica, o piuttosto dell’epoca che verrà. Il Cristianesimo per dimostrarsi divino, deve avere questa capacità, di assumere e trascendere ogni epoca, ogni cultura, ma anche di assimilarla a sé, anche di farla sua. Dio solo può assumerci salvandoci in Sé. Questo deve fare il Cristianesimo.
La festa dell’Epifania
Ora è questo uno degli insegnamenti che ci dà la festa di oggi. Quanti insegnamenti abbiamo saputo trarre, in questi venticinque anni da che siamo insieme, dalla festa di oggi! Ma quello che ci donano i testi che abbiamo letto stamani è un insegnamento diverso da quelli degli anni passati, e tuttavia è esplicitamente presente nei testi che abbiamo ascoltato. Che cosa dice infatti il profeta Isaia? «Le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i re dei popoli, uno stuolo di cammelli t’invaderanno, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba portando oro ed incenso e proclamando le glorie di Dio» [Is 60, 5-6]. E poi si è letto il Salmo. 71 che ripete lo stesso insegnamento: «I re di Tarsis e delle isole offriranno doni, i re degli Arabi e di Saba porteranno tributi, a Lui si prostreranno tutti i re, lo serviranno tutte le nazioni» [Sal71, 10-11].
Ecco che cos’è il Cristianesimo: è l’Oceano in cui si versano tutte le acque; e il Cristianesimo tutte le aduna, tutte le unisce in un solo inno di lode, in un solo atto di adorazione all’Unico, a Dio!
Ora tutto questo noi dobbiamo viverlo, non si devono dire soltanto delle grandi parole. Che cosa siamo chiamati a compiere vivendo la festa dell’Epifania? Miei cari fratelli, siamo chiamati a vedere un rapporto continuo fra tutti i valori terrestri, fra tutti i valori culturali e il Cristianesimo stesso. Ma come farlo? In che modo io cristiano potrò volgere tutta la bellezza umana, tutta la grandezza del pensiero umano, tutto lo splendore anche della storia umana, la grandezza degli eroismi, come potrò farli convergere a Cristo? Se io leggo i poeti come puro divertimento, come puro modo per me di arricchire la mia cultura, io non sono più cristiano: il mio impegno, una volta che io entro in rapporto con questa bellezza, è di trarre questa bellezza a Dio. Come fare?
Era questa la meditazione che facevo stamani. E allora mi è parso che se si guarda il IV Vangelo, forse vi si trova già qualche cosa della bellezza greca. Pensate all’incontro di Gesù con Maria Maddalena nell’orto, dopo la Resurrezione: Giovanni ha una plasticità di visione che supera di molto i sinottici. C’è anche un richiamo non solo alla luce, ma a qualche cosa che è proprio dell’amore sensibile: Maria di Betania che ugualmente si prostra davanti al Signore. C’è qualche cosa che richiama la bellezza greca.
Cristo assume tutto in sé…
Ma allora, lungo la tradizione cristiana, posso io vedere veramente questo Cristianesimo che assume tutti valori della bellezza classica? Posso io ritrovare questo? Perché se non trovo questo, il classicismo diviene per me una tentazione non superata; infatti io non debbo rifiutare nulla di tutto quello che Dio ha creato, io non debbo eliminare qualche cosa della realtà che tutta deve convergere a Dio. Si tratta per me di vedere il modo con cui questa bellezza può essere riportata, assunta, tratta a Lui. Posso io vedere attraverso la tradizione cristiana questa lenta ma irresistibile assunzione di tutti valori creati in seno alla Chiesa, in seno al Cristianesimo stesso? Non si opponga mai il Cristianesimo, perché il Cristianesimo non si oppone a nulla. Tutti potranno opporsi al Cristianesimo, ma il Cristianesimo non può mai opporsi a nessuna cosa. L’unica opposizione è col male, ma il male non è un valore assoluto. Pertanto tutto quello che è, nella misura che è, tutto trova la sua realtà ultima, la sua verità ultima, la sua vita ultima in Cristo Signore.
Certo, la santità dei Russi è concepita e vissuta come bellezza spirituale. La liturgia orientale ha qualche cosa della bellezza greco-orientale; è più sobria la bellezza greca, di quella bellezza che può rifulgere nella liturgia orientale, tuttavia qualche cosa c’è. E non solo questo, ma si può vedere il convergere di tutti i valori della classicità nell’umanesimo cristiano, non soltanto di san Francesco di Sales, ma per esempio di san Tommaso Moro. Non per nulla gli Inglesi hanno ereditato molto dai Greci: il Platonismo inglese dal secolo XII al secolo XVIII. C’è qualche cosa di greco nell’anima anglicana; l’anglicanesimo assume certi valori che forse per noi cattolici italiani non sono così sentiti.
…attraverso i suoi discepoli…
Comunque, ecco quello che noi dobbiamo vivere a proposito del testo che abbiamo letto: dobbiamo renderci conto che il Cristo è Colui che tutto assume, è Colui che tutto deve assumere: non soltanto tutto assume in forza della sua divinità perché Egli solo deve tutto salvare, ma Egli deve assumere, cioè Egli deve assumere attraverso di noi la bellezza, la cultura, il pensiero umano, l’eroismo, la bellezza dei corpi. Tutto deve assumere il Cristianesimo e trasfigurare nel Cristo, perché indubbiamente tutti i valori, nella misura che divengono termine ultimo, sono idolatria: sia la cultura, sia la bellezza, sia il lavoro, tutto è idolatria. Ma tutti i valori possono essere salvati in quanto Egli li assume e in Lui sono trascesi. Guai se ti fermi a un valore: la bellezza è idolatria, la cultura è idolatria, la morale, anche la legge, diviene idolatria. Ma tutti i valori assunti dal Cristo sono in Cristo trascesi. Però, perché siano trascesi, debbono essere assunti. Oh, l’importanza per noi di vivere, di riprendere tutti questi valori e di trasformarli, trasfigurarli nel Cristo! Che cosa? Certo la poesia, certo la bellezza, certo la vita, certo l’erotismo, certa la grandezza della cultura, certo tutta la cultura. Perché tutti i popoli porteranno a Lui tutto quello che hanno. Tutto quello che hanno deve essere l’offerta che tutti i popoli fanno al Re, tutto quello che la creazione possiede, che l’umanità possiede, non ha altro senso, non ha altro valore che quello di essere offerto, e non può essere offerto che in Lui a Dio che lo riceve nell’umanità di suo Figlio.
Cioè, Dio accoglie tutti questi valori attraverso l’Incarnazione. Io vi chiedo: che cos’è l’Incarnazione? È il mistero mediante il quale una Persona divina assunse la natura umana. Attraverso però l’assunzione della natura umana, il Verbo di Dio che cosa assume? Durante la sua vita tutta l’esperienza dell’uomo, come dice sant’Ireneo: la giovinezza, l’infanzia, la maturità, la fatica del lavoro, l’esperienza dell’obbedienza, l’amore umano, sensibile, verso la Madre, verso i discepoli. Assume un linguaggio: parla ebraico; assume i modi di sentire, i modi di parlare, i modi di vivere che sono propri di quella cultura.
…nella Chiesa
Ma termina qui l’Incarnazione del Verbo? Se l’Incarnazione del Verbo si comunica attraverso la Chiesa, il Cristo, cioè la Persona divina del Verbo deve assumere tutta quanta l’umanità, non solo gli uomini singoli ma tutti quelli che sono i valori morali che nella umanità si sono espressi e si esprimeranno, attraverso tutte le civiltà; e questo è il compito della Chiesa. La Chiesa è la continuazione del mistero dell’Incarnazione divina, mediante il quale mistero Dio assume tutti gli uomini e tutti i valori umani, tutta la creazione che è legata all’uomo, perché tutta la creazione divenga in qualche modo il pleroma del Cristo, perché tutta l’umanità divenga finalmente il corpo del Cristo nel quale io vivo.
Ma allora qual è la nostra funzione? Semplicissimo: Egli nasce da Maria, prende da Maria carne e sangue; ebbene, se Egli vuol nascere da te, se Egli vuol vivere dite, tu devi dare a Lui tutto quello che sei, tutto quello che hai: non solo in astratto la tua vita, non solo in astratto la tua eternità, ma la tua intelligenza, la tua capacità di sentire, la tua capacità di donarti. Ciascuno di noi è quello che è, ma quello che è ciascuno di noi lo salva nella misura soltanto che lo dona a Cristo e che Egli lo prende e lo trae a Sé perché in Lui viva.
La tua intelligenza potrà fruttificare soltanto se tu l’avrai data a Lui, il tuo cuore potrà veramente salvare la tua capacità di amare soltanto se attraverso il tuo cuore Egli ama, cioè se tu dai questo cuore a Lui perché, attraverso di te Egli ami. Questo tuo corpo medesimo nella sua bellezza, se è giovane, nella sua decadenza se è vecchio, questo tuo corpo medesimo devi dare a Lui perché in questo tuo corpo Egli viva ancora e manifesti la sua bellezza.
Voi lo vedete: è il Cristo che ha rivelato il Padre ma l’ha rivelato precisamente nella sua umanità e non solo negli insegnamenti che Egli ci ha dato, ma anche nella debolezza della sua infanzia, nella bellezza del suo corpo e nel suo corpo straziato. Il corpo è la prima espressione, è la prima manifestazione dello spirito umano, e anche il Cristo prima di tutto manifesta il Padre precisamente attraverso il suo corpo. No, non rifiutiamo la bellezza dei corpi, perché anche questa, se Dio l’ha voluta, è veramente una rivelazione di Dio.
Mezz’ora fa sono entrato in un salottino ed è venuta la Madre Generale delle suore che ci ospitano. Sono rimasto stupito dalla bellezza spirituale del suo sguardo e del suo sorriso. Come veramente anche la bellezza umana donata a Cristo rifulge di nuovo splendore! Tutto deve essere donato a Lui e in Lui tutto si salva. E non si salva soltanto così, come ogni cosa è, ma si salva in quanto in Lui tutto è trasceso e in Lui trova il suo compimento ultimo, la sua bellezza ultima il suo valore supremo.
Miei cari fratelli, doniamoci a Lui! È la festa dei Magi: anche noi dobbiamo portare i nostri doni a Lui. Tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo. Ciò che noi tratteniamo per noi e non doniamo a Lui, tutto questo imputridisce e non ha vita. Si salva soltanto quello che Egli assume! Doniamoci e rinnoviamo stamani la nostra consacrazione al Signore, la nostra donazione a Lui!
Prima meditazione
"Attirerò tutto a me"
È in un prolungamento della teologia di sant’Ireneo che noi possiamo continuare la meditazione. Stamani alla Messa si diceva dunque: il mistero dell’Incarnazione consiste nell’assunzione da parte del Verbo di una natura umana. Noi possiamo dire qualche cosa di più, qualche cosa non di meglio, ma che implica una teologia veramente più cattolica a proposito di questo mistero. Non so se ricordate, nel mio libro Il mistero cristiano e la parola di Dio, un capitolo che parla proprio di tutta la storia d’Israele come un processo d’Incarnazione divina. Prima che Dio s’incarni come uomo, Egli assume già la creazione, non già come assunse poi la natura umana dal seno della Vergine, ma Egli assume già la creazione come segno della sua presenza, Egli assume già la parola dell’uomo come espressione della sua volontà. Tutta dunque la vita dell’universo, noi dobbiamo concepirla precisamente come la gestazione per un parto divino; del resto Nostro Signore medesimo nel Sermone dopo la cena ci fa conoscere come tutta la vita dell’umanità e della creazione sia in ordine a un parto. E anche l’Apocalisse ci dice la stessa cosa.
Ora questa immagine non suggerisce ma, direi, esplicitamente insegna l’unità di tutto il processo della vita del cosmo, di tutto il processo della storia degli uomini; e l’unità di questo processo è in ordine precisamente all’Incarnazione. È vero che Dio si fa uomo nel seno della Vergine, ma è vero anche che questa natura umana assunta da Cristo non è il termine ultimo delle operazioni divine, perché attraverso questa natura Egli dovrà salvare tutti gli uomini, attraverso questa natura Egli dovrà portare a sé tutta quanta la creazione: "Omnia traham ad me ipsum". Noi dobbiamo non solo celebrare la festa dell’Epifania ma vederla, ma viverla, come impegno a donarci al Verbo di Dio perché Egli assuma noi e attraverso di noi tutte le cose.
Christus totus
In sant’Ireneo tutta la vita del Cristo è presentata come una progressiva "recapitulatio", come una progressiva riassunzione di tutta l’esperienza umana, di tutta la vita degli uomini fino alla morte stessa. Tuttavia, e questo è evidente, nella vita di Gesù di Nazareth, Egli poteva riassumere la vita della umanità ma non la vita di ogni uomo, e anche se riassumeva tutta la esperienza umana, l’assumeva precisamente non in quella caratterizzazione che distingue precisamente le differenze delle culture, delle epoche, delle mortalità. Era la giovinezza che Egli assumeva quando ora giovane, ma era la giovinezza dei Greci o era la giovinezza d’Israele? Era la giovinezza dei popoli moderni, è la giovinezza degli universitari che contestano oggi, o quale giovinezza Egli assumeva? La giovinezza in atto primo, dicono i teologi, non la giovinezza così come concretamente si esprime attraverso tutte le età e attraverso ogni singolo uomo.
Ora nulla di tutto quello che è reale Dio rifiuta da sé, nulla di tutto quello che è reale è escluso da questa assunzione divina. E proprio perché nulla di quello che è reale è escluso da questa assunzione divina, proprio per questo il mistero dell’Incarnazione divina continua nel tempo, fino alla fine dei tempi, fino alla fine del mondo. Tutta la storia degli uomini, come dicevo all’inizio, non è che la gestazione di un parto, e la fine del mondo è questo parto. Allora il mondo verrà meno quando tutta quanta la creazione si esprimerà nel "Christus totus", in Colui che avrà riassunto tutte quante le cose in sé, e tutto in Sé avrà salvato, quando tutti gli uomini Egli avrà assunto come membra del suo corpo e in sé medesimo tutti gli uomini Egli avrà salvato.
Voi capite bene che ogni uomo è una individualità singolare, con caratteri ben precisi, ma sono i limiti che anche dicono le differenze specifiche di ciascuno di noi. Ebbene Egli non mi salverebbe se non mi salva nella mia concreta natura, Egli non mi salverebbe se non mi salva anche in questi limiti che mi appartengono, in quanto precisamente attraverso questi limiti io mi differenzio dalle altre creature. Parlo di limiti in senso metafisico, non certo in senso morale. Egli deve assumere tutto. Ecco il mistero di questa Incarnazione che si prolunga nel tempo e sino alla fine dei tempi. Ecco il mistero di questa Incarnazione di Dio che è il contenuto di tutta la storia, il contenuto di tutta la vita.
Lasciarsi possedere dall’Amore di Dio…
In questo processo qual è il compito dell’uomo? È una cosa assai semplice, in fondo: potreste voi che siete donne divenire madri se non vi abbandonaste a un uomo che vi ama? Può veramente questo mistero dell’Incarnazione, che è un parto divino, realizzarsi senza la collaborazione dell’uomo in quanto si abbandona alla potenza di Dio, in quanto si lascia possedere da questo amore che tutto pretende? Tutta la storia è veramente la gestazione di un parto, ma in questa gestazione di un parto si suppone sia l’amore divino che trae a Sé, l’amore divino che ti assume, sia la creatura umana che a questo amore si abbandona.
Continua dunque in tutta la storia l’atto di un Dio che s’incarna assumendo la natura umana e anche l’atto della Vergine che a questo amore si abbandona. Tutta la vita della creazione si riassume nella parola dalla Vergine Maria: e la parola, e piuttosto l’atteggiamento della Vergine Maria, l’atto della Vergine Maria è l’atto della Vergine sposa che si abbandona allo sposo divino, per essere posseduta da Lui e divenire feconda di Spirito Santo fino a divenire la Madre di Dio. È questo tutto il contenuto della nostra vita: la nostra collaborazione ai piani divini è precisamente in questo abbandono di noi stessi per lasciarci portare, per lasciarci prendere, per lasciarci possedere da Lui. Si diceva stamani che quello che noi conserviamo imputridisce. Tutto quello che abbiamo lo abbiamo per l’amore, tutto quello che siamo lo siamo per l’amore. Intanto noi salviamo quello che siamo in quanto ci doniamo; e non possiamo donarci in ultimo che a Dio, perché il dono ad un’altra creatura non ci salva, nessun amore umano ci salva. L’amore umano in tanto vale in quanto è significativo di quest’amore di Dio al quale soltanto abbandonandoci siamo salvati, perché se Egli ci possiede ci possiede per l’eternità. L’amore umano è bello, è una cosa grande, è una cosa magnifica, indubbiamente, ma la sua bellezza sta precisamente nell’essere significativo dell’amore divino, è precisamente nell’essere immagine, simbolo, segno, sacramento di quest’altro mistero in cui si conclude e si realizza il mistero di tutta la creazione e della vita divina, o piuttosto dell’alleanza di Dio con l’uomo.
...donando se stessi…
Ora vedete: i Magi offrono oro, incenso e mirra, ma fintanto che si offre l’oro, l’incenso, la mirra, non si opera nulla. Infatti che cosa avviene? Avviene che i Magi poi se ne vanno per la loro strada. Se ne tornano nei loro paesi, e sembra che anch’essi cadano nel buio, nella notte: più nulla sappiamo di loro. Tutto il resto è leggenda. Di loro sappiamo soltanto questo: arrivarono e poi se ne andarono. Più nulla! Perché hanno portato dell’oro, della mirra, dell’incenso. Tu non puoi donare se non quello che hai, o piuttosto se non quello che sei, perché nessuno di noi possiede realmente se non sé medesimo. In fondo la cosa che ci è più propria è la nostra volontà, è il nostro spirito, è anche il nostro corpo, siamo noi stessi; ed è nel dono di noi stessi che si compie il mistero di una unione che veramente è feconda. Nel dono che fa Maria Santissima alla parola dell’angelo Ella diviene Madre del Cristo e rimane inseparabile da Lui. Non più il Cristo può essere senza Maria né Maria senza Gesù, perché una madre non è senza il Figlio né il Figlio senza la Madre, e fintanto che il Cristo sarà, Ella sarà la sua Madre. I Magi possono uscire dall’orizzonte del Cristo, ma la Madre no. Nemmeno Gesù, se lo volesse, potrebbe rigettare sua Madre; rimane sua Madre per l’eternità.
Quando tu doni te stesso a Lui, allora divieni inseparabile da Lui, perché ora tu non potrai vivere più che in Lui stesso. Questo matrimonio divino che esige da noi, il dono totale di noi stessi a Dio, per il quale dono Egli totalmente ci prende, questa unione nuziale che Egli ti chiede implica che tu non puoi ritrovarti più se non in Lui. Se veramente ti sei donato ora tu sei soltanto in Lui che ti ha preso, in Lui che ti ha posseduto, in Lui che ti possiede. Ecco perché il dono vero che noi dobbiamo fare a Cristo è precisamente il dono di noi stessi. Se il mistero di questa Incarnazione divina continua attraverso tutta la storia del mondo e attraverso la vita di ogni uomo, la vita di tutto il mondo si consuma in questo dono di noi stessi e di tutta l’umanità a Cristo Signore, in tal modo che Cristo Signore viva dite e in tal modo che tu non possa vivere che in Lui, perché se tu vivessi ancora in te stesso non ti saresti donato. Se veramente ti sei donato non puoi vivere più che nel suo cuore, non puoi vivere più che nel suo corpo, non puoi vivere più che in Lui, così come una madre vive nel sangue del figlio, nella carne del figlio, perché la carne del figlio, il sangue del figlio è il sangue della madre.
…nella nostra individualità
Se dunque ti doni a Cristo ed Egli vive dite tu non potrai ritrovarti che in Lui, ma allora in Lui sarai salvato, e questo è vero di tutti gli uomini. Ma attraverso quello che noi doniamo di noi stessi che cosa viene salvato? Perché, badate, il dono che Egli ci chiede, si diceva prima, non è un dono così in astratto: Egli ci chiede il corpo, il sangue, quello che siamo individualmente, in quanto noi siamo caratterizzati, distinti gli uni dagli altri, cioè nel nostro valore singolare, irrepetibile, nel nostro nome singolare, unico. Noi ci doniamo a Lui in quello che siamo come persone l’una dall’altra diversa perché se Egli salvasse soltanto l’umanità e non salvasse Divo Barsotti, io non saprei di che farmene della salvezza che Egli può realizzare dell’umanità intera: Egli deve salvare me, ma per salvare me sono io, nella mia individuale sostanza, io nei doni concreti che posseggo, in quello che io sono, in quanto mi differenzio da voi, che debbo essere posseduto da Lui.
Di qui l’importanza non solo che il dono di noi stessi al Signore sia veramente qualche cosa di concreto e reale, cioè qualche cosa di singolare per ciascuno di noi, ma, anche l’importanza che ha l’affermazione che la santità è il valore più individualizzante. Infatti quando ti doni agli altri, gli altri ti pigliano non come sei ma come ti vogliono o ti pensano e così tu devi in qualche modo, nell’amare gli altri uomini, incapsularti secondo quella concezione che essi hanno dite e molti non sanno di che farsene di quello che sei realmente e ti fanno secondo il loro gusto. Ma Dio ti prende quello che sei, Dio ti vuole quello che sei. E tanto più sei quanto più a Lui ti doni, perché è nel donarti a Lui che tu realmente salvi la tua individualità: salvi te come sposa, salvi te in quanto sei l’unica, "l’unica colomba".
Di qui un’altra verità, anche questa molto importante: che solo in questa comunione, in questa donazione che noi facciamo a Lui noi, nella nostra individuale, personale distinzione, siamo salvati. Egli veramente ci prende così come siamo, Egli ci vuole così come che siamo e prendendoci per quelli che siamo, ci salva. Ci salva perché, assunti da Lui, siamo assunti da un Dio, cioè viene trasfigurata la nostra natura senza cambiare.
Ecco perché i santi son diversi: ci sono santi mattacchioni e santi severi, santi che fanno penitenza e santi che bevono e mangiano, come nostro Signore; ci sono santi belli e santi brutti, santi zoppi e santi che camminano: di tutte le specie, come li volete. Guai se dovessimo farci con lo stampino! Lui deve salvare me, non dove salvare qualche altra cosa, perché altrimenti non sono salvo se io debbo cambiare quello che sono perché Egli mi prenda. Bisogna che Egli mi prenda così. Naturalmente mi trasfigurerà, ma la trasfigurazione dell’essere mio non implica una trasmutazione dei miei connotati, implica piuttosto una realizzazione perfetta di quello che sono. Ecco perché ogni santo è estremamente diverso dall’altro.
Il mondo ci spersonalizza
Gli uomini oggi sono fatti in serie, le personalità diminuiscono giorno per giorno, tutti diveniamo come i polli di allevamento: allevamento nelle fabbriche, allevamento in questi casoni. Basta entrare in queste città come Palermo o Milano o tante altre: questi grandi fabbricati dove stanno centinaia di famiglie! Siamo animali d’allevamento, non c’è nulla da fare, perché il fatto di vivere in un ambiente simile pian piano ci fa uguali tutti. Tutti leggono il medesimo giornale, tutti vanno con il medesimo autobus, tutti fanno le stesse cose tutti i giorni, hanno gli stessi gusti, mangiano le stesse cose. Sapete come si fa in America? Si va alla tavola calda, così in piedi, e si prende tutti la medesima cosa. È spaventoso! Guardate che la decadenza della cucina è anche la decadenza dell’umanità. È una cosa importante anche questa, perché tutto quello che implica la salvezza dell’uomo implica la distinzione personale. Come sarebbe bello vedere camminare quello con i pattini, quello con i trampoli.. E invece non si vedono mica camminare così! Ci sono le macchine e basta.
Il mondo ci salva facendoci animali, perché la salvezza a cui ci portano i partiti implica di per sé il livellamento delle coscienze, il livellamento dell’intelligenza, il livellamento della vita economica: tutti si deve star bene. E se io voglio star male? Ma guarda un po’, non mi lasciano nemmeno la libertà di star male! Ci danno giorno per giorno da mangiare come ai polli. Se si va avanti di questo passo si finisce così. Praticamente tutta l’economia degli stati, tende a liberarci da ogni proprietà personale perché poi tutti diventiamo gli stipendiati del governo, il quale penserà tutti i giorni a farci mangiare una bistecca, a darci due o tre contorni, il dolce e la frutta. Oh, ma sentite un po’, a me mi piace ogni tanto fare anche il digiuno! Ma che storie son queste di ricattare gli uomini? L’uomo deve essere salvato per quello che è, non livellarlo per poterlo salvare. Ed è Cristo soltanto, ed è Dio soltanto che ci salva. Donarci a Lui non vuol dire perdere noi stessi, i nostri connotati: Egli ci conosce per nome, dice il Vangelo.
Anche i nostri difetti servono al Signore
Ora l’Epifania, vuol dire anche questo, perché il giorno dell’Epifania non possiamo portare l’oro che non abbiano, la mirra che non sappiamo nemmeno come sia fatta, e l’incenso: l’Epifania possiamo viverla soltanto se noi realizziamo il dono di noi stessi concretamente al Signore, il dono di quello che siamo: con il nostro temperamento, con le nostre ubbie, perché anche i santi le avevano, con i nostri difetti e imperfezioni di carattere, perché anche i santi le avevano. Non perché loro le avevano noi dobbiamo amarle, ma perché dobbiamo donare quello che siamo ed in Lui saremo trasfigurati, perché allora anche i nostri difetti serviranno al Signore. Il carattere imperioso di S. Carlo servirà a qualche cosa nella, storia della Chiesa: anche se servirà a far bruciare seimila streghe, serve anche a realizzare il Concilio di Trento. Così la debolezza, le imperfezioni di ogni temperamento servono a Dio, se tu a Dio ti doni. Ma soltanto se tu ti doni a Lui, perché se non ti doni a Lui anche nelle tue doti, quelle positive divengono negative per te, divengono per te, più che doti che ti costruiscono, un pericolo che minaccia la tua vita e quella degli altri. Quante più doti hai: la capacità di amare, per esempio, o la bellezza, son doti tremende per te e per gli altri se tu non le doni a Lui. Le doti positive che hai non si salvano che in quanto a Lui le offri.
Ecco che questo esige da noi l’Epifania. E ricordiamoci che con la morte tutto è perduto, ma che ritroveremo quello che avremo donato a Lui perché Egli vive al di là della morte, perché Egli è risorto da morte e la morte non ha più potere su Lui. Perciò dona al Cristo quello che sei, donalo al Cristo! Ecco l’importanza della nostra consacrazione, l’importanza dei nostri voti se li viviamo davvero. Noi non ci potremo salvare che in questo donarci a Dio. Egli nascerà da noi, vivrà di noi, del nostro sangue, delle nostra carne, di quello che siamo: la nostra intelligenza, la nostra incapacità, la nostra debolezza, tutto, Egli vuole tutto. Egli prende perfino i nostri peccati: non solo le nostre imperfezioni di carattere ma i nostri stessi peccati. Probabilmente per molti di noi, se dobbiamo fare un bel bilancio di quello che possediamo, non abbiamo altro di meglio da offrirgli. Ebbene, diamogli anche i nostri peccati! Anche questi Egli vuole, di tutti questi Egli vive, perché Egli è l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Non abbiamo nulla che dobbiamo trattenere per noi, non abbiamo nulla che Egli non voglia per Sé.
Imparare dalla Vergine
Questa è dunque l’Epifania: il dono di tutto quello che siamo, di tutto quello che abbiamo a Dio, perché in Dio noi possiamo ritrovarlo. E se il dono che noi facciamo a Lui è il dono di noi stessi ed Egli ci possiede, ed Egli riceve il nostro dono, allora noi siamo sicuri che in Lui questo dono rimane, perché Egli, l’Eterno, rende eterno anche il dono che gli faremo di noi stessi; e noi saremo salvi. Ecco quello che mi sembra che ci dica l’Epifania. Non dobbiamo imparare nulla dai Magi, dobbiamo imparare piuttosto qualche cosa dalla Vergine Maria. I Magi hanno portato soltanto l’oro, l’incenso, la mirra, e poi sono andati via. Che cosa hanno acquistato in questo modo? Il Cristo non sapeva di che farsene dell’oro e forse nemmeno la sua Madre; la mirra e l’incenso poi a che cosa potevano servire? I Magi portano e se ne vanno, ma non serve né all’uno né all’altro il dono che essi fanno. Ma la Vergine ha dato sé stessa, e donando sé stessa è nato Gesù. Ha donato se stessa, il suo sangue, il suo latte: e del suo sangue e del suo latte ecco, il Cristo cresce. Da bimbo diviene fanciullo. Egli vive di lei, del suo lavoro, del suo servizio, del suo amore. Ed Egli cresce! Così anche noi: il dono di noi stessi farà sì che il Cristo viva in noi e il Cristo assumendoci si rivela sempre di più al mondo.
Seconda meditazione
La "consacratio mundi"…
Abbiamo detto stamani che il mistero dell’Incarnazione divina continua. Continua però, attraverso questo dono, questo abbandono nostro alla sua forza di amore che ci attrae. Abbiamo detto stamane che non il dono dell’oro, dell’incenso e della mirra noi dobbiamo portare a Cristo, ma noi stessi; ed è nella misura che Egli ci prenderà, nella misura che Egli ci possederà che in Lui noi saremo salvati. Noi dobbiamo stasera ritornare anche a quanto si è detto nell’omelia, Dobbiamo capire come la celebrazione dell’Epifania implichi per noi non solo un portare a Dio quello che noi siamo, ma anche, attraverso il nostro lavoro, l’universo.
L’uomo non per nulla è stato creato Re della creazione. Voi sapete quello che io altre volte vi ho detto: la funzione regale che è propria dell’uomo, tanto più del cristiano, è in ordine al sacrificio, l’ultimo atto in cui consuma tutta la vita del Cristo e perciò anche la vita di ogni cristiano non è il dominio del mondo. Dunque la "consacratio mundi", non è tanto il prendere possesso di tutta quanta la creazione che deve essere veramente il tuo regno, quanto il riportare a Dio tutto quello di cui sei entrato in possesso.
Per dirla in altre parole: quale grande funzione ha tutta la umanità e soprattutto tutto il Cristianesimo, tutto il popolo di Dio! Al popolo di Dio non deve essere esclusa nessuna attività umana che metta l’uomo in rapporto con tutti i valori creati, perché è precisamente attraverso l’esercizio di questo lavoro che noi veramente realizziamo la nostra vocazione regale in vista poi di una "consacratio", di un riportare tutti questi valori a Cristo e in questa luce noi possiamo allora rivedere quello che è nel Vangelo di stamani.
…segno della nostra regalità sulle cose
Stamani si diceva: non dobbiamo essere come i Magi. E che se ne fa il Signore dell’oro, dell’incenso e della mirra? È donando noi stessi che ritroveremo noi stessi in Cristo. Però, dobbiamo anche dire che Nostro Signore non ha rifiutato nemmeno l’oro, l’incenso e la mirra: noi dobbiamo portare anche questo, cioè i prodotti, o piuttosto il segno della nostra regalità sulle cose. Il Vangelo non dice che i Magi fossero dei re, ma la tradizione comunemente parla di loro come re, e la tradizione ha interpretato bene il significato precisamente dell’episodio; infatti l’episodio che viene narrato è in ordine alla vocazione dei popoli gentili, ma la vocazione dei popoli gentili al Cristianesimo in tanto si realizza in quanto sono i re dei popoli che come tali vanno da Cristo. E non soltanto sono i re dei popoli, cioè i capi delle nazioni, che vanno a Cristo a tributargli il vassallaggio della loro fedeltà, ma questi re, oltre che essere rappresentanti di un popolo, sono anche coloro che portano a Cristo i beni di questi popoli. Il re infatti non è soltanto colui che domina il popolo, è anche colui che domina su un territorio; cioè la regalità, anche oggi ma specialmente nel mondo antico, non si esprime soltanto in quanto si dirige degli uomini nella guerra o nella vita civile, ma in quanto anche si domina su di un territorio e tutto quanto questo territorio diviene proprietà del re. Allora i Re Magi sono i rappresentanti dei popoli che riconoscono il Cristo come loro Re: "Rex regum et Dominus dominantium", ma sono anche coloro che portano a questo Re i beni di tutta la creazione.
Portare tutto a Cristo…
Ora, vivere il significato di questo testo evangelico che cosa implica per il cristiano? Che cosa implica per la Comunità? Implica che noi prima di tutto andiamo a Lui in quanto rappresentiamo i popoli e le nazioni, in quanto portiamo a Lui i beni di queste nazioni. Ma noi tutti siamo soltanto italiani. Eppure invece no, ciascuno di noi può rappresentare classi diverse: chi è vergine, chi è sposato, chi lavora nell’insegnamento, chi lavora nell’ospedale... Son tutte le attività umane che attraverso di noi devono essere ricondotte a Cristo, riconoscere in Cristo veramente colui che deve guidare ogni nostro lavoro, colui al quale ogni nostro lavoro deve essere diretto e ordinato. Nei giorni passati rimasi molto sconcertato perché un tale mi diceva che altra cosa è la fede e altra cosa la politica, e che lui per esempio amava don Barsotti perché don Barsotti non faceva politica. Io a dire la verità mi sentii gravemente offeso, perché come cristiani, noi riconduciamo a Cristo ogni attività umana: e che cristiani siamo se non ordiniamo a Cristo quella che san Tommaso chiama l’attività suprema dell’uomo sul piano sociale e sul piano storico? Sul piano sociale, sul piano storico, l’attività suprema dell’uomo è l’attività politica, che è l’attività architettonica per eccellenza, dice san Tommaso d’Aquino. Certo non si fa della politica se si fa della religione! Tutte quante le attività umane sono ordinate e tutte trovano il loro compimento in Dio, da cui tutto promana. Può essere vero che ci sia una appropriazione delle attività da parte del clero che dobbiamo evitare, ma non che una cristianizzazione dell’attività comprometta la loro autonomia, perché non vi è attività umana che in prima sorgente non derivi da Dio. E se tutto deriva da Dio, tutta la vita a Lui deve essere condotta. Ecco perché la nostra funzione, proprio in quanto dobbiamo vivere la festa dell’Epifania, è precisamente di vivere la nostra vita nella scuola, nell’insegnamento, nella medicina, riconducendo tutto a Cristo. Tutte divengono veramente funzioni regali, ma anche funzioni sacerdotali. Il cristiano è sempre sacerdote e re in quanto precisamente la sua attività si ordina a Dio, da Lui dipende e a Lui si ordina; dipende da Lui che è l’amore e a Lui si ordina nell’amore; tutto è per Cristo: "Omnia per ipsum facta sunt".
…per dare a tutto il suo giusto valore
Questo mi sembra che sia molto importante: non per il Cristo sapete! Cristo non ha bisogno dell’oro, della mirra, dell’incenso che noi possiamo portargli. Ma anche qui è il Cristo che dona alla nostra attività il suo valore perché, se non si riporta a Cristo, ogni attività umana diviene di per sé tale da compromettere la vita, tale da compromettere l’unità dell’uomo, tale da compromettere il risultato ultimo e finale della storia del mondo. Sentire dunque che noi tutti, in quanto viviamo l’Epifania, nella nostra attività anche umana, anche civile, anche profana, esercitiamo il nostro sacerdozio cristiano. Prima di tutto la nostra regalità cristiana, che ci impone di prendere possesso dei valori del mondo; ma ci chiama a prendere possesso dei valori del mondo unicamente per poi vivere il nostro ordinarci a Cristo nel nostro sacerdozio, perché la funzione regale è in ordine alla funzione sacerdotale. L’ultima attività del cristiano rimane sempre l’attività sacerdotale, come nel Cristo; infatti, anche il Cristo, come il nuovo Adamo, entra in possesso della creazione soltanto, come dice san Paolo nella lettera ai Corinzi, per poi offrirla al Padre: "Tutto è vostro, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio". E dice san Paolo sempre nella stessa epistola, che Egli riporterà il regno, tutto l’universo, al Padre Celeste. E questo dono del Cristo è vero per ogni cristiano, perché il cristiano in tanto è cristiano in quanto partecipe dello stesso mistero.
Guardate, non mi fate dire delle cose che io non dico: io faccio della politica, e non sarei cristiano se non la facessi; ma è una politica che, come dal Cristo deriva, così al Cristo deve riportare. Questo non vuol dire che sia democrazia cristiana o altro: è ben altra la politica del cristiano, perché ha un’origine più profonda e un fine più alto, di quello che può avere qualsiasi partito. Comunque rimane vero che nel caso concreto noi dobbiamo fare poi anche delle scelte concrete; anche se rispondono precisamente a questa ispirazione prima di dipendere da Lui e di tendere a Lui, poi di fatto debbono essere delle attività che si configurano precisamente in una situazione storica, che hanno una loro fisionomia precisa nella condizione in cui ci troviamo.
La religione assume tutte le attività umane
Rendiamoci conto dunque di questo. Io non ho mai detto che non faccio politica, e non ho mai detto che la religione non è politica. La religione assume tutte le attività umane, e a tutte dona l’ultimo fine. Vi ricordate quello che vi dicevo stamane? Il Cristianesimo sarebbe soltanto una setta, era la parola del De Lubac, se non avesse la capacità di assumere ogni cosa e di trasfigurarla in Cristo Gesù; pertanto il Cristianesimo dimostrerà la sua verità ultima, se avrà la sua capacità di assumere anche tutti i valori del Buddismo, diceva De Lubac nel suo discorso. Questo è vero non solo per quanto riguarda le religioni, ma per quanto riguarda tutte le attività umane. Non vi è un’attività puramente profana; può essere anche un!attività che non sia clericale ma tutto, tutto dipende da Dio, e tutto a Dio si ordina. Ma da Dio non dipende, a Dio non si ordina che in Cristo Gesù. E questo voi dovete sentirlo. È vero, in fondo la vostra attività può essere anche povera umanamente, sul piano sociale, sul piano politico, può essere anche insignificante. Ma noi sappiamo che la fecondità e l’efficacia del nostro agire anche nella storia, anche nel mondo anche nei rapporti umani, dipende meno dalla missione che riceviamo che dalla nostra unione con Colui che è la vita di tutto.
Quanti hanno operato ben poco e tuttavia quello che hanno operato rimane! Hanno determinato delle svolte decisive nella vita del mondo, e non sono più grandi certo, se noi consideriamo quello che hanno fatto, le doti che avevano, di altre persone che agendo di più e con maggior intelligenza, o con maggiori mezzi, hanno però operato con meno efficacia, proprio perché non hanno diretto la loro vita a questo termine ultimo che è Cristo, a questo fine ultimo che è Lui.
Sono i re che portano i doni, e noi dobbiamo come re portare i nostri doni. Re di che cosa? Re della cucina, se non altro; l’ho detto anche stamani, che la cucina è una delle cose estremamente importanti. C’è anche una regalità dunque che la donna deve vivere in cucina. Questo deve capirlo anche chi è chiamato soltanto a far da mangiare. Anche nel far da mangiare si vive questa funzione regale che è prendere possesso della creazione per fare della creazione, di tutti quei beni che Dio ci ha dato, l’alimento dell’uomo! È in ordine all’ultimo alimento che è il Corpo di Cristo, e ogni pranzo, e ogni cena, non si può vedere separatamente da quello che è poi la Santa Messa. Come vi è una continuità fra tutte le attività umane e una unità in Cristo, così vi è anche una continuità fra tutte le attività umane e il mistero del Cristo. Quando voi siete in cucina dovete sentire che vivete in qualche modo una certa continuità col mistero mediante il quale il Cristo presente fra noi ci dona Se stesso come alimento; come pane e vino, pane che ci corrobora, vino che ci inebria.
Alla fine rimane solo l’amore
Può sembrare che le attività più infime, le più profane, ti escludano; e invece in queste attività si deve esprimere questa nostra regalità. Ma dobbiamo viverla poi anche in uno spirito di sacrificio, e infatti non si compie questa attività che proprio ordinandola all’amore. È veramente un sacrificio continuo quello che fa la madre di famiglia: due volte al giorno fa da mangiare, ci perde un mucchio di tempo, e poi in dieci minuti tutto è finito! Ma è meraviglioso questo! Tutto il nostro lavoro in ordine all’amore e l’amore consuma; e per l’amore, volta per volta, finisce. Non rimane di tutta la nostra attività che l’amore che la nostra attività ha alimentato, che l’amore che dalla nostra attività promana, l’amore come primo frutto del sacrificio, perché anzi il sacrificio stesso è amore, è dono.
Ma, si noti, il lavoro che noi compiamo implica il nostro rapporto non solo con gli altri ma con le cose. Anche questo ci dice il Vangelo di oggi. I Magi come re di certe nazioni, presentano a Dio i prodotti migliori del loro territorio. Anche questo è importante: non è importante soltanto che le nostre attività si ordinino immediatamente agli uomini e attraverso gli uomini a Cristo ma che anche attraverso la nostra attività noi prendiamo possesso delle cose umane. Si diceva prima: l’attività del mangiare, è un possesso che voi prendete delle cose umane, di quello che il suolo produce, di quello che vi dona il mercato: ne entrate in possesso per offrirle a chi amate. Così nello studio, così in qualunque lavoro.
È meraviglioso questo: mentre Dio nel suo lavoro è sempre indipendente anche dal suo prodotto, perché Egli creando non entra in rapporto con le cose che crea e non ha bisogno di nessuno strumento, per l’uomo invece è diverso; e questa diversità non dico che dice una maggiore dignità dell’uomo nei confronti di Dio, sarebbe bestiale dir questo, però manifesta una sapienza divina che noi dobbiamo adorare. Dio non vuole che noi lavoriamo senza aver bisogno degli strumenti, in tal modo che nel nostro lavoro le cose, strumento del tuo lavoro, vengano nobilitate da te, vengano umanizzate da te, portate nella storia umana. E d’altra parte Dio non vuole che operando attraverso degli strumenti, operando nelle cose, gli strumenti e le cose rimangano a te indifferenti una volta che divengono strumento del tuo lavoro. E una volta che il tue lavoro si esercita nelle cose, le cose si umanizzano, divengono possesso dell’uomo che le trasforma, ne fa in qualche modo la sua proprietà, le impronta del suo sigillo.
Il senso del lavoro
Anche questa è una cosa meravigliosa. La sapienza divina, attraverso il lavoro umano, fa sì che l’uomo veramente eserciti la sua funzione regale, perché senza il lavoro l’uomo non entrerebbe in possesso delle cose. Già prima del peccato originale Dio vuole che l’uomo eserciti la regalità alla quale Egli l’ha chiamato fin dalla creazione donando all’uomo il compito di lavorare. È dal lavoro che nasce la nostra regalità, è mediante dunque il nostro lavoro che noi entriamo in possesso dell’universo per offrirlo a Dio. Di qui deriva che noi dobbiamo riconoscere nel nostro lavoro una grandezza, una dignità, una sacralità: una grandissima sacralità. Chi non lavora non è cristiano. Bisogna lavorare; magari spazzar la casa: credete che sia un lavoro da nulla? Attraverso ogni nostro lavoro, dicevo, sia gli strumenti sia le cose entrano in possesso dell’uomo, si fanno umane in qualche modo, perché poi, divenute tua proprietà, tu possa offrirle a Dio, tu le riconsacri a Dio. È questo il dono dell’oro, dell’incenso, e della mirra che dobbiamo operare. È attraverso questo dono continuo, questo dono che implica per noi prima un possesso di tutto, attraverso questo dono che avviene la "consacratio mundi", e noi viviamo poi una partecipazione a quello che è l’atto ultimo del Cristo che offre Se stesso e con Se stesso tutto l’universo, al suo Padre Celeste.
Terza meditazione
L’Assistente di Famiglia
Prima cosa che si accennava stamani: l’elezione dell’Assistente di Famiglia. È una cosa molto importante perché, come si è detto tante volte, l’Assistente di Famiglia ha una funzione più importante, sotto certi aspetti, di quella del padre e di quella dell’Assistente Generale, perché è il superiore che vi è vicino, il superiore col quale dovete parlare. È naturale che l’Assistente di Famiglia debba avere diverse doti: doti umane di equilibrio, di saggezza, di prudenza e soprattutto, una maturità spirituale. Le doti organizzative, la capacità di governo, sono meno necessarie di quanto sia necessaria invece una certa maturità spirituale per guidare, per formare, per assistere, perché tutte le figlie, o i figli possano ricevere veramente da lei. Abbiate dunque cura di compiere questo atto che vi è chiesto non solo con spirito soprannaturale, ma dopo avere anche pregato. E chiedete poi, per i superiori, tutti i giorni al Signore che Egli li assista, li illumini, li guidi: dia loro pazienza, umiltà, spirito di sacrificio e di dedizione. È difficile essere superiori, perché il superiore in una famiglia religiosa è il rappresentante del Padre e dovrebbe avere lo stesso amore di Dio, dovrebbe partecipare della stessa pazienza che ha Dio con gli uomini, dovrebbe avere la sua stessa sapienza nel guidarli, soprattutto dovrebbe avere il medesimo amore, un amore che si dona tutto a ciascuno e sa precisamente adattarsi a ciascuno; infatti il dono che possiamo far di noi stessi agli altri, dagli altri non è ricevuto se non sappiamo adattarci alla mentalità di ciascuno, se non sappiamo rispondere subito al bisogno concreto e immediato di ogni anima.
Pregare per i superiori
Abbiamo bisogno che voi preghiate per noi: non basta che voi amiate i vostri superiori. Io so che li amate, anche quando credete di non amarli, anzi so che quando voi reagite magari in malo modo, tutto questo indica soltanto che voi li amate e per questo li vorreste diversi. Non c’è l’indifferenza nei confronti dei vostri superiori: questo è un fatto molto importante e molto positivo.
Ma il vostro amore deve manifestarsi in modo particolare soprattutto nella preghiera per loro; anche qui non nella sola preghiera formale. Ogni giorno, sì, li ricordo alla Messa, ma poi bisogna che voi soffriate un pochino per quello che sono i loro difetti: le loro impazienze, le loro impulsività; bisogna che voi soffriate di quelli che sono i loro limiti; perché allora, soffrendo di questi, voi in qualche modo attraverso la vostra sofferenza otterrete non solo che Dio perdoni ai superiori le loro mancanze ma otterrete una cosa più grande ancora: che i loro difetti non nuocciano alla Comunità; e questa è una cosa più importante. Che le loro mancanze non debbano chiudere un’anima, allontanare nessuno. Se otterrete questo, soffrendo e amando, non sarà poco il frutto della vostra preghiera.
Molto spesso, quando noi preghiamo, vorremmo che Dio rispondesse al nostro modo, ma la risposta di Dio è sempre più grande di quello che noi potremmo pretendere. È proprio questa la risposta che Egli può dare alla vostra preghiera: non che i superiori divengano santi, perché sarebbe troppo comodo! Se io non fossi impulsivo e impaziente come sono, sarebbe troppo facile vivere con me. Ma invece la nostra preghiera può ottenere che, mantenendosi queste tensioni, cresca in voi la pazienza e cresca in me la sofferenza di essere ancora così poco padre, così poco buono ancora, e così la sofferenza degli uni e degli altri ci maturi tutti e ci faccia andare tutti in Paradiso. Se le cose vanno troppo bene non vanno mica bene: Nostro Signore ci ha insegnato che le cose vanno bene quando siamo messi in croce.
La pazienza…
Ma è mal di poco se vi metto in croce io e se voi mettete in croce me: la cosa importante è essere pazienti nell’essere messi in croce. Non vi sembra? Saper vivere l’amore proprio nella pazienza in una pazienza che deve costarci. Non pretendiamo miracoli. I difetti appariranno sempre, ma forse i difetti debbono, rimanere proprio perché ci maturiamo giorno per giorno, sia pur faticosamente. L’unica cosa importante è che rimaniamo fedeli nella pazienza e nell’umiltà, accettandoci come Dio ci accetta, e non facciamo dei passi che possono compromettere davvero questa fedeltà, perché qualche volta è facile farli e sono irreparabili.
La cosa importante è rimanere fedeli, uniti, uniti pur nella sofferenza qualche volta. Bisogna vivere così, bisogna imparare che l’amore è essenzialmente pazienza e fedeltà, perché così ci ha insegnato il Signore. Se l’amore fosse una cosa facile, Gesù per amore non sarebbe morto; ma l’amore, nel Cristo, ha voluto dire morire crocifisso. Fintanto che non si muore crocifissi son tutte storielle, tante frasi belle quanto volete ma che non dicono nulla, lasciano il tempo che trovano perché ti lasciano nel tuo egoismo, nel tuo sentimentalismo, nella tua presunzione di essere già a posto mentre di fatto sei vuoto di ogni bene, perché non possiedi né la pazienza né la fedeltà. Il vero amore vince ogni prova, trascende ogni prova, sa veramente vincere tutto. Non vi è male nel mondo che l’amore non debba vincere, non vi è male, dunque nemmeno in noi che la nostra pazienza non debba vincere, altrimenti il nostro amore non è prova di quel compito che Dio ci ha dato.
…amore messo alla prova
Se Dio mi ha dato dei figli e delle figliole che sono molto difficili, vuol dire che Dio ha avuto molta fiducia in me, perché vuole che il mio amore sia provato da questa difficoltà e che, in me, l’amore la superari. Ma questo è altrettanto vero per il vostro amore nei riguardi dei vostri superiori, perché anche voi dovete amare. Dio non chiede meno a voi di quello che chiede a me: cercate dunque di sopportarmi e di essere fedeli nonostante questo. Bisogna che anche l’amore vostro sia prova delle difficoltà che Dio chiede a voi di superare, e le difficoltà sono rappresentate precisamente da coloro che dovete amare. Perché amare Dio è facile, specialmente in Paradiso, intendiamoci! Quaggiù non è facile amare nemmeno Lui ma in Paradiso è facile! È talmente bello, è talmente buono, come è possibile che il nostro cuore non sia attratto da Lui? Ma siccome Dio si fa presente in ciascuno di noi, diventa più difficile amarlo. E allora, essendo difficile amarlo, il nostro amore per Lui deve provarsi precisamente nel superare, nel trascendere la difficoltà della nostra unione con Lui nel rapporto con coloro che ce lo rappresentano; e ce lo rappresenta il superiore, ce lo rappresentano i fratelli, quelli che il Signore ci ha dato.
Si noti: una cosa molto bella nella Comunità è proprio questa. Anche nella famiglia avviene lo stesso, perché la mamma ha i figlioli ma non sa come li fa; poi crescono e ognuno ha il proprio carattere. Ma tanto peggio in una comunità religiosa, perché mi vengono dei figlioli che hanno già 40, 50, 70 anni: come faccio a formarli? Bisogna pure che li accetti così come sono, come il Signore me li ha voluti mandare. Nelle comunità religiose la differenza dei figli è assoluta, perché non siamo noi che gli scegliamo e non possiamo rifiutare quelli che il Signore ci dona: dobbiamo amare quelli ai quali Egli ci lega, dobbiamo vivere per loro comunque essi siano.
Io vi chiedo di pregare per me proprio perché io sappia avere questa pazienza e questa fedeltà. Fedeltà anche a coloro che sono andati via, nessuno è andato via; io non posso accettare che nessuno si sia separato dalla Comunità, anche se non lo vedo più: non posso certo né sollecitarlo né importunarlo se egli non vuol saperne, tuttavia egli deve trovare sempre un posto nel mio cuore, nel mio ricordo, nella mia preghiera, nella mia sofferenza. Una volta che siamo padri, lo siamo per l’eternità, non c’è nulla da fare! Rimango legato a ciascuno di voi e voi rimanete legati a me per sempre. È proprio questa fedeltà che ci assicura il Paradiso, perché è fedeltà al segno della presenza in noi dell’amore di Dio che è eternamente fedele.
Pregate dunque per me: ve lo chiedo come so e come posso. E se vi sembra che le mie parole siano formali, pregate perché non lo siano, perché ne va di mezzo la mia e la vostra salvezza, ne va di mezzo l’opera del Signore. La sincerità o meno del nostro impegno religioso nemmeno noi sappiamo fino in fondo quanto sia vera, quanto sia profonda; per questo io mi rimetto a Dio che solo può giudicarmi, Lui stesso cambi secondo quello che io dico i miei stessi sentimenti, le mie stesse disposizioni interiori, perché io sia davvero il sacramento in mezzo a voi di una paternità divina.
"Chiedo perdono a tutti"
In questa prima festa dell’anno non mi rimane che fare una cosa, prima di ritornare a san Sergio. È una cosa doverosa, ed è quella di chiedervi perdono, veramente di tutto, perché so di aver mancato: son troppo impulsivo, son troppo impaziente. So di aver mancato verso di tutti e chiedo a tutti perdono. Io devo essere in mezzo a voi come il sacramento della paternità di Dio. Sarebbe stupido e sarebbe sacrilego se io pensassi che anche di lontano ho assomigliato a questo esemplare divino, che non sono stato per voi di ostacolo nella vostra vita spirituale, che non sono stato per voi d’impedimento di tendere a Dio. Per questo vi chiedo perdono e pregate il Signore che ve lo chieda sul serio, perché da questo perdono può nascere veramente un nuovo cammino per me. Prima di tutto perché è nel perdono che ritorna veramente una nuova innocenza, e perciò possiamo ricominciare; ma sarebbe troppo facile chiederlo sul serio se da parte mia non ci fosse un minimo di volontà di essere più buono. Pertanto chiedetelo al Signore davvero, che con questo perdono che mi date io possa ricominciare davvero un cammino di amore più vero, più universale, più paziente: più capace di accettare, più capace di rispondere a tutti i vostri bisogni e aspirazioni.
U.S.F.P.V.