La visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, del 17 gennaio 2010, è stata vissuta dai media quasi esclusivamente come evento preparato e accompagnato da polemiche. Si è scrutato con attenzione ogni possibile riferimento alle polemiche a proposito della beatificazione di Papa Pio XII (1939-1958) o della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), uno dei quali – monsignor Richard Williamson – ha espresso simpatia per le posizioni negazioniste sull’Olocausto. Nei mesi passati Benedetto XVI è più volte intervenuto per ribadire sia che Pio XII, una figura santa e a lui particolarmente cara, agì con discrezione ma anche con sapienza ed efficacia per aiutare, nei limiti di quanto era umanamente possibile, gli ebrei minacciati di sterminio dal nazional-socialismo, sia che la revoca delle scomuniche si inquadra nel tentativo di riportare la Fraternità San Pio X alla piena comunione con la Chiesa Cattolica, una questione complessa ma che non ha nulla a che fare con il negazionismo, del resto condannato con parole chiare e forti dallo stesso Pontefice.
L’insistenza di ambienti ebraici – dopo tanti chiarimenti – sulle due tematiche relative a Pio XII e a monsignor Williamson ancora in occasione della visita del 17 gennaio appare, occorre dirlo francamente, come un’ingerenza in affari interni della Chiesa, forse anche sollecitata e istigata da ambienti cattolici ostili a Benedetto XVI e decisi a preservare quella interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II che il regnante Pontefice ha denunciato e condannato come «ermeneutica della discontinuità e della rottura». Da questo punto di vista, davvero di gusto discutibile appare la «difesa» del Concilio da parte del rabbino capo Riccardo Di Segni nel suo indirizzo di saluto al Papa: «Se quel che ha portato il Concilio Vaticano II venisse messo in discussione – ha detto il rabbino – non ci sarebbe più opportunità di dialogo». Ma soprattutto l’insistenza sull’evento rischia di far passare in secondo piano – come spesso accade – l’insegnamento di Benedetto XVI, che ha trattato in sinagoga due temi di grande importanza: un insegnamento che presenta anche qualche elemento di novità.
Il primo tema – che risponde in radice alle polemiche, ma vola più in alto rispetto a ogni giudizio contingente – riguarda le tragedie del XX secolo e le responsabilità per quegli errori e orrori. Il Papa indica con chiarezza da dove è venuto il male: da «ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell'uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo». Richiamando la sua visita ad Auschwitz del 28 maggio 2006, Benedetto XVI riafferma che uccidendo tanti uomini i signori delle ideologie in realtà, e ultimamente, «intendevano uccidere Dio». Non c’è solo, qui, una risposta al giudizio storicamente falso secondo cui l’Olocausto sarebbe una conseguenza dell’antigiudaismo cattolico, mentre è con tutta evidenza il frutto avvelenato di un’ideologia razzista radicalmente anticattolica. C’è molto di più. Le ideologie moderne – il nazional-socialismo che idolatra la razza, ma anche il comunismo che idolatra lo Stato e l’illuminismo laicista che proclama i diritti dell’uomo contro i diritti di Dio – sono segmenti di un processo plurisecolare di allontanamento dalla verità cattolica in cui l’uomo cerca di occupare quel «centro dell’universo» che è invece riservato a Dio. I frutti di questo processo, di cui il nazional-socialismo fa parte senza esserne l’unica manifestazione, non possono che essere odiosi e criminali.
Il secondo tema – e sta qui l’elemento di novità – è la proposta agli ebrei di un cammino di dialogo che non è principalmente teologico ma che parte dalla ragione e dal diritto naturale. I Dieci Comandamenti che gli ebrei e i cristiani hanno in comune sono, certo, rivelati da Dio ma sono accessibili anche alla ragione naturale di ogni persona di retto sentire. Il Decalogo «costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un “grande codice” etico per tutta l'umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’'ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana». La ragione, in particolare, è in grado di riconoscere la verità di aspetti fondamentali del Decalogo oggi particolarmente minacciati: «il rispetto, la protezione della vita» e «la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita». Anche «riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro» – il primo comandamento del Decalogo – è in realtà un traguardo cui la ragione umana è capace di pervenire, così che l’ateismo e il laicismo sono intrinsecamente irragionevoli, e sono anche alle radici degli orrori delle ideologie.