DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta fede. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fede. Mostra tutti i post

Che fine ha fatto “el continente de la esperanza”? Il declino dei cattolici in America latina, sempre meno numerosi e sempre più insipidi



Non solo sempre meno numerosi e non solo sempre più secolarizzati. C’è tanto altro da dire sui cattolici latinoamericani e sui loro conterranei protestanti, ci sono un sacco di scoperte sfiziose nell’indagine sulla religiosità dei latinoamericani realizzata dal Pew Research Center di Washington e diffusa a metà di novembre. I commenti della stampa italiana si sono concentrati sulla flessione percentuale dei cattolici sul totale degli abitanti del continente a vantaggio dei protestanti e dei non affiliati e sulle loro opinioni eterodosse in materia di dottrina morale e di diritto canonico. Mentre scendevano dal 92 al 69 per cento della popolazione sudamericana adulta fra il 1970 e il 2014 (una flessione media di mezzo punto percentuale all’anno), i cattolici assorbivano gran parte dei valori secolari, fino a dichiararsi, in molti paesi, in maggioranza favorevoli a riforme radicali della dottrina morale e della disciplina canonica cattolica includenti la legittimità del ricorso agli anticoncezionali (16 paesi su 19), l’accettabilità del divorzio (13 paesi su 19), l’introduzione dell’ordinazione sacerdotale femminile (8 paesi su 19) e del clero sposato (9 paesi su 19). Donne prete e sacerdoti sposati sono l’opzione prevalente di una minoranza di paesi ma di un numero assoluto di cattolici maggioritario, in quanto ottengono la maggioranza nei paesi più popolosi: nel solo Brasile i favorevoli all’ordinazione femminile sarebbero il 78 per cento, mentre maggioranze di cattolici favorevoli al clero sposato si trovano in Brasile, Argentina, Cile e Venezuela. In Argentina e Uruguay maggioranze assolute di cattolici sono favorevoli al matrimonio fra persone dello stesso sesso, in Cile e Messico lo sarebbero maggioranze relative.

Dati piuttosto scioccanti, ma per nulla gli unici interessanti della ricerca. Per esempio la secolarizzazione dei percentualmente calanti cattolici andrebbe letta in contrappunto con l’ortodossia dottrinale dei sempre più numerosi protestanti, cresciuti dal 9 al 19 per cento di tutti i latinoamericani fra il 1970 e il 2014. Che si tratti del matrimonio fra gay o del sesso fuori dal vincolo coniugale, della condanna del divorzio e dell’aborto legale, dell’omosessualità attiva o dell’uso degli anticoncezionali, i protestanti si mostrano intransigenti là dove i cattolici si rivelano lassisti. Se in alcuni paesi la maggioranza di tutti i cristiani continua a mostrarsi statisticamente contraria al matrimonio fra persone dello stesso sesso, è perché sono i protestanti a far pendere da quella parte la bilancia. Ma il ritratto del protestante sudamericano come un tipo da una parte moralmente conservatore e dall’altra sedotto dal Vangelo dell’abbondanza, cioè dalle promesse di miracoli, ricchezza e salute delle Chiese pentecostali, non corrisponde alla realtà così come emerge dall’indagine. Al contrario, mediamente i protestanti prendono più seriamente i contenuti spirituali e morali della loro fede di quanto facciano i cattolici, e sono anche più socialmente impegnati di loro.


cattolici-protestanti-america-latina-pew-research-center-tempi


Chi segue la liturgia settimanale?

Che si tratti della frequenza settimanale del luogo di culto, della preghiera personale, del digiuno quaresimale, della lettura delle Scritture, della partecipazione alle attività della congregazione o del pagamento della decima, cioè del sostegno economico alla propria Chiesa, i protestanti sopravanzano sempre i cattolici. In Argentina solo il 15 per cento dei cattolici va a Messa tutte le settimane, mentre partecipano al servizio liturgico settimanalmente il 55 per cento dei protestanti; in Brasile la percentuale dei cattolici frequentanti è un po’ più alta col 37 per cento, ma quella dei protestanti è addirittura massiccia: 76 per cento. In Cile, Perù, Venezuela, Ecuador, Argentina, Uruguay e Porto Rico i cattolici che versano una quota fissa del loro reddito alla Chiesa sono ovunque meno del 20 per cento, negli stessi paesi i protestanti che lo fanno oscillano fra il 41 e il 71 per cento. Tranne che a Panama (56 per cento), in nessun paese la maggioranza assoluta dei cattolici pratica digiuni durante la Quaresima, mentre in tutti i paesi tranne Cile, Argentina e Uruguay i protestanti che digiunano costituiscono la maggioranza assoluta del loro insieme.
Ma non è solo sullo specifico religioso che i protestanti si dimostrano più impegnati dei cattolici. Gli atteggiamenti nei confronti della povertà e del bisogno materiale riservano sorprese. L’interpretazione un tempo dominante secondo cui le Chiese protestanti latinoamericane sarebbero composte da ricchi egoisti privi di coscienza sociale e da poveracci motivati principalmente dalla speranza di beneficiare di miracoli e di vantaggi economici va in crisi quando si analizzano attentamente alcune evidenze statistiche dell’inchiesta. La grande maggioranza dei cristiani sudamericani di ogni confessione crede nella necessità di aiutare i poveri e di portare a loro Cristo. Quando però le risposte alla povertà vengono messe in alternativa fra loro, cioè viene chiesto se la prima cosa da fare coi poveri sia portare loro Cristo oppure aiutarli materialmente, la consueta divaricazione fra cattolici e protestanti riemerge: per la maggioranza dei cattolici, aiutare materialmente i poveri viene prima dell’annuncio del Vangelo, viceversa per i protestanti. In Argentina solo il 18 per cento dei cattolici ritiene che il modo più importante di aiutare i poveri sia di portare loro Cristo, mentre lo afferma il 51 per cento dei protestanti; divari superiori ai 30 punti percentuali fra cattolici e protestanti su questo argomento si registrano anche in Colombia, Bolivia, Perù e Paraguay. All’inverso, i cattolici che considerano priorità assoluta l’aiuto caritatevole ai poveri sono più dei protestanti che la pensano in questo modo in tutti e 19 i paesi sondati, anche se le differenze sono meno accentuate e si collocano fra i 10 e i 26 punti.

Ma la vera sorpresa emerge quando si chiede ai seguaci delle due confessioni se loro personalmente aiutano i poveri non solo con l’elemosina ma con varie forme di impegno. In tutti i paesi, i protestanti che dichiarano di avere preso parte ad attività caritative verso i poveri negli ultimi dodici mesi sono percentualmente più numerosi dei cattolici. I fedeli della Chiesa di Roma non ci fanno una bella figura: in maggioranza affermano che aiutare concretamente i poveri è più importante che annunciare loro Cristo, ma quando poi si tratta di mostrarsi coerenti con quello che dicono, si fanno bagnare il naso dai protestanti. I quali, evidentemente, non sono quegli spiritualisti disincarnati che si vorrebbe far credere. In particolare, in Venezuela e in Messico i protestanti coinvolti nell’aiuto umanitario sono rispettivamente il 27 e il 25 per cento in più dei cattolici. Lo stesso trend si osserva se si chiede alle persone se la loro Chiesa aiuta la gente a trovare un lavoro: dappertutto i protestanti rispondono “sì” più spesso dei cattolici. Il paese con la differenza più forte è l’Argentina, dove il 70 per cento dei protestanti risponde affermativamente alla domanda, contro il 37 per cento dei cattolici. Non ci sono invece differenze significative, tranne che in un paio di paesi, fra le risposte dei cattolici e quelle dei protestanti quando gli si chiede se la loro Chiesa cerca di convincere il governo ad aiutare i poveri.

Le ragioni della secolarizzazione

Un altro argomento dove le differenze di sensibilità fra protestanti e cattolici non sono particolarmente forti è l’aborto. I cattolici sono apparentemente più secolarizzati quando si parla di divorzio, contraccezione e matrimonio gay, ma sulla questione dell’aborto fanno eccezione solo il piccolo Uruguay e il Cile: il primo è l’unico paese dove i cattolici sono in maggioranza favorevoli all’aborto legale (solo il 44 per cento è contrario), nel secondo sono spaccati a metà fra favorevoli e contrari. In tutti gli altri paesi i cattolici si oppongono all’aborto legale con percentuali che oscillano fra il 74 e il 90 per cento, con la relativa eccezione dell’Argentina che è quotata al 69 per cento. La contrarietà dei protestanti va dal 66 per cento dell’Uruguay al 97 per cento del Paraguay.
Come si sarà notato, il paese che più insistentemente ricorre ai vertici delle opinioni di impronta secolarista è l’Uruguay. Il piccolo paese di 3,4 milioni di abitanti sul Rio de la Plata presenta il triplice primato di essere lo Stato sudamericano con meno cattolici (solo 42 per cento della popolazione), meno cristiani (solo il 57 per cento, contro un 43 di atei, agnostici, non affiliati e di altra religione) e dove i cattolici si dimostrano più secolarizzati, essendo in maggioranza favorevoli ai matrimoni fra persone dello stesso sesso e all’aborto legale. Addirittura solo il 49 per cento dei cattolici uruguaiani giudica che l’aborto come tale sia «moralmente sbagliato». Nei due paesi che con l’Uruguay confinano, Argentina e Brasile, i cattolici che vedono nell’aborto un chiaro male morale sono rispettivamente il 64 e l’80 per cento, nel poco distante Paraguay il 96 per cento. L’Uruguay costituisce un’autentica lezione storica per quei soloni intellettuali cattolici che teorizzano il disimpegno della Chiesa e dei cristiani rispetto alle leggi vigenti in un paese e la lontananza dal potere politico come condizione ideale per un migliore svolgimento della missione della Chiesa.

L’Uruguay avrebbe potuto avere una traiettoria storica simile a quella di uno dei suoi vicini se non fosse stato per le politiche laiciste che ha coerentemente perseguito fin dal 1861, quando il governo nazionalizzò i cimiteri su tutto il territorio nazionale, sottraendoli alle chiese. Poco dopo vennero approvate leggi che proibivano alla Chiesa di avere un ruolo nell’educazione pubblica e di rilasciare certificati matrimoniali. Nel 1919 la nuova Costituzione, che sostituiva quella del 1830, sanciva la totale separazione fra Stato e Chiesa. La secolarizzazione proseguì con la rimozione dei riferimenti religiosi dai nomi di quasi tutte le città e villaggi (non restano che San Carlos e Rosario) e con l’eliminazione del nome di Dio dai giuramenti delle massime cariche dello Stato. Oggi l’Uruguay presenta i tassi di religiosità di gran lunga più bassi fra i paesi analizzati dall’inchiesta del Pew Research Center. Meno di un terzo degli uruguaiani (28 per cento) dichiara che la religione è molto importante per la sua vita, (mentre in nessun altro paese questo valore è inferiore al 41 per cento e nella maggioranza si colloca fra il 70 e l’80 per cento); solo il 29 per cento prega ogni giorno e solo il 13 per cento va in chiesa almeno una volta alla settimana. Nel confinante Brasile il 61 per cento degli adulti prega quotidianamente e il 45 per cento va in chiesa almeno settimanalmente. Gli uruguaiani pregano poco e vanno in chiesa ancora meno, ma molto spesso fanno gli scongiuri. Risulta infatti che il 53 per cento dei cattolici e il 42 per cento degli atei e dei senza religione credono nel malocchio. La media generale del paese è del 46 per cento, che è superiore ai valori registrati in paesi molto religiosi come Bolivia, Paraguay, Perù, Messico, Colombia, eccetera. Chi non crede in Dio comincia a credere a tutto, diceva Chesterton.

La moralità degli indigeni

Un’ultima notazione la meritano i popoli indigeni dell’America latina. Nell’inchiesta del Pew Research Center non c’è nulla che si riferisca direttamente a loro: nella nota metodologica viene indicato il numero dei rispondenti per ogni paese, ma non l’estrazione etnica degli intervistati. Qualche dato però si può estrapolare. I paesi che contano la più alta percentuale di popolazione indigena pura sono la Bolivia (45 per cento), il Guatemala (40,5), il Perù (32,5) e l’Ecuador (25). Ebbene si tratta anche di alcuni dei paesi dove maggiore è l’ostilità al matrimonio omosessuale (contrari fra il 65 e l’83 per cento), dove gli atti omosessuali sono considerati immorali (fra il 73 e il 91 per cento), si giudica l’aborto immorale (fra l’85 e il 96 per cento) e si vuole che non sia legalizzato (fra il 75 e il 92 per cento). Chissà cosa ne pensano i liberal sempre pronti a esaltare le culture indigene contro la tradizione giudaico-cristiana.



 Tempi.it 



Gesù e l'algoritmo di Facebook. La logica economica che seleziona le notizie sui social è in conflitto con la logica di Dio

di Marco Scicchitano 

Forse non tutti hanno sentito palare di EdgeRank eppure, molto probabilmente, ne hanno avuto a che fare in modo diretto o indiretto. EdgeRank è il nome dell’algoritmo con cui Facebookattribuisce un punteggio di affinità tra il profilo di una persona e un contenuto (o “edge” in Inglese) pubblicato da qualcun altro, tenendo conto di quante interazioni ci sono state in precedenza tra i due, che tipo di interazione ci sia stata e da quanto tempo. In base a questo valore, o punteggio, si viene a creare la timeline di ciascun utente, che sarà fondamentalmente organizzata in modo tale da rispecchiare gli interessi dell’utente.

Il ragionamento di Facebook potrebbe essere questo: “1) Da quello che fai e da come interagisci, capisco cosa ti interessa, 2) partendo da cosa ti interessa seleziono le informazioni che ti presento che presumibilmente ti interesseranno 3) la tua timeline sarà principalmente composta da argomenti e informazioni che rientrano nei tuoi interessi e che apprezzerai, mettendo il like, commentando o condividendo e questo ci garantirà una tua maggiore presenza sul nostro sito in termini di tempo e di interazione e questo è un beneficio economico per noi. 4) si torna al punto 1)”.

Ponendola in questo modo sembra che sia un circuito a retroazione che si rafforza progressivamente, una specie di circolo vizioso dove veniamo esposti ad informazioni già filtrate e selezionate in modo che corrispondano alle nostre aspettative ed interessi. Il resto rimane fuori. Come quando nel ricevere una mailing list, selezioniamo quali sono gli argomenti che preferiamo e sui quali vogliamo continuare ad essere aggiornati: sport, letteratura, musica; da queste scelte che noi facciamo consegue che ci verranno inviate mail sugli argomenti da noi selezionati e saremo aggiornati sui risultati della Roma o del torneo regionale di palla a mano delle Marche, mentre se avviene un cambio ai vertici della politica monetaria europea, non ne sapremo nulla, perché non abbiamo selezionato fra le varie opzioni “politica economica” e così tutto quello che concerne le decisioni politiche riguardo l’economia non verrà a mia conoscenza, resterà fuori. Più o meno Facebook fa la stessa cosa, solo che alla nostra attività decisionale che ci fa selezionare “musica” “sport” piuttosto che “politica economica”, sostituisce un algoritmo matematico, EdgeRank, che lo fa al posto nostro.

In molti si sono sdegnati e risentiti che Facebook potesse operare una selezione in entrata delle informazioni alle quali era possibile accedere vivendo questo dato come fortemente limitante rispetto alla libertà di percepire ed entrare in contatto con la molteplicità estremamente variabile delle informazioni pubblicate sulla piattaforma sociale. EdgeRank, con questo nome da robot censore, in realtà non fa che replicare quanto succede in ogni essere umano grazie a quelle che Vittorio Guidano ha chiamato organizzazioni di significato personale. Con organizzazione di significato personale si intende il modo con cui ogni individuo organizza tutte le possibili tonalità del proprio dominio emotivo e cognitivo in una configurazione unitaria in grado di fornirgli una percezione stabile e definita di sé e del mondo. Una configurazione unitaria di schemi interpersonali, che comprende tutti gli aspetti sensoriali, affettivi, motori e neurofisiologici sui quali si basa il senso di continuità, di permanenza e unità di sé e della realtà. Esiste una profonda necessità di coerenza e stabilità in ciascuno, che serve a far fronte alla paura più profonda e destabilizzante, quella della frantumazione del sé.

La potenza delle motivazioni che stanno alla base della formazione del sistema di significato personale è tale che influenza anche le stesse percezioni, le informazioni in entrata. Se sono in disaccordo con le regole che strutturano il sistema di significato personale, non vengono “percepite” coscientemente. Esistono studi che mostrano come questo abbia influenza sulla capacità di evocare ricordi, di percepire i dati ambientale, di giudicare ed interpretare le intenzioni degli altri. Questo è il meccanismo che spiega come mai un narcisista megalomane non colga le critiche che gli vengono fatte, o un depresso con bassa autostima faccia fatica ad accettare la spontaneità e verdicidità di un complimento: (“bravo, mi hai aiutato” “….mmm me lo dice perché gli faccio pena”). Quello che mi conferma e non mi scuote troppo è accettato ed accolto, ciò che mi destabilizza, resta fuori. La necessita di coerenza diventa tanto più rigida tanto più è fragile la persona, e spesso la sofferenza non deriva da un organizzazione di significato personale che abbia in sé elementi di depressione, di ansia o di megalomania, ma dal fatto che la persona, pur di mantenere integra la visione profonda di sé e del mondo, non riesca a tollerare informazioni o stimoli perturbanti, che contraddicono, che mettono in discussione e destabilizzano. L’algoritmo non permette che vengano assimiliati, che salgano a coscienza, e li respinge. Restano fuori.

Anche a livello sociologico e mediatico avviene qualcosa di simile e questo paradigma dell’algoritmo è possibile applicarlo alla tendenza a non considerare aspetti del vivere che risultano perturbanti e in qualche modo fastidiosi. Credo che l’algoritmo sia applicato scientemente ed in modo particolarmente rigido in alcuni ambiti delle proposte di progresso che la nostra società civile si trova a dover considerare, dato l’interesse economico. Il dato che molti non considerino le conseguenze pratiche ed effettive, e spesso tragiche e dolorose, che conseguono a certe pratiche come l’utero in affitto, la fecondazione eterologa o l’eutanasia, più che da imputare alle singole persone, sia da considerare come una scelta partigiana di ambienti di potere permeati da interessi economici che arriva a forzare lessico e concetti pur di far risultare meno perturbanti e difficili da accettare questi falsi miti di progresso. In questo modo le sofferenze di molte persone, soprattutto le più deboli e indifese, e le nefaste conseguenze sulla società che tutto questo potrà portare non è dibattito nei salotti, non viene accolto negli studi televisivi e rimane fuori. Resta fuori.

Gesù Cristo ha con la sua vita, morte e resurrezione, rotto definitivamente questo circolo vizioso autoreferenziale e con la sua Croce, ha resto manifesto e insopprimibile per sempre il volto davanti al quale ci si copre, che a fatica si guarda e si preferisce ignorare. Ora e da allora, alla logica stringente e ragionevolmente economica dell’algoritmo che tiene fuori ciò che non è possibile sostenere ed assimilare c’è un alternativa che tiene tutti dentro, che non volge lo sguardo. La sofferenza innocente, la più odiosa e incomprensibile vicenda umana, è diventata con Gesù Cristo veicolo di comprensione, perdono, accoglienza, dono e nuova vita.

La Croce Quotidiano, fonda la sua ragion d’essere anche in questa capacità che ha la Croce di penetrare come una spada qualsiasi filtro, barriera e algoritmo e portare alla luce contraddizioni e argomenti che risultano altrimenti inconcepibili e a considerare come belle, vivificanti e portatrici di speranza situazioni altrimenti ignorate e reiette. Grazie a questo strumento informativo, vogliamo usare la doppia lama della Croce: da una parte smascherare le inside disumane che si nascondono dietro ai falsi miti di progresso che si accaniscono sui più deboli e sugli innocenti, e dall’altra portare alla luce esperienze concrete di vita che mostrano la bellezza dello stare al mondo rimanendo umani con le gioie e i limiti che comporta. Una semplice ma fondamentale aspirazione. A fronte di ideologiche derive moderne che stanno minando la possibilità di vivere il mondo maschi e femmine, madri e padri e per difenderci dalla tecnobiologia che alcune logiche di mercato e di produttività vorrebbero imporre alla società civile, disumanizzandola abbiamo una incrollabile speranza e una sentita responsabilità per noi e per i nostri figli: restare umani.

 LA CROCE - QUOTIDIANO



Fede: educazione sentimentale cercasi

«Ho voluto parlare della re­ligiosità che mi ha co­struito come scrittore e credente, ma anche del modo in cui il cattolicesimo ha intessuto una civiltà. Ho cercato di trasmettere umilmente la nostra grande memoria». Per lo scrittore francese Denis Tillinac la ste­sura del Dizionario amoroso del cat­tolicesimo, pubblicato in Francia da Plon e divenuto un successo in libre­ria, è stata l’esperienza «speciale» per eccellenza di un’intera carriera. E­splorando in modo molto personale il senso e le armoniche più intime di un centinaio di voci, da «agnello» fino al­la lettera «z», Tillinac ritrova ad esem­pio con commozione i propri ricordi infantili di chierichetto affascinato dal mistero delle messe in latino, sve­la la propria ammirazione per l’«utopia concreta» del monachesi­mo, cita tanti eventi pregnanti come la conversione parigina di Alessan­dro Manzoni. L’autore assicura: «Senza radici cristiane, non c’è Eu­ropa. L’Europa è il continente delle cupole, dei monasteri, delle chiese. Che si sia credenti o meno».
Cosa vuol dire per lei la vecchia e­spressione «Francia figlia primoge­nita della Chiesa»?
«Giovanni Paolo II aveva ricordato questa formula, rimproverando l’in­fedeltà della Francia al suo battesimo. La maggioranza degli storici, che sia­no credenti o no, fanno risalire la na­scita della Francia al battesimo di Clo­doveo. Si tratta di legami fondamen­tali e ho scritto questo libro perché molti francesi non conoscono più quest’eredità. Eppure, chi arriva in Francia si rende subito conto che e­sistono 40 mila luoghi di culto e che decine di migliaia di villaggi e città portano il nome di un santo. Quan­do si ha coscienza delle proprie ra­dici, si ha più fiducia nell’avvenire. Oggi, il cattolicesimo è divenuto in Francia un po’ elitista, ma occorrerà ritornare alla base».
Alla voce « amore», lei sostiene che le Beatitudini rappresentano la maggiore originalità del Vangelo. In che senso?
«Mi hanno sempre colpito perché se­gnano un capovolgimento totale dei valori mondani e sociali. Si va al di là del messaggio d’amore del prossimo che si ritrova già nell’Antico Testa­mento. Gli uomini non sono angeli, certo, ma sono tutti chiamati alla san­tità, la quale può essere riassunta pro­prio dalle Beatitudini».

Le vite dei santi, invece, sono come «romanzi di anime picaresche».
«Si tratta spesso di anime com­plicate, attirate talora dall’a­more profano. Mi riferisco ad esempio a figure come Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola. Il loro percorso è come fatto di rimbalzi progressivi verso l’alto e verso il mistici­smo. Tutte le anime forse aspi­rano a simili avventure, ma in genere il bagliore divino ci il­lumina appena mezz’ora in un anno o in una vita. Nel loro caso, l’avventu­ra ascende in modi imprevedibili ver­so l’alto».

Il suo dizionario ricorda tanti luoghi dello spirito. Quest’ancoraggio geo­grafico è una chiave per comprende­re il cattolicesimo?
«Nella propria gestione temporale, la Chiesa ha sempre pensato che, per permettere di accedere all’invisibile, l’uomo ha bisogno di tutte le forme della propria sensibilità. Il bello, il me­raviglioso, la sorpresa, lo stupore. O­gni credente ha una propria geogra­fia intima in cui le chiese giocano un grande ruolo, con le loro penombre, la luce speciale delle vetrate, l’ico­nografia, il bagliore rosso del Santo Sacramento in fondo a una cappel­la. Tutto ciò concorre a trasmettere uno stato di religiosità la quale, pur non corrispondendo alla fede, può nutrirla».

François Mauriac si chiedeva se Dio ha ancora bisogno degli scrittori. Che ne pensa?
«Il cattolicesimo è in particolare una religione della scrittura. Mi pare na­turale che uno scrittore possa sentir­si come in casa propria. Con le Con­fessioni, sant’Agostino ha trasforma­to la letteratura in uno spazio d’inte­riorità e tanti altri seguiranno questo cammino. In Francia, ad esempio, Montaigne, Rousseau, Chateau­briand, fino ai teologi del Novecento. Ma i fondatori non sono stati di certo superati. Il passaggio attraverso la pa­rola, e dunque anche attraverso chi scrive, resta obbligato».

Il dibattito sulla laicità riappare in Francia. Perché?
«Dopo la legge del 1905, la laicità in Francia si è fondata su compromessi divenuti sempre più di largo consen­so. Ma oggi, proprio nel momento in cui il cattolicesimo praticante conosce un certo declino, i francesi hanno pau­ra dell’islam. Vedere dei musulmani che pregano in strada a Montmartre o a Marsiglia pone interrogativi sul senso religioso. Il dibattito politico sui flussi migratori, di natura molto di­versa, ha un suo senso. Invece spesso non amo l’approccio odierno verso la laicità. Non occorre fare una monta­gna dell’uso del burqa. Basta sempli­cemente vietarlo, già per semplici ra­gioni di ordine pubblico. In Francia, c’è indubbiamente chi cerca di trasferire sul piano religioso una crisi che è invece morale, so­ciale ed economica. In questo dibattito falsato, naturalmente, converge anche il peso residuo del fronte laicista».

A livello culturale, certi vecchi muri antireligio­si sembrano al contem­po fessurarsi, come ha appena mo­strato l’attenzione offerta a Parigi al «Cortile del Gentili»…
«Vent’anni fa, appariva ridicolo defi­nirsi uno scrittore cattolico. Oggi, ac­canto a una serie di scrittori e intel­lettuali credenti molto riconosciuti, si moltiplicano soprattutto i dibattiti in cui si riconosce che forse l’umanità non può fare a meno della religiosità. Sono convinto che presto apparirà i­nutile andare a cercare nel buddismo una qualche ispirazione spirituale e­sotica. In questo clima di ritrovata ri­cerca, mi pare stia affiorando un con­flitto fra monoteismo e panteismo. Ma prima o poi, si tornerà alle radici».

Daniele Zappalà

© Copyright Avvenire 24 maggio 2011


Fondamentale discorso del Papa al mondo della cultura: teologia della storia ed ecclesiologia illuminate da fede e verità.

INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Centro Cultural de Belém - Lisboa
Mercoledì, 12 maggio 2010

(Video)

Venerati Fratelli nell’Episcopato,
Distinte Autorità,
Illustri Cultori del Pensiero, della Scienza e dell’Arte,
Cari amici,

Sento una grande gioia nel vedere qui radunato l’insieme multiforme della cultura portoghese, che voi così degnamente rappresentate: Donne e uomini impegnati nella ricerca e costruzione dei diversi saperi. A tutti rivolgo l’espressione della mia più alta amicizia e considerazione, riconoscendo l’importanza di ciò che voi fate e di ciò che siete. Il Governo, qui rappresentato dalla Signora Ministro della Cultura, alla quale rivolgo il mio deferente e grato saluto, pensa, con benemerito sostegno, alle priorità nazionali del mondo della cultura. Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile questo nostro incontro, in particolare la Commissione Episcopale della Cultura con il suo Presidente, Mons. Manuel Clemente, a cui sono grato per le espressioni di cordiale accoglienza e la presentazione della polifonica realtà della cultura portoghese, qui rappresentata da alcuni dei suoi migliori protagonisti; dei loro sentimenti e delle loro attese si è fatto portavoce il cineasta Manoel de Oliveira, di veneranda età e carriera, al quale va il mio saluto pieno di ammirazione e affetto nonché di viva riconoscenza per le parole che mi ha rivolto, lasciando intravedere in esse le ansie e le disposizioni dell’anima portoghese in mezzo alle turbolenze della società di oggi.

Infatti, oggi la cultura riflette una «tensione», che alle volte prende forme di «conflitto», fra il presente e la tradizione. La dinamica della società assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato e senza l’intenzione di delineare un futuro. Tale valorizzazione però del «presente» quale fonte ispiratrice del senso della vita, sia individuale che sociale, si scontra con la forte tradizione culturale del Popolo portoghese, profondamente segnata dal millenario influsso del cristianesimo e con un senso di responsabilità globale; essa si è affermata nell’avventura delle scoperte e nello zelo missionario, condividendo il dono della fede con altri popoli. L’ideale cristiano dell’universalità e della fraternità aveva ispirato quest’avventura comune, anche se gli influssi dell’illuminismo e del laicismo si erano fatti sentire. Detta tradizione ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una «sapienza», cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un «ideale» da adempiere da parte del Portogallo, il quale ha sempre cercato di stabilire rapporti con il resto del mondo.

La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione, il cui ricco contributo colloca al servizio della società; questa continua a rispettarne e apprezzarne il servizio per il bene comune, ma si allontana dalla citata «sapienza» che fa parte del suo patrimonio. Questo «conflitto» fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita, sia come individuo che come popolo. Infatti un popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia, privo di valori chiaramente definiti e senza grandi scopi chiaramente enunciati. Cari amici, c’è tutto uno sforzo di apprendimento da fare circa la forma in cui la Chiesa si situa nel mondo, aiutando la società a capire che l’annuncio della verità è un servizio che Essa offre alla società, aprendo nuovi orizzonti di futuro, di grandezza e dignità. In effetti, la Chiesa ha «una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione. […] La fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di un sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l’annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile» (Enc. Caritas in veritate, 9). Per una società formata in maggioranza da cattolici e la cui cultura è stata profondamente segnata dal cristianesimo, si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo. Per noi, cristiani, la Verità è divina; è il «Logos» eterno, che ha acquisito espressione umana in Gesù Cristo, il qual ha potuto affermare con oggettività: «Io sono la verità» (Gv 14,6). La convivenza della Chiesa, nella sua ferma adesione al carattere perenne della verità, con il rispetto per altre «verità», o con la verità degli altri, è un apprendistato che la Chiesa stessa sta facendo. In questo rispetto dialogante si possono aprire nuove porte alla trasmissione della verità.

«La Chiesa – scriveva il Papa Paolo VI – deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa dialogo» (Enc. Ecclesiam suam, 67). Infatti, il dialogo senza ambiguità e rispettoso delle parti in esso coinvolte è oggi una priorità nel mondo, alla quale la Chiesa non intende sottrarsi. Ne dà testimonianza proprio la presenza della Santa Sede in diversi organismi internazionali, come, per esempio, nel Centro Nordsud del Consiglio dell’Europa, istituito 20 anni fa qui a Lisbona, che ha come pietra angolare il dialogo interculturale allo scopo di promuovere la cooperazione fra l’Europa, il sud del Mediterraneo e l’Africa e di costruire una cittadinanza mondiale fondata sui diritti umani e le responsabilità dei cittadini, indipendentemente dalla loro origine etnica e appartenenza politica, e rispettosa delle credenze religiose. Costatata la diversità culturale, bisogna far sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello.

Questa è un’ora che richiede il meglio delle nostre forze, audacia profetica, rinnovata capacità per «additare nuovi mondi al mondo», come direbbe il vostro Poeta nazionale (Luigi di Camões, Os Lusíades, II, 45). Voi, operatori della cultura in ogni sua forma, creatori di pensiero e di opinione, «avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. […] E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita» (Discorso agli artisti, 21 novembre 2009).

Proprio con lo scopo di «mettere il mondo moderno in contatto con le energie vivificanti e perenni del Vangelo» (Giovanni XXIII, Cost. ap. Humanae salutis, 3), si è realizzato il Concilio Vaticano II, nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita. L’evento conciliare ha messo i presupposti per un autentico rinnovamento cattolico e per una nuova civiltà – la «civiltà dell’amore» - come servizio evangelico all’uomo e alla società.

Cari amici, la Chiesa ritiene come sua missione prioritaria, nella cultura attuale, tenere sveglia la ricerca della verità e, conseguentemente, di Dio; portare le persone a guardare oltre le cose penultime e mettersi alla ricerca delle ultime. Vi invito ad approfondire la conoscenza di Dio così come Egli si è rivelato in Gesù Cristo per la nostra piena realizzazione. Fate cose belle, ma soprattutto fate diventare le vostre vite luoghi di bellezza. Interceda per voi Santa Maria di Betlemme, da secoli venerata dai navigatori dell’oceano e oggi dai navigatori del Bene, della Verità e della Bellezza.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

La fede non è un numero. I giovani e la fede in Italia. Un'analisi seria di Davide Rondoni

giovedì 22 aprile 2010


Se va avanti così, tra una trentina d’anni non ci sarà neanche più un giovane cattolico in Italia. Uno sfascio. Verrebbe da pensare così leggendo i dati di una ricerca statistica presentata in questi giorni. In 6 anni diminuiscono di più del 14% i giovani che si dicono cristiani cattolici. Erano il 66,9% nel 2004 e sono ora il 52,8%.

La ricerca (Iard per conto di “Nuove Regaldi” di Novara) ha testato un campione di mille ragazzi tra i 18 e i 29 anni. Ci sono poi una serie di “sottogruppi” identificati dalla ricerca, che indaga i diversi volti del rapporto tra giovani e religiosità. Ma restiamo al dato gigantesco.

È vero che una realtà come la vita di fede non può essere descritta con la statistica, però qualcosa ci viene detto. Da un lato, che più della metà dei giovani italiani si dicono cristiani cattolici. E il dato può stupire, pensando all’immagine di giovane che più spesso ci viene ammannita dai media come “dominante” nella nostra società. Dall’altro (e i due fenomeni sono in relazione) si assiste a un calo fortissimo nel giro di poco tempo.

Evidentemente si tratta di una “autodefinizione” di sé che poggiando su inerzia tradizionale o su una leggera patina di convinzioni viene spazzata rapidamente via dal continuo infuriare di altre proposte e di altre immagini di se stessi. La fede non resiste se non come esperienza che tocca le radici della personalità. Non resiste come cultura, come convenzione, come morale. La fede cattolica “paga” in un certo senso nel nostro paese l’essersi troppo a lungo appoggiata a una proposta convenzionale. Si dava per scontata la forza, l’avventura radicale della fede. Essere cattolico per la maggior parte degli italiani ha significato non uscire dai binari di una tradizione consolidata.

Ma questo, specie con i giovani, non tiene. L’eccesso di clericalizzazione, di “istituzionalizzazione” sono fenomeni che non portano nessuno più vicino alla scoperta della fede. Una Chiesa che a lungo, come ha detto l’allora card. Ratzinger al Meeting di Rimini, ha pensato ad auto-occuparsi in attività di vario genere (dall’organizzativismo pastorale alla politica) ha finito per smettere di incontrare uomini e donne, e giovani, nel cuore della vita, e negli ambienti in cui la vita accade normalmente.

A una struttura enorme ha corrisposto un calo di vita. Di cultura e di comunità. Diceva don Giussani: le parrocchie han costruito sale biliardo e sale cinematografiche per provare a “trattenere” i giovani, però i film li facevano gli altri.

Certo, la pressione di modelli e di parole d’ordine è enorme. E fortissimo il continuo tentativo da parte dell’intellighentzija del nostro paese in scuole e media di rappresentare la fede cattolica come una faccenda ridicola, banale e oscura. Tutto questo a volte con la connivenza di clero e credenti non si sa se più babbei o accecati da vanità di “piacere” ai salotti bene.

Ci sono un sacco di “cattolici” in posizioni di prestigio dentro i media o nel campo della istruzione, ad esempio, incapaci di elaborare non dico proposte alternative, ma nemmeno di alzare qualche timida barriera. In questo senso ci sono responsabilità gravi dei politici cattolici e delle gerarchie nelle indicazioni e nelle scelte delle persone.

Spariranno dunque i cattolici giovani dal nostro paese? La sa Dio, in fondo. Ma di certo, si vede che in molti ragazzi, in diverse esperienze la fede è un avvenimento che ha segnato la personalità fino alle radici. E nulla prevarrà contro di loro.




© Copyright Il Sussidiario

Che cosa crede la Chiesa? Una introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica: proporre l’unità e la perenne novità della fede. Card. J. Ratzinger

Permettetemi di iniziare con un episodio verificatosi nei primi tempi dopo il Concilio. Il Concilio aveva aperto per la Chiesa e la teologia ampie prospettive di dialogo, soprattutto con la sua Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma anche con i Decreti sull'ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Nuovi temi si aprivano, e nuovi metodi divenivano necessari. Per un teologo, che voleva essere all’altezza dei tempi e aveva un concetto giusto della sua missione, appariva come ovvio, innanzitutto lasciare per un momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con tutte le energie ai nuovi problemi, che da ogni parte si ponevano.

In quell’epoca io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.

Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.

I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.

Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo.

Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l'altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?

La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell'essere con.

Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l'essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell'agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente.

Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io... (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo.

Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia.

Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente.

In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito ... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152).

Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167).

Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale.

Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione.

Per concludere vorrei ancora soltanto toccare l’altra questione, che abbiamo incontrato all'inizio delle nostre riflessioni: quella che riguarda il come della fede. In Paolo si trova in proposito una parola singolare, che ci potrà aiutare. Egli dice che la fede è un’obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento, alla quale siamo stati consegnati (Rom6,17). Si esprime qui in fondo il carattere sacramentale dell’atto di fede, l’intimo legame fra confessione di fede e sacramento. È propria della fede una “forma di insegnamento”, dice l’apostolo. Non la inventiamo noi. Non ci viene come un’idea dal di dentro di noi, ma come una parola dal di fuori di noi.

È in certo qual modo parola dalla parola, noi veniamo “consegnati” a questa parola, che indica nuove vie al nostro pensiero e dà forma alla nostra vita. Questo “essere consegnati” ad una parola che ci precede si realizza attraverso la simbologia di morte dell’immersione nell’acqua. Ciò ricorda la frase precedentemente citata, “Io vivo, ma non più io”; ricorda che nell’atto della fede si compiono morte e rinnovamento dell’io. La simbologia di morte del battesimo unisce questo nostro rinnovamento alla morte ed alla resurrezione di Gesù Cristo.

Questo essere consegnati alla parola che ci ammaestra è un essere consegnati a Cristo. Non possiamo accogliere la sua parola come una teoria, come si apprendono ad esempio formule matematiche e opinioni filosofiche. La possiamo apprendere solo nella misura in cui accettiamo la comunione di destino con lui, e questa la possiamo attingere solo laddove egli stesso si è legato permanentemente con gli uomini in una comunione di destino: nella Chiesa. Usando il suo linguaggio chiamiamo questo processo dell'essere consegnati “sacramento”. L’atto di fede non è pensabile senza il sacramento.

A partire di qui possiamo però capire la costruzione letteraria concreta del Catechismo. Fede, così abbiamo udito, è essere consegnati ad una forma di insegnamento. In un altro passo Paolo chiama questa forma di insegnamento professione di fede (cfr. Rom10,9). Qui emerge un altro aspetto dell’evento della fede: la fede, che come parola viene a noi, deve diventare di nuovo parola anche presso di noi stessi, in quanto nello stesso tempo si esprime la nostra vita. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è privata, ma è pubblica e comunitaria. Da parola diviene innanzitutto concezione, ma deve anche continuamente da concezione diventare parola ed azione.

Il Catechismo indica le diverse forme di confessione della fede, che ci sono nella Chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di fede formulate da Concili, professioni di fede formulate da Papi (192). Ciascuna di queste professioni di fede ha il suo significato specifico. Ma l’archetipo della professione di fede, sul quale tutti gli altri si fondano è la professione di fede battesimale. Laddove si tratta della catechesi, cioè dell’introduzione alla fede e alla vita nella comunione di fede della Chiesa, si deve partire dalla professione di fede battesimale. Ciò avviene fin dai tempi apostolici e doveva pertanto essere anche la strada del Catechismo. Esso svolge la fede a partire dalla professione di fede battesimale. Appare così chiaramente in quale maniera vuole insegnare la fede: catechesi è catecumenato. Non è una semplice lezione di religione, ma il processo del donarsi e del lasciarsi donare alla parola della fede, nella comunione di destino con Gesù Cristo.

È proprio della catechesi l’itinerario interiore a Dio. Sant’Ireneo dice in un passo, a questo proposito, che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita. La catechesi dovrebbe anche essere sempre un processo del genere di assimilazione a Dio, poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza.

“Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole”, ha scritto Goethe a commento di un detto di Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il che cosa ed il come della fede sono strettamente legati. In tal modo diventa ora visibile anche la dimensione morale dell'atto di fede: esso implica uno stile di esistenza umana, che non produciamo da noi stessi, ma che apprendiamo lentamente attraverso l’immersione del nostro essere immersi nel battesimo, nel quale continuamente Dio agisce in noi e nuovamente ci attira a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiano, nel quale noi non siamo soltanto attori, ma sempre, anzi, addirittura in primo luogo ricettori, in una ricezione, che significa trasformazione.

Non è quindi per mania di archeologismo che il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a partire dalla professione di fede battesimale della Chiesa di Roma, dal cosiddetto Simbolo apostolico. In esso si manifesta piuttosto la vera natura dell’atto di fede e così la vera natura della catechesi come un esercitarsi ad esistere con Dio.

Così, appare anche che il Catechismo è totalmente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come la ha intesa il Vaticano secondo. Infatti il Simbolo è innanzitutto, come abbiamo visto, professione di fede nel Dio trino, che si sviluppa dalla formula battesimale ed è ad essa legata.

Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento.

Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo dell’unica verità, che è Dio stesso – l’amore che muove il sole e l'altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII,145).



trascrizione della riflessione tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano, il 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è apparso sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, dal titolo La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73

Il Papa spiega che dove inculturazione e perdita di fede nel potere di Dio la liturgia non è più cristiana completamente dipendente dal Signore

Discorso ai Vescovi della regione Norte 2 del Brasile in “visita ad limina”


CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 15 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i presuli della regione Norte2 della Conferenza episcopale del Brasile, in occasione della loro visita “ad limina Apostolorum”.



* * *

Amati Fratelli nell'Episcopato,

La vostra visita ad limina ha luogo nel clima di lode e giubilo pasquale che avvolge la Chiesa intera, adornata dalla luce sfolgorante di Cristo Risorto. In lui, l'umanità ha superato la morte e ha completato l'ultima tappa della sua crescita entrando nei Cieli (cfr Ef 2, 6). Ora Gesù può liberamente ritornare sui suoi passi e incontrare, come, quando e dove vuole, i suoi fratelli. In suo nome, sono lieto di accogliervi, devoti pastori della Chiesa di Dio che peregrina nella Regione Norte 2 del Brasile, con il saluto fatto dal Signore quando si presentò risorto agli Apostoli e compagni: «Pace a voi» (Lc 24, 36).

La vostra presenza qui ha un sapore familiare, poiché sembra riprodurre il finale della storia dei Discepoli di Emmaus (cfr Lc 24, 33-35): siete venuti per narrare quello che è accaduto lungo il cammino fatto con Gesù dalle vostre diocesi disseminate nell'immensità della regione amazzonica, con le loro parrocchie e le altre realtà che le compongono, come i movimenti, le nuove comunità e le comunità ecclesiali di base in comunione con il loro vescovo (cfr Documento di Aparecida, n. 179). Nulla potrebbe rallegrarmi maggiormente del sapervi in Cristo e con Cristo, come testimoniano i resoconti diocesani che avete inviato e per i quali vi ringrazio. Sono riconoscente in modo particolare a monsignor Jesus Maria Cizaurre per le parole che mi ha appena rivolto a nome vostro e del popolo di Dio a voi affidato, sottolineando la sua fedeltà e la sua adesione a Pietro. Al vostro ritorno, assicuratelo della mia gratitudine per questi sentimenti e della mia benedizione, aggiungendo: «davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24, 34).

In quell'apparizione, le parole — se ci sono state — sono sfumate nella sorpresa di vedere il Maestro redivivo, la cui presenza dice tutto: ero morto, ma ora sono vivo e voi vivrete attraverso di me (cfr Ap 1, 18). E, essendo vivo e risorto, Cristo può divenire «pane vivo» (Gv 6, 51) per l'umanità. Per questo sento che il centro e la fonte permanente del ministero petrino sono nell'Eucaristia, cuore della vita cristiana, fonte e culmine della missione evangelizzatrice della Chiesa. Potete così comprendere la preoccupazione del Successore di Pietro per tutto ciò che può offuscare il punto più originale della fede cattolica: oggi Gesù Cristo continua a essere vivo e realmente presente nell'ostia e nel calice consacrati.

La minore attenzione che a volte si presta al culto del Santissimo Sacramento è indice e causa dell'oscuramento del significato cristiano del mistero, come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore. Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare — poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio — secondo «la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati» (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice.

Quanto sono distanti da tutto ciò coloro che, a nome dell'inculturazione, incorrono nel sincretismo introducendo nella celebrazione della Santa Messa riti presi da altre religioni o particolarismi culturali (cfr Redemptoris Sacramentum, n. 79)! Il mistero eucaristico è un «dono troppo grande — scriveva il mio venerabile predecessore Papa Giovani Paolo II — per sopportare ambiguità e diminuzioni», in particolare quando, «spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno» (Ecclesia de Eucharistia, n. 10). Alla base delle varie motivazioni addotte, vi è una mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo in soccorso dell'uomo. Questi, tuttavia, «si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si senta come incatenato» (Costituzione Gaudium et spes, n. 13). La confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità.

Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo. «La Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della Croce» (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 14). La Chiesa vive di questa presenza e ha come ragion d'essere e di esistere quella di diffondere tale presenza nel mondo intero.

«Resta con noi, Signore!» (cfr Lc 24, 29): così pregano i figli e le figlie del Brasile in vista del XVI Congresso eucaristico nazionale, che si terrà fra un mese a Brasilia e che in tal modo vedrà il giubileo aureo della sua fondazione arricchito con l'«oro» dell'eternità presente nel tempo: Gesù Eucaristia. Che egli sia veramente il cuore del Brasile, da dove proviene la forza per tutti gli uomini e le donne brasiliani di riconoscersi e di aiutarsi come fratelli, come membri del Cristo totale. Chi vuole vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo di Cristo e sarà vivificato! Oggi, e qui, tutto questo auguro a quella porzione speranzosa di questo Corpo che è la Regione Norte 2, nell'impartire a ognuno di voi, a quanti collaborano con voi e a tutti i fedeli cristiani, la Benedizione Apostolica.

[Traduzione dal testo originale in portoghese a cura de “L'Osservatore Romano”]

Le ragioni della fede di Messori

di Silvia Stucchi
Tratto da Studi Cattolici marzo 2009
Tramite il sito di Vittorio Messori

Con l’eloquente sottotitolo Una vita passata a rendere ragione della fede, è apparso da poco Perché credo, il meritorio librointervista di Vittorio Messori, in cui lo scrittore e giornalista cattolico che, negli ultimi trent’anni, ha saputo rivitalizzare, con talento divulgativo e insieme rigore storico e documentario, il genere dell’apologetica, risponde alle domande di Andrea Tornielli (Piemme, Casale Monferrato 2008, pp. 432, euro 20). In un certo senso, potremmo dire che questo volume chiude un ideale cerchio apertosi nel 1976 con la pubblicazione del primo libro di Messori, quell’Ipotesi su Gesù che, oltre a rivelarsi un inopinato successo editoriale, polverizzò e infranse, primo caso in Italia, quella barriera che distingueva nettamente editoria e distribuzione libraria laica e cattolica. Diversamente da quel primo volume, in Perché credo, però, la traccia, l’impronta per così dire, è molto più strettamente personale, giacché Messori, dopo molti successi editoriali, finalmente, con franchezza e insieme con pudore e discrezione, parla di sé e dei motivi per cui crede. Il testo combina il fervore e l’entusiasmo apologetico, che fortunatamente non sembrano destinati a spegnersi nell’autore, con il valore aggiunto della testimonianza che sgorga fluente, sapientemente suscitata e stimolata dalle domande di Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano il Giornale e moderatore di un blog dedicato all’informazione religiosa. In altre parole, Messori si propone qui in prima persona, ben comprendendo come il nostro tempo – disincantato, informato sino all’eccesso, globalizzato, in interconnessione permanente e velocissima – non necessita tanto di buoni maestri o, meglio, non abbisogna solo di maestri, ma ha una disperata sete di testimoni, documentati, seri, sinceri, appassionati, lontani da ogni profetismo, ma tali da poter suscitare l’identificazione, la sim-patia, in senso etimologico, del lettore e dell’ascoltatore.

Testimonianza razionale
Assai eloquente è dunque l’affermazione che troneggia sulla quarta di copertina, «un cristiano non è un cretino», volta a smentire recisamente quella assimilazione, basata su un’assonanza, proposta da un recente pamphlet anticristiano, livoroso, – transeat – e insieme sciatto e mal documentato – colpa quest’ultima imperdonabile – uscito dal disgraziato calamo di un personaggio che, dantescamente, non vogliamo qui nominare (ma, per l’analisi di tale testo, si rilegga l’articolo di Matteo Veronesi nel n. 555, maggio 2007, di Sc). Uno dei pilastri dell’argomentazione di Messori sta nel rilevare e ribadire continuamente come il cristianesimo non sia un grazioso coacervo di miti, ma una fede razionale, una religione che propone uno slancio di fede che non esclude la ragione, ma anzi la contempera. E questo non solo è in linea con gli ammonimenti che, sin dall’inizio del suo pontificato, Benedetto XVI, grande teologo, non si stanca di dispensare al suo gregge, ma è in consonanza profonda con quello che è stato lo scrupolo della Chiesa in ogni tempo, a partire dai Vangeli. Pensiamo, come ricorda Messori stesso, all’incipit del Vangelo di Luca (cfr pp. 307 ss): «Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anche io di fare ricerche accurate su ogni circostanza sin dagli inizi e di scrivere per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto». Questo scrupolo razionale, di accertamento e testimonianza della necessità della ragione contemperata alla fede, pervade tutta la storia della Chiesa, a partire dal motto agostiniano nisi credideris non intelleges, e dall’esortazione della teologia medievale a vivere una fides quaerens intellectum, e si ritrova e riflette, nella storia personale di Vittorio Messori, la cui biografia sa dimostrare quanto il cristiano riviva in sé, nella sua persona, nella sua storia, quei problemi, quelle dinamiche, quelle situazioni che ogni credente si è trovato, si trova, e si troverà, in ogni tempo e latitudine, ad affrontare. Messori ribadisce come, in primo luogo, il cristiano non sia affatto un uomo credulo, un sempliciotto senza spessore intellettuale, un superstizioso che soggiace all’autorità di una gerarchia vessatoria, immerso in credenze campate per aria, e che nuota nel cattivo gusto di certi spaccati umani e paesaggistici, di certa retorica da santuario mariano, per dirla tutta, pregiudizio questo di cui i sofisticati intellettuali non sono ancora immuni (cfr le icastiche, e financo divertenti, pp. 170-174).

Da Bobbio al francescano
L’autore, invece, tiene a precisare come egli stesso sia tutt’altro che un uomo portato allo slancio mistico, come il suo carattere, emiliano d’origine e torinese per cultura ed educazione, sia quello di un uomo pragmatico, addirittura sanguigno in certe passioni, con i piedi ben piantati per terra per retaggio familiare. Nell’adolescenza e nella prima giovinezza, poi, la cultura respirata al liceo D’Azeglio e in seguito, da studente universitario, il prestigioso e rigoroso magistero di intellettuali come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, orientarono Messori verso il distacco, il laicismo, l’ironia diffidente e scettica di chi ha ben assimilato la lezione sofisticata sino all’eccesso di pensatori orientati verso l’agnosticismo più rigoroso (e pure, mi si passi l’aggettivo, più spocchioso), quell’agnosticismo tipico di un’élite intellettuale che si voleva rappresentare e proporre anche come élite morale; una cultura che, negli anni liceali e universitari, riusciva a forgiare le sue giovani leve senza mai, e dico mai, affrontare il problema religioso, nominare Gesù Cristo, accennare alla Chiesa e al suo magistero. Cosicché, dopo qualche tempo, il giovane Vittorio, desideroso, a ventitré anni, di trovare un sacerdote che gli faccia da guida dopo la sua conversione, si troverà in grande imbarazzo (non sapendo nemmeno a quale parrocchia formalmente appartenesse il suo quartiere), e solo dopo molti dubbi e perplessità si ricorderà del francescano suo professore di religione alla scuola superiore. In tale prospettiva, comprendiamo fin troppo bene come la testimonianza del cristiano Messori, estraneo alla retorica del volemose bbene, sia importante, perché nel suo carattere schivo, alieno dalle esplosioni emotive ed emozionali, in quello che egli chiama più volte «rispetto umano», in quella sua esigenza di trovare un appiglio razionale alla fede, una guida certa e sicura non basata sull’emotività (e che sfocerà nella riscoperta della scommessa di Pascal, cui non a caso è dedicato Ipotesi di Gesù), tanti di noi, e chi scrive in primis, possiamo ritrovarci. Ma, nella produzione messoriana, dopo il primo, celebre, titolo, mi piace ricordare un testo di taglio completamente diverso, ossia quel Miracolo che, uscito poco più di dieci anni fa tra i sorrisetti di una certa presunta élite intellettuale, ricostruiva, con impeccabile documentazione e ricostruzione storica, non una fola popolare, ma la storia di un miracolo avvenuto nella Spagna del XVII secolo, un testo, questo, che per motivi generazionali e anagrafici è stato il primo di Messori che la scrivente abbia letto e che, ancora oggi, mi sentirei di consigliare per comprendere come, in modo didascalicamente perfetto, l’autore divulghi non solo contenuti ineccepibili, ma tratteggi anche un quadro razionale, una visione estremamente chiara, completa e onesta intellettualmente.

La fede è «kérygma»
Il cristiano, infatti, come le pagine di Perché credo non si stancano di ripetere, non è e non può essere nemmeno un credente à la carte, che cioè degli insegnamenti del Magistero sceglie, come sul menu di un ristorante, i piatti graditi, da accettare e cui conformarsi, scartando quelli sgraditi, difficili da mettere in pratica, ostici, affermando, magari con il sorrisetto di chi la sa lunga: «Io credo, ma a modo mio». Portando a esempio non solo un’articolatissima e convincente serie di motivazioni storiche, logiche, razionali, ecclesiali, teologiche, ma anche e soprattutto la sua esperienza di credente, unitamente a quella di tanti altri cristiani, Messori ci ricorda che la fede è anche un kérygma, l’annuncio di quel mistero, del Figlio di Dio incarnatosi, morto e risorto, cui abbandonarsi con slancio e fiducia, senza riserve né paure. In questa accezione comprendiamo bene come l’autore tenga ripetutamente a precisare che, unica fra tutte, il cristianesimo non è una religione esclusiva, ma inclusiva, cioè non una religione dell’aut-aut, ma dell’et-et, in cui quelli che solo apparentemente sono opposti si contemperano. Così capiamo bene non solo il motivo per cui nello studio di Messori svettano i ritratti di due personaggi apparentemente agli antipodi, di Blaise Pascal e di santa Bernadette Soubirous, del matematico e filosofo geniale, nobile e di raffinata educazione, e della veggente di Lourdes, pastorella analfabeta che si imponeva come penitenza e mortificazione – dato che non aveva mai imparato a leggere e scrivere correttamente – le poche letture devozionali che la Regola del suo ordine monastico imponeva. Vittorio Messori – ed è un ulteriore grande merito di questo libro – ribadisce anche come la dimensione di accettazione intima e profonda della morte e risurrezione di Cristo, dato comprovato e reale, non pia superstizione devozionale, sia il cuore del cristianesimo e, non a caso, il racconto della radicale metanoia, della conversione del brillante studente di Scienze Politiche, mette al centro di tutto proprio la scoperta di Gesù, cui egli dodici anni dopo dedicherà il suo primo libro, mentre quello dedicato a sua Madre, Ipotesi su Maria, sarà di trent’anni successivo.

La tradizione apologetica
Proprio a demistificare alcuni clamorosi fraintendimenti circolanti anche fra persone colte e benintenzionate, è dedicato un buon numero di pagine del presente volume (che, a loro volta, rimandano ai due libri – inchiesta pubblicati da Messori sul Mistero pasquale, Patì sotto Ponzio Pilato? e Dicono che è risorto). E che ci sia parecchia confusione su questo punto è un dato di fatto, testimoniato anche dalle parole del card. Carlo Maria Martini, il quale, prima di essere nominato arcivescovo di Milano, era già annoverato fra i biblisti di maggior prestigio: «Ebbene», scrive Messori, «quest’uomo, noto con la sua cultura, e apprezzato da molti anche per le sue “aperture”, ha scritto: “ Stiamoci attenti, perché non è mai esistito un cristianesimo primitivo che abbia affermato come primo messaggio: “Amiamoci gli uni gli altri”, “Siamo tutti fratelli”, “Dio è Padre di tutti”, “Impegnatevi per la pace e l’eguaglianza tra gli uomini” e cose del genere. È dal messaggio “Gesù ha patito, è morto ed è davvero risorto” che deriva tutto il resto» (p. 314). D’altronde è Paolo stesso a testimoniare ai Corinzi come tutta la fede si basi su questo, al punto da affermare che «Se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede [... ] se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati». Sono, queste, pagine appassionate e dalla articolazione serratissima, che a chi scrive hanno richiamato alla memoria un aneddoto narrato dal cardinal Biffi, il quale, non ancora elevato agli onori della porpora, aveva scoperto come una coppia di suoi parrocchiani, credenti e molto praticanti, fosse rimasta gioiosamente basita di fronte alla precisazione, troppo spesso non sufficientemente ribadita, che i riti cattolici non sono il ricordo devoto di eventi verificatisi in un luogo e in un tempo lontani, ma che Cristo è realmente vivo e presente nell’Eucaristia, vivo e presente nella storia e premurosamente ancora vivo accanto al suo gregge. Dunque, il cristianesimo, ribadisce Messori con inesausto vigore, non è vero perché il fondatore parlava bene o fosse, per usare le parole di Renan, «un saggio soave e incomparabile», ma perché Gesù, dopo un’esecuzione capitale, uscì nuovamente vivo dal sepolcro e per quaranta giorni rimase fra i suoi discepoli, i quali ben sapevano che non si era trattata di una morte apparente, conversando e mangiando, per ribadire con questi suoi gesti l’evidenza dei fatti, un’evidenza tanto più forte quanto più, in tutta la tradizione cristiana, vediamo ribadita l’importanza del vedere e del toccare, testimoniata, come ricorda Messori, dall’Eucaristia stessa come pure da tanti altri gesti concreti, come quello che accompagna la consacrazione di sacerdoti e vescovi. E proprio qui sta il valore di Perché credo, nello sforzo apologetico che riconnette Messori con la grande tradizione delle origini, da Minucio Felice a Tertulliano in poi. Qui, però, interlocutore non è più il paganesimo imperante, bensì la tentazione insidiosa del relativismo e del pensiero debole, trionfanti negli ultimi decenni; e se Tertulliano, davanti ai cristiani, amava sottolineare, quasi con compiacimento, l’irrazionalità della fede, secondo i princìpi del famoso credo quia absurdum, rivolgendosi ai pagani, invece, dava un’alta valutazione della capacità di conoscenza razionale naturalmente posseduta dall’anima (così afferma, con obiettività scientifica inappuntabile, non una Storia della letteratura cristiana antica di taglio confessionale, ma, si noti bene, la laicissima e giustamente lodatissima Storia della letteratura latina di uno dei massimi latinisti viventi, il tedesco von Albrecht). Messori, dunque, accoglie le due componenti della Rivelazione cristiana, in perfetto accordo con la Tradizione, cui, con la saggezza e la moderazione che gli sono consone, rende più volte esplicitamente omaggio in questo suo raccomandabilissimo volume, che può annoverare tra le sue qualità anche la grande piacevolezza stilistica, dote capace di rendere la lettura di queste pagine prima invitante e poi avvincente.

© Studi Cattolici

Quando il Figlio dell'uomo tornerà troverà la fede sulla terra? Anche la pedofilia è figlia della crisi di fede

Ancora una volta il Santo Padre sottolinea il vero, grande, cruciale problema che affligge la Chiesa: la mancanza di fede. Sul Comunicato reso pubblico questo mattina al termine dell'incontro del Santo Padre Benedetto XVI con i Vescovi della Conferenza Episcopale Irlandese, si legge: "Il Papa ha fatto riferimento alla crisi della fede, più generalizzata, che colpisce la Chiesa, collegandola alla mancanza di rispetto per la persona umana e all'affievolimento della fede che è stato un significativo fattore nel contribuire al fenomeno degli abusi sui minori".
I titoli dei giornali, come al solito, bucano la notizia essendo tutti orientati sulla parte del Comunicato riguardante la denuncia della pedofilia da parte del Papa. Il che è più preoccupante perchè appare chiaro che, secondo le parole del Santo Padre, o si affronta "l'attuale crisi con onestà e coraggio" nel " rinnovamento della fede in Cristo", o la Chiesa perderà "la credibilità spirituale e morale". Onestà e coraggio non significano solo riconoscere le colpe e collaborare con la giustizia, secondo lo schema tutto mondano proposto dai media. Se questo bastasse, in quanto a pedofilia si dovrebbe star molto meglio fuori della Chiesa, dove regna il giustizialismo senza se e senza ma nei confronti degli orchi, spesso prendendo sonori abbagli, questi sì non riconosciuti pubblicamente dopo aver distrutto esistenze innocenti, anche di molti presbiteri. Ma forse è pur questo comprensibile secondo la logica del mondo, visto il clima. Il punto è che carcere e castrazione chimica non risolvono il problema. Ed il Papa lo sa molto bene.
La "mancanza di fede ha contribuito al fenomeno degli abusi". Senza fede si annebbia la vista del cuore e della ragione e non si riesce più a riconoscere la dignità della persona umana. Facendo salve le patologie che debbono essere curate o tenute a freno, la questione è di gran lunga più generale e coinvolge anche tante anime belle che mentre si scagliano contro la Chiesa compromessa con le sue cosiddette mele marce, esaltano lolite e sesso libero anche per le adolescenti, e polverizzano la dignità della persona legalizzando aborto, selezione eugenetica, eutanasia, pillole del giorno dopo come semplici anticoncezionali e molto altro. Se la fede scricchiola non si vede più Dio da nessuna parte, nella nostra stessa vita e in quella di chi ci è vicino, addirittura di chi ci è nato dentro, in quel grumo di cellule che è il cosiddetto prodotto del concepimento. Senza uno sguardo di fede è impossibile il "riconoscimento della dignità umana in quanto diritto inalienabile" perchè esso "trova il suo fondamento primo in quella legge non scritta da mano d’uomo, ma iscritta da Dio Creatore nel cuore dell’uomo.... E’ necessario, pertanto, ripetere con fermezza che non esiste una comprensione della dignità umana legata soltanto ad elementi esterni quali il progresso della scienza, la gradualità nella formazione della vita umana o il facile pietismo dinanzi a situazioni limite. Quando si invoca il rispetto per la dignità della persona è fondamentale che esso sia pieno, totale e senza vincoli, tranne quelli del riconoscere di trovarsi sempre dinanzi a una vita umana..." perchè "fin dal primo istante, la vita dell’uomo è caratterizzata dall’essere vita umana e per questo portatrice sempre, dovunque e nonostante tutto, di dignità propria" (cfr Benedetto XVI, Udienza i partecipanti alla XVI Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, 12 febbraio 2010).
Ma la crisi di fede riguarda anche la Chiesa. Senza di essa tutto diviene moralismo, legalismo, efficientismo, sentimentalismo; i criteri mondani si impongono nella guida della Chiesa, nelle Diocesi come nelle parrocchie, nei diversi Istituti e nelle diverse attività caritative, come ha recentemente sottolineato il Papa ai seminaristi e durante la visita all'Ostello della Caritas. Ma quale fede è oggi in crisi? Si tratta di quella vissuta che diviene dinamica esistenziale riverberando la luce pasquale su ogni pensiero, parola e gesto. La fede adulta che riconosce in ogni evento ed in ogni persona il tratto inconfondibile dell'amore misericordioso di Dio. La fede che intercetta il Mistero Pasquale del Signore incastonato nella storia, e spinge la Chiesa sui sentieri della speranza dinnanzi ad ogni situazione, anche la più drammatica e senza alcun sbocco apparente. La fede che apre il cuore alla carità di Cristo che "urget nos" e scioglie i cristiani da una vita avvitata nell'egoismo per farli vivere per Colui che è morto e risorto per loro. La fede che vede Cristo ovunque e in ogni istante e che, con Lui, brucia di zelo per la salvezza delle anime. La fede che getta la Chiesa sino ai confini della terra sui sentieri dell'annuncio del Vangelo. La fede che incide nei cuori la certezza che Cristo è risorto e vivo ed è ogni giorno con i suoi apostoli sino alla fine del mondo.
La crisi di fede ha spento tutto ciò creando le premesse per la secolarizzazione e la mondanizzazione che, alla fine, genera e protegge mostri. Il sale se perde il sapore non serve ad altro che ad essere gettato via e calpestato. Per questo, nelle parole del Papa ai Vescovi irlandesi, ascoltiamo chiara l'eco delle tremende parole del Signore: "Quando il Figlio dell'uomo verrà troverà la fede sulla terra?". In fondo è questo il compito affidato al Papa e alla Chiesa intera: custodire fedelmente il deposito della fede, che non è solo un affastellamento di dogmi e articoli del credo, ma è cosa viva, la Grazia di una Vita nuova e celeste che si incarna nelle esistenze dei cristiani. Affrontare la crisi con coraggio ed onestà è allora innanzi tutto prendere coscienza della "necessità di una riflessione teologica più profonda sull'intera questione" che parta dal riconoscersi mancanti ed in errore, e che conduca la Chiesa a ricominciare a preoccuparsi della fede, in una seria formazione, dei presbiteri come dei laici. Benedetto XVI infatti "ha richiamato l'attenzione sulla necessità di una migliore preparazione umana, spirituale, accademica e pastorale dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa e di quanti sono stati già ordinati e consacrati". Preparazione e formazione permanente nella fede sono dunque il cammino che il Papa ha tracciato alla Chiesa. Perchè il Figlio dell'Uomo tornando tra noi, vi trovi la fede.


Antonello Iapicca Pbro

Il Papa: La crisi della fede che coinvogle la Chiesa alla radice della mancanza di rispetto per la persona e degli abusi sui minori

"Il Santo Padre ha anche fatto riferimento alla crisi della fede, più generalizzata, che colpisce la Chiesa, collegandola alla mancanza di rispetto per la persona umana e all'affievolimento della fede che è stato un significativo fattore nel contribuire al fenomeno degli abusi sui minori. Benedetto XVI ha ribadito la necessità di una più profonda riflessione teologica di tutta la questione, ed ha richiamato l'attenzione sulla necessità di una migliore preparazione umana, spirituale, accademica e pastorale dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa e di quanti sono stati già ordinati e consacrati".

Le fedi risorsa d’Europa. Di Angelo Scola

I l fatto che le religioni siano chiamate a giocare un ruolo nel futuro dell’Europa è la conclu­sione che ognuno può trarre dalla semplice osservazione delle circo­stanze attuali. La presenza di di­verse realtà religiose, penso in pri­mo luogo all’islam, ha contribuito in maniera sostanziale a dimo­strare quanto fossero infondate le previsioni formulate solo qualche decennio fa sull’avvento di « un mondo mondano » . Certo, il mol­tiplicarsi di soggetti e visioni reli­giose a volte radicalmente diverse fra loro e l’affacciarsi sulla scena di nuovi attori hanno suscitato la diffidenza di molti.
Ma non possiamo dimenticare il fatto che nella storia europea le vi­cende religiose, le vicende culturali e socio- politiche si siano mostra­te, al di là delle necessarie distin­zioni, così intrecciate da essere di fatto inscindibili. In Europa oggi prevale un atteggiamento teso ad affermare che il confronto pubbli­co debba necessariamente pre­scindere dalla radice religiosa del­le convin­zioni per­sonali. Ma questo si­gnifica alla fine obbli­gare i cre­denti a comportar­si come se fossero atei e di conse­guenza pri­vare la so­cietà di im­portanti ri­sorse.
Ciò nono­stante alcu­ni pensato­ri di rilievo, quali Ha­bermas, Böckenför­de, Rawls, David Nowak, hanno co­minciato a riconoscere nelle tradi­zioni reli­giose, a partire dal cristianesi­mo, l’espressione di un potenzia­le cognitivo e il riferimento di un impegno civile di cui è impossibi­le non tenere conto. Perché, ed è difficile negarlo, le re­ligioni possiedono la capacità di proporre l’universale in modo concreto: contrariamente a quan­to ha finito per postulare la cultu­ra europea nel corso della moder­nità, i valori non si danno mai in a­stratto ( la stessa Carta dei diritti fondamentali rischia di essere un semplice elenco di proposizioni formali), ma soltanto all’interno di tradizioni vissute. Per cui per e­sempio alcuni assiomi che stanno alla base delle nostra società, pen­so all’idea di libertà o a quella di u­guaglianza, possono ricevere nuo­vo slancio dalla testimonianza di fedeli che li vivono già all’interno della loro stessa esperienza co­munitaria.
Se si prendesse atto di ciò, non so­lo il potere politico giungerebbe al riconoscimento della soggettività pubblica delle religioni, ma le stes­se istituzioni pubbliche promuo­verebbero attivamente un’effettiva libertà religiosa.
Nel corso di alcune mie visite in Paesi del Medio Oriente mi è capi­tato di incontrare realtà in cui cri­stiani e musulmani, sulla base di alcune visioni condivi­se, per esempio la co­stitutiva dignità di ogni uomo, mettono insie­me le loro forze in ope­re
culturali e sociali dai risultati sorprendenti. Penso alla capillare a­zione nei confronti del grande numero di per­sone diversamente abi­li attuata dall’Associazione gior­dana
Our Lady of Peace,
composta da musulmani e cristiani. Se tutto questo avviene in contesti in cui la libertà religiosa non è certo inco­raggiata, immagino quale poten­ziale potrebbe essere espresso in Europa se crescesse un clima sin­ceramente più favorevole al con­fronto reciproco. Ovviamente ciò è possibile a condizione che le re­ligioni abbandonino le auto- in­terpretazioni di tipo privatistico da una parte o fondamentalistico dal­l’altra per creare uno spazio di in­contro reciproco tra di esse e con tutte le altre culture. I n questa luce si comprende perché l’idea di una missione universale dell’Europa sia sem­pre stata cara al cardinal Lustiger, così come al cardinal Ratzinger o­ra papa Benedetto XVI. Ma, come entrambi hanno osservato, tale compito è stato complicato e in parte oscurato dalla vicenda colo­niale dell’Europa, che ha talora portato con sé conquista e sopraf­fazione. Come riproporre allora u­na visione universale in grado di rendere l’Europa significativo at­tore della globalizzazione e nel contempo di preservarla dalla ten­tazione di fagocitare con la sua cul­tura altre realtà? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferimento al singolare rapporto con i beni antropologici, sociali ed ecologici implicati nella rivelazio­ne cristiana ma che possiedono valore universale.
Romano Guardini nel suo breve saggio
Il significato del dogma del Dio trinitario per la vita etica del­la comunità mostra, ad esempio, una decisiva implicazione sociale del mistero trinitario. Proprio per­ché l’Europa ha ricevuto questi be­ni gratuitamente non può consi­derarsene padrona. Essi sono of­ferti dal disegno di un Padre che guida la storia di tutta la famiglia umana. Nessuna realtà, per quan­to raffinata e sviluppata, potrà mai pretendere di esaurire la totalità del reale.
A questo proposito è decisivo quanto Etienne Gilson scriveva nel 1952 proprio a proposito dell’Eu­ropa: « Sarà dotta, ma non sarà la Scienza. Saprà generare la bellez­za, ma non sarà l’Arte. Sarà giusta, ma non sarà il Diritto. E speriamo che sarà cristiana, ma che non sarà la Cristianità». Il suo compito resta quello di offrire al mondo ciò che essa ha ricevuto, di mostrargli, per usare un’espressione del cardinal Lustiger, « una nuova arte di vive­re
» . V olendo fare ricorso a una categoria cristiana potrem­mo dire che la missione propria degli europei è, nel con­fronto constante con le altre cul­ture, testimoniare il perseguimen­to, personale e comunitario, di quella vita buona, fatta come di­ceva Aristotile di filìa , che non può non stare a fondamento dell’edifi­cazione della polis.
Se mantenuto all’interno di queste caratteristiche, l’apporto europeo alla costituzione di un nuovo or­dine mondiale, da tempo auspica­to dal magistero sociale della Chie­sa, potrà essere rilevante: l’Euro­pa potrà coinvolgere tutti i conti­nenti nella pratica di una libera convivenza di cittadini, di corpi in­termedi e di nazioni che diano vi­ta ad una società civile capace di non sacrificare le differenze, ma di esaltarle senza che esse lacerino la sempre più urgente unità tra i po­poli
del pianeta.