GROSSMAN «Un uomo in cerca del volto di Dio»
di Fabrizio Rossi
«Per me è stato proprio come un padre». Fëdor Guber, classe 1931, è entrato in casa di Vasilij Semënovic Grossman quando aveva sei anni. Il suo vero padre era stato arrestato dai sovietici pochi mesi prima, risucchiato nel Grande terrore del 1937. Così Fëdor Guber ha scelto di dedicare tempo ed energia perché sempre più persone conoscano quello che è stato definito «il Tolstoj del Novecento», promuovendo la pubblicazione degli inediti e curando un archivio personale con tutte le edizioni delle sue opere. Per questo, oggi a Milano interverrà al Convegno internazionale “Fiaccole di luce. Uomini giusti in tempi oscuri”, dedicato alle figure di Marek Edelman, Vasilij Grossman e Guelfo Zamboni. Basta sentirlo mentre ripercorre la mattinata del 14 febbraio 1961, quando gli agenti del Kgb portarono via Grossman e ogni traccia del suo capolavoro Vita e destino, per capire che a muoverlo non è sicuramente uno sterile interesse accademico, ma un vero e proprio debito di riconoscenza per «l’uomo che mi ha educato». Irina Novikova, moglie di Fëdor, è rimasta l’unica testimone della requisizione del romanzo: «Vivevamo a Mosca insieme a Grossman - racconta -. Quel giorno ero a casa dal lavoro per curare mia figlia. Alle 11 suonano alla porta: era il Kgb. Mi hanno detto: “Siamo qui per il romanzo”. Hanno ficcato fogli, copie e bobine della macchina da scrivere in dei sacchi. E hanno chiesto a Grossman di seguirli. Pensavo che non l’avrei più rivisto». E invece dopo qualche ora lo scrittore viene rilasciato: «Per la prima volta, anziché l’autore veniva arrestata la sua opera», commenta Guber.
Cosa aveva di così pericoloso un romanzo come Vita e destino?
Raccontava la verità sulla guerra. Evidenziando che comunismo e nazismo sono due facce della stessa medaglia. Solo l’esperienza della Guerra ha messo in luce quest’affinità, descritta nelle pagine del colloquio in lager tra il comandante nazista Liss e il vecchio bolscevico Mostovskoj. Addirittura l’ideologo del partito Michail Suslov, segretario del Comitato Centrale, disse che Vita e destino era «peggio della bomba atomica».
Eppure negli anni ’30 Grossman aveva avuto l’appoggio di Maksim Gor’kij, il “pontefice” della letteratura sovietica...
Ma non è mai stato uno scrittore asservito al regime. Il forte senso di giustizia che aveva ereditato dal padre, un ingegnere socialista, non gliel’avrebbe permesso. E la sua fede giovanile nel progresso portato dal comunismo si è indebolita presto. Tanto che già Za pravoe delo (Per una giusta causa, non pubblicata in italiano; ndr), la prima parte della dilogia completata da Vita e destino, ha ricevuto molte critiche: descriveva la guerra con troppo realismo, non sosteneva il morale della nazione come voleva il regime. Bastava raccontare i fatti, per opporsi al potere.
Secondo lei non c’è alcuna contrapposizione tra Vita e destino e le opere precedenti?
Non credo che Vasilij Semënovic abbia di colpo acquistato la vista, rendendosi conto delle atrocità del totalitarismo. Anche perché proprio mentre nel ’49 ultimava Per una giusta causa, già scriveva le prime parti di Vita e destino. Negli archivi ho visto di persona il faldone con tutte le versioni del romanzo. Già sulla prima cartella era riportato il titolo Vita e destino: secondo il suo disegno, fin da subito si trattava di un’unica opera. Penso che, se avesse potuto pubblicarla interamente, l’avrebbe titolata così.
Cosa ha significato per Grossman l’“arresto” del suo romanzo?
Non riusciva a capacitarsene. Per lui Vita e destino era come un figlio. Arrivò addirittura a scrivere a Krušcëv: «Che senso ha la mia libertà, quando è stata requisita l’opera cui ho dedicato tanti anni della mia vita?». Poi da un giorno all’altro è stato abbandonato da quasi tutti i suoi amici: «Solo pochissime persone non mi hanno rinnegato», diceva. Anche salutarlo per strada poteva essere rischioso.
Quale impatto ha avuto la guerra su Grossman?
Ha trasformato il suo sguardo. Come inviato al fronte per Krasnaja zvezda (Stella rossa; ndr), il giornale dell’Armata Rossa, Grossman ha vissuto in prima persona i mesi terribili della Battaglia di Stalingrado. Ha rischiato ogni giorno la vita per scoprire la verità sulla guerra e, soprattutto, sugli uomini che la combattevano.
In che senso?
Guardava la guerra con gli occhi dei soldati semplici, non dei generali. Si accorgeva dell’unicità di ogni singola vita, al di là del colore dell’uniforme. Per lui non esisteva nulla di più alto dell’umano nell’uomo, perché lì riconosceva la somiglianza con Dio.
Era credente?
No, ma aveva una domanda aperta. Gli interessava il “lato umano” di Dio. Prima che la Madonna Sistina di Raffaello tornasse a Dresda, siamo andati al Museo Puškin di Mosca: Vasilij Semënovic è rimasto in piedi a guardarla per oltre un’ora, per lui era più di un’opera d’arte. E le ha dedicato un bellissimo racconto, in cui ha scritto che la Madonna era con suo figlio nel lager di Treblinka: «Subito non capivo... Era la Madonna che camminava scalza con passo leggero sul suolo pulsante di Treblinka, dal punto di scarico dei convogli alla camera a gas. L’ho riconosciuta dal viso e dagli occhi». Lì ha capito che qualcuno aveva condiviso con l’uomo l’inferno del lager.