DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Fede e pensiero. Hans Urs von Balthasar e Martin Buber

di Nunzio Bombaci

Una trentina di anni orsono la Jaca Book ha intrapreso l’edizione italiana delle opere di Hans Urs von Balthasar, universalmente riconosciuto quale uno dei più grandi teologi cattolici del Novecento. L’ultimo volume pubblicato nell’ambito di questa ingente opera editoriale è una monografia che riguarda Martin Buber e risale agli anni Cinquanta. In tale periodo è ancora vivace, soprattutto nei paesi anglosassoni, il dibattito suscitato in campo teologico e filosofico da un’opera pubblicata dal filosofo ebreo nel 1950, Zwei Glaubensweisen, libro che peraltro è stato pubblicato in italiano soltanto nel 1995 (Due tipi di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995).

L’opera costituisce per un altro grande studioso ebreo, Gershom Scholem, il libro “più debole” di Buber e, invero, le tesi che vi sono proposte si prestano a non pochi rilievi sul piano teologico, storico e filologico. In campo ebraico, una critica ben più equilibrata, e fondata su valide argomentazioni, è stata proposta al riguardo da David Flusser. Inoltre, quale che sia il valore euristico della tesi fondamentale del libro, non va comunque sottaciuto che pubblicare uno studio sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo a pochi anni da Auschwitz testimonia nell’autore grande coraggio e onestà intellettuale. In una temperie siffatta, ogni tentativo di dialogo tra le due fedi sconta l’alea di rimanere invero un “dialogo solitario”. Nell’opera, ebraismo e cristianesimo sono considerati nel loro irriducibile essere-uno-di-fronte-all’altro, quali “tipi” o “modi” (Weisen) di fede originariamente, e in modo irremissibile, differenti. Per l’autore, la fede dell’ebreo è emunah, ovvero un fondamentale atteggiamento che è “permanere nella fiducia in Qualcuno”, abbandono esistenziale, devotio all’Uno, dedizione a Colui che si rivela sul Sinai quale Dio che è stato, è e sarà presso il suo popolo per guidarlo alla terra promessa. Per converso, in tale prospettiva il cristianesimo è pístis, fede alla quale si accede mediante un atto di ordine noetico, ovvero il credere che, il riconoscere per vero un evento che al di fuori di questa fede è assolutamente inconcepibile: Gesù è Risorto, è il Cristo.

Buber riconosce il carattere di compiuta relazione dialogica – costituita e manifestata dalla "santa parola fondamentale" io-tu - solo alla fede ebraica. Essa, pur nel salvaguardare la distanza tra la creatura e il creatore, presenta l’immediatezza e la reciprocità che, alla luce dei preambula del pensiero buberiano, attengono alla stessa relazione dialogica. All’autore appare, invece, alquanto problematica la lettura in chiave dialogica della fede cristiana, poiché il “luogo” di essa è, a suo giudizio, l’interiorità del credente più che lo Zwischen, ovvero quella realtà effettiva tra i partner della relazione ove avviene ciò che è veramente significativo per l’uno e per l’altro. Per l’autore, comunque, ebrei e cristiani debbono restare ben saldi nella rispettiva fede, “confermarsi” in essa. Quelli condividono con questi “un Libro e un’attesa”, sebbene per i cristiani quel Libro sia “il vestibolo” e per gli ebrei “il santuario”, come si legge nel breve saggio Die Brennpunkte der jüdischen Seele [I fuochi dell’anima ebraica]. Il volume di Hans Urs von Balthasar, pur se intitolato Dialogo solitario. Martin Buber e il cristianesimo, non si sofferma esclusivamente sulla riflessione condotta dall’autore in ordine al rapporto e alla differenza tra fede ebraica e fede cristiana, ma prende in considerazione lo stesso ebraismo di Buber, attestando un’amplissima e profonda conoscenza del suo pensiero, dagli scritti anteriori alla formulazione del principio dialogico (soprattutto dei Discorsi sull’ebraismo) sino alle opere della tarda maturità. Va detto che all’opera di Buber – e in particolare ai saggi che si situano tra Ich und Du e Due tipi di fede - hanno prestato grande attenzione molti teologi evangelici, tra i quali vanno ricordati Karl Barth, Emil Brunner e Friedrich Gogarten, mentre quelli cattolici, per diversi lustri, non hanno manifestato altrettanto interesse nei suoi confronti.

Tra i teologi cattolici che hanno studiato l’opera di Buber e hanno scritto pagine pregevoli al riguardo, si segnala senz’altro, oltre a Hans Urs von Balthasar, Eugen Biser. Questi, in Buber für Christen. Eine Herausforderung (Herder Verlag, Freiburg im Breisgau 1988 ), rileva come l’interpretazione della pístis proposta da Buber - considerando il cristianesimo quale forma derivata e “inferiore” rispetto all’ebraismo - fa del suo libro sui “due tipi di fede” una vera “messa in questione” del cristianesimo, radicale quanto quella perseguita da Kierkegaard un secolo prima, e un’ineludibile “provocazione” (Herausforderung) per coloro che lo professano. Il volume Dialogo solitario costituisce una delle risposte più autorevoli a tale provocazione. Non è certo un caso che a soffermarsi sul discorso sulle due fedi proposto da Buber sia Hans Urs von Balthasar, uno dei teologi cattolici la cui esistenza, non meno dell’opera intellettuale, è stata caratterizzata da un’attitudine dialogica costantemente perseguita con coerenza e grande coraggio, e volta a denunciare i limiti e i rischi insiti nell’atteggiamento meramente difensivo in cui la Chiesa si era così a lungo trincerata. Un intellettuale cristiano che, nell’intento di affrancare la Chiesa stessa e la teologia da tale condizione, vuole l’“abbattimento dei bastioni”- la Schleifung der Bastionen, espressione che dà il titolo a uno scritto del teologo svizzero – può senz’altro corrispondere dialogicamente al discorso proposto da Buber in Due tipi di fede. Inoltre, l’outillage teologico e filosofico che può essere di valido ausilio in un dialogo così concepito non fa certo difetto a Balthasar, che l’illustre collega Henri de Lubac annovera tra gli uomini più colti del Novecento. Ad attestare l’attitudine dialogica che informa la riflessione proposta da Balthasar in Dialogo solitario, vale soprattutto quanto egli afferma nella Prefazione della monografia, ovvero che tra ebrei e cristiani, sebbene essi vivano “da millenni sfiorandosi l’un l’altro senza guardarsi negli occhi”, “è in corso un dialogo che non è dato in loro potere di interrompere. Un dialogo pregno dell’Essere, più profondo di ogni libertà, degli individui come dei popoli, un dialogo tra cielo e terra, in cui il figlio dell’uomo trasfigurato interloquisce con Mosè ed Elia”( pp. 39-40).

Nelle dense pagine del volume, il teologo non manca di criticare la lettura della fede cristiana proposta da Buber, rinvenendo in essa un “punto debole” del suo pensiero, del quale egli non manca comunque di apprezzare la struttura “monumentale” e “bene integrata”. Il teologo afferma peraltro che anche la visione dell’ebraismo offerta dall’autore corre il rischio di costituire un’interpretazione troppo selettiva dell’universo religioso proprio della emunah. Per Buber, il contenuto oggettivo, normativo in senso cogente, della Legge non è adeguatamente significativo e non si può concepire alcuna istanza mediatrice nel rapporto tra Dio e il suo popolo. Come si è accennato, la relazione io-tu, anche qualora il Tu è l’Eterno, è per l’autore im-mediata. All’ebraismo, fede considerata essenzialmente nella purezza delle sue origini, Buber contrappone un cristianesimo che è religione “impura”, poiché in essa l’elemento ebraico – l’attitudine dialogica, la fiducia nell’Eterno che è al fondo della emunah – sarebbe commisto ad apporti estranei di marca giovannea e paolina, e debitori alla cultura religiosa dell’ellenismo e dell’incipiente gnosticismo. Per Balthasar tale lettura, penalizzante per il cristianesimo, rivela il debito intellettuale di Buber, che per alcuni aspetti permane anche negli scritti più tardi, con la filosofia a sfondo vitalistico che tanta parte aveva avuto nella sua formazione culturale, in particolare nel periodo degli studi universitari a Berlino, dove aveva seguito i corsi di Dilthey e di Simmel. Secondo tale Lebensphilosophie, la vita crea incessantemente nuove forme in cui rischia di irrigidirsi, ma dimostra sempre di nuovo la sua forza rovesciando con il suo stesso procedere ogni forma che viene ad attuarsi. Il cristianesimo, nella visione buberiana, costituirebbe una forma di religiosità in cui un iniziale impulso creativo, fortemente improntato alla dialogicità e alla fiducia nell’Eterno, ha assunto forme cultuali e dogmatiche sempre più rigide, nelle quali esso rischia di isterilirsi. Per quanto attiene invece al discorso condotto da Buber sull’ebraismo, Balthasar ritiene che esso possa essere compreso avvalendosi delle due fondamentali chiavi ermeneutiche costituite dal principio profetico e dal principio sacramentale. Per l’autore de La fede dei profeti, le grandi figure della Bibbia - siano essi patriarchi, condottieri, giudici o profeti nell’accezione consacrata della parola - partecipano tutti, in qualche modo, del principio profetico. In tale prospettiva, pur con diverse connotazioni, è nabi non solo Isaia o Geremia, ma anche Abramo, non meno di Mosé. Ognuno di loro, rivolgendosi al popolo, arreca la “parola del messaggio” e si comprende pertanto come Buber, nella sua “versione in tedesco” della Scrittura, renda la parola ebraica nabi con Kunder, ovvero messaggero, annunciatore.

La emunah propria dell’ebreo rimane ancorata alla sua radice allorché attinge al principio profetico, è fede/fiducia in Colui che si rivela non per comunicare la sua “essenza” o i suoi “attributi”, ma per porre “l’uomo integro” nella sua libertà - la libertà che si riconosce soltanto al partner di un dialogo reale - di fronte a un’alternativa, tra la scelta del bene che conduce alla vita o del male che reca ineludibilmente frutti di morte. All’interno della fede dei profeti – nel cui solco, per Buber, si inserisce con ineguagliabile purezza la stessa emunah di Gesù – assume altresì rilievo il principio sacramentale, in virtù del quale viene superata qualsivoglia dicotomia tra sacro e profano, e la terra promessa (Eretz Israel) si lega indissolubilmente al mistero e al destino di un popolo chiamato a testimoniare dinanzi al consesso di tutti gli altri, sino alle“isole lontane”, quale sia la vita realmente condotta nel riconoscimento della Signoria di Dio riguardo a ogni ambito della realtà umana. Vivendo su questa terra, ben visibile concrezione del principio sacramentale, Israele stesso assurge a sacramento di una vita siffatta di fronte agli altri popoli. La lettura del volume Dialogo solitario è resa ancora più proficua dal confronto con quanto lo stesso Balthasar scrive nel breve saggio Martin Buber and Christianity, inserito in una delle più ampie raccolte di scritti critici sul pensiero dell’autore (The Philosophy of Martin Buber, Open Court, La Salle -Illinois 1967). Può essere condiviso quanto Hans Urs von Batlhasar afferma qui - e scrive peraltro, in un contesto argomentativo decisamente più ampio, anche in Dialogo solitario – riguardo al mistero per cui l’ebraismo, così come è concepito da Buber, e la Chiesa, così come è intesa dal cristiano, sono “i due testimoni ultimi di un mandato assoluto di Dio al mondo”, assoluto nel senso paradossale “di essere legato a un visibile Così-e-non-altrimenti”. Proprio in virtù della fedeltà al mandato di cui parla il teologo, ebraismo e cristianesimo, sono differenti e si confermano, anzi, nella loro differenza, procedendo l’uno di fronte all’altro nelle vie contrastate che segnano il “tempo dell’esilio”.

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