Addirittura già Stalin aveva rivalutato il ruolo della nuova capitale, che rimase autentica sede del dominio «romano» classico fino alle soglie della modernità grazie all’apporto del mondo slavo
di Franco Cardini
È stata sul serio una grande perdita, per la cultura europea, la scomparsa di Évelyne Patlagean, docente di civiltà bizantina all’Università di Parigi X-Nanterre e conoscitrice di finezza impareggiabile del mondo costantinopolitano tra IV e XV secolo. Per lunghi decenni, la signora Patlagean si è battuta con ostinato coraggio contro uno dei peggiori mali della cultura occidentale contemporanea, la scarsa conoscenza del mondo che è ancor purtroppo invalso definire, perfino con una punta di disprezzo, «bizantino»: un aggettivo nel quale, almeno dalla fine dell’Ottocento, si sono riversati illegittimi e ingiustificati connotati calunniosi. «Bizantino», cioè graeculus: sinonimo di decadente, di falso, di corrotto. Invano la cultura euro-orientale, russa e non soltanto, ha reagito sottolineando la profondità dei contatti tra mondo greco e mondo latino durante il medioevo e l’importanza dell’esperienza politica, sociale e culturale della società che guardava alla «Nuova Roma» come faro del mondo mediterraneo e d’una civiltà che non a caso, e non senza ragione, si proclamava universale. Ma, purtroppo, nella stessa Russia la rivoluzione d’ottobre «cancellò» Bisanzio dalla sua memoria storica, nell’intento – non a caso – di cancellare il passato tout court, e fu merito che va riconosciuto al periodo stalinista (e a Stalin in persona) l’averne reimposto lo studio: cosa questa che non fu priva di valore – al contrario! – nelle stesse basi da cui si avviò, a partire dagli Anni Ottanta, l’esplicita ricristianizzazione della Russia stessa.
Perché il fatto è che – e la Patlagean lo ricordava anche valutando adeguatamente il contributo scientifico di un grande studioso russo, il Každan – nella cultura e nello stesso immaginario corrente euroorientali in genere, russi in particolare, mai era venuta meno la coscienza profonda di un fatto che al «nostro occidente» viceversa sfuggiva, fino al venir sospinto nel limbo dell’oblìo quando non, addirittura, della pur improponibile negazione: il fatto evidente e incontrovertibile, cioè, che l’impero «bizantino» altro non fu che l’autentico impero romano, sopravvissuto nella sua pars Orientis dalla fine del IV secolo sin ai primi anni del XIII (quando non addirittura, secondo altri, alla metà del XV).
Ma tutto ciò rende legittima la provocazione della Patlagean, che a un suo libro pubblicato a Parigi nel 2007 e tradotto ora in italiano grazie alla Dedalo di Bari (con una bella Prefazione di Luciano Canfora) ha dato addirittura il titolo di Un Medioevo greco? Va tenuto anzitutto conto del fatto che l’abusata parola «medioevo» non corrisponde affatto a un periodo storico preciso che avvolga, come una specie di fascia cronologica, tutta la storia universale tra V e XV secolo. Quel fin troppo fortunato ancorché discusso termine venne elaborato tra XIV e XVI secolo a indicare una fase specifica della cultura che andava configurandosi come quella «occidentale», tra la fine del mondo romano – quindi, da noi, appunto il V secolo – e la trionfale riscoperta rinascimentale dell’Antichità.
«Medioevo» era non una definizione, bensì semmai una calunniosa antidefinizione: significava «il tempo di mezzo», un tempo «senza qualità», lunghi secoli di barbarie e di superstizione tesi tra due splendide epoche del pensiero umano, l’Età Antica e la Modernità nata richiamando in vita e reinterpretando la precedenza. Nel mezzo, la palude delle invasioni barbariche e dei secoli dominati dalla violenza e magari dall’oscurantismo religioso. Un connotato di fondo su cui tale interpretazione si reggeva era la netta separazione tra il depresso continente europeo e la fiorente cultura bizantina. Ormai, da lungo tempo si è dimostrato che così non fu: non solo Bisanzio, ma anche il mondo arabomusulmano contribuirono potentemente a «rischiarare» le «tenebre» medievali, fino a quella che da Eugenio Garin a Régine Pernoud a Jacques Le Goff si è potuta definire la «luce del medioevo», la grande epoca delle università e delle cattedrali.
Tuttavia, ad onta del riconoscimento di rapporti che fin dall’Alto Medioevo erano stati frequenti e intensi, si riteneva che sotto il profilo politico e civile le esperienze euro-occidentale e bizantina fossero state in effetti molto lontane e, per così dire, inconfrontabili tra loro. Évelyne Patlagean dimostra lucidamente che così non fu. Se le istituzioni dell’Europa occidentale si qualificarono attraverso l’incontro tra la civiltà romana, il cristianesimo e i mondi celtogermanici, quelle bizantine si avvalsero di qualcosa di molto prossimo a ciò, l’incontro con un mondo «barbarico» eurasiatico molto complesso, con elementi germanici ed uraloaltaici, ma in cui molto importante fu l’apporto delle popolazioni slave. Risultato di ciò fu, tra l’altro, il configurarsi di una società molto segnata dai rapporti «di lignaggio» e da quelli fondati sulla fedeltà personale: al di là quindi dell’istituzione della
pronoia, fondata su un assetto che concordemente si valutava come simile a quello vassallaticobeneficiario (cioè «feudale», come noi usiamo dire con una certa approssimazione), il «medioevo greco» ricostruito dalla Patlagean appare singolarmente prossimo a quello latino-germanico, al di là dei rapporti che tra i due mondi furono stretti e frequenti. Una prossimità tipologico-strutturale, che Luciano Canfora richiama sottolineando come già le tesi marxiane parlassero di una «fase feudale» (intermedia tra quella schiavista e quella capitalistica) come caratteristica dello sviluppo della civiltà in quanto tale, e non esclusiva della storia dell’Occidente. Al di là di ciò, appare opportuno l’invito di Canfora, nella Prefazione, a «ricollocare Bisanzio nella storia d’Europa». Non sfuggirà che era esattamente quel che sosteneva Giovanni Paolo II, allorché parlava dei «due polmoni» con i quali la civiltà europea aveva respirato, quello occidentale latino-celto-germanico e quello orientale greco-slavo (con una compresenza, in quest’ultimo, di tradizione cattolica e tradizione ortodossa).
Perché il fatto è che – e la Patlagean lo ricordava anche valutando adeguatamente il contributo scientifico di un grande studioso russo, il Každan – nella cultura e nello stesso immaginario corrente euroorientali in genere, russi in particolare, mai era venuta meno la coscienza profonda di un fatto che al «nostro occidente» viceversa sfuggiva, fino al venir sospinto nel limbo dell’oblìo quando non, addirittura, della pur improponibile negazione: il fatto evidente e incontrovertibile, cioè, che l’impero «bizantino» altro non fu che l’autentico impero romano, sopravvissuto nella sua pars Orientis dalla fine del IV secolo sin ai primi anni del XIII (quando non addirittura, secondo altri, alla metà del XV).
Ma tutto ciò rende legittima la provocazione della Patlagean, che a un suo libro pubblicato a Parigi nel 2007 e tradotto ora in italiano grazie alla Dedalo di Bari (con una bella Prefazione di Luciano Canfora) ha dato addirittura il titolo di Un Medioevo greco? Va tenuto anzitutto conto del fatto che l’abusata parola «medioevo» non corrisponde affatto a un periodo storico preciso che avvolga, come una specie di fascia cronologica, tutta la storia universale tra V e XV secolo. Quel fin troppo fortunato ancorché discusso termine venne elaborato tra XIV e XVI secolo a indicare una fase specifica della cultura che andava configurandosi come quella «occidentale», tra la fine del mondo romano – quindi, da noi, appunto il V secolo – e la trionfale riscoperta rinascimentale dell’Antichità.
«Medioevo» era non una definizione, bensì semmai una calunniosa antidefinizione: significava «il tempo di mezzo», un tempo «senza qualità», lunghi secoli di barbarie e di superstizione tesi tra due splendide epoche del pensiero umano, l’Età Antica e la Modernità nata richiamando in vita e reinterpretando la precedenza. Nel mezzo, la palude delle invasioni barbariche e dei secoli dominati dalla violenza e magari dall’oscurantismo religioso. Un connotato di fondo su cui tale interpretazione si reggeva era la netta separazione tra il depresso continente europeo e la fiorente cultura bizantina. Ormai, da lungo tempo si è dimostrato che così non fu: non solo Bisanzio, ma anche il mondo arabomusulmano contribuirono potentemente a «rischiarare» le «tenebre» medievali, fino a quella che da Eugenio Garin a Régine Pernoud a Jacques Le Goff si è potuta definire la «luce del medioevo», la grande epoca delle università e delle cattedrali.
Tuttavia, ad onta del riconoscimento di rapporti che fin dall’Alto Medioevo erano stati frequenti e intensi, si riteneva che sotto il profilo politico e civile le esperienze euro-occidentale e bizantina fossero state in effetti molto lontane e, per così dire, inconfrontabili tra loro. Évelyne Patlagean dimostra lucidamente che così non fu. Se le istituzioni dell’Europa occidentale si qualificarono attraverso l’incontro tra la civiltà romana, il cristianesimo e i mondi celtogermanici, quelle bizantine si avvalsero di qualcosa di molto prossimo a ciò, l’incontro con un mondo «barbarico» eurasiatico molto complesso, con elementi germanici ed uraloaltaici, ma in cui molto importante fu l’apporto delle popolazioni slave. Risultato di ciò fu, tra l’altro, il configurarsi di una società molto segnata dai rapporti «di lignaggio» e da quelli fondati sulla fedeltà personale: al di là quindi dell’istituzione della
pronoia, fondata su un assetto che concordemente si valutava come simile a quello vassallaticobeneficiario (cioè «feudale», come noi usiamo dire con una certa approssimazione), il «medioevo greco» ricostruito dalla Patlagean appare singolarmente prossimo a quello latino-germanico, al di là dei rapporti che tra i due mondi furono stretti e frequenti. Una prossimità tipologico-strutturale, che Luciano Canfora richiama sottolineando come già le tesi marxiane parlassero di una «fase feudale» (intermedia tra quella schiavista e quella capitalistica) come caratteristica dello sviluppo della civiltà in quanto tale, e non esclusiva della storia dell’Occidente. Al di là di ciò, appare opportuno l’invito di Canfora, nella Prefazione, a «ricollocare Bisanzio nella storia d’Europa». Non sfuggirà che era esattamente quel che sosteneva Giovanni Paolo II, allorché parlava dei «due polmoni» con i quali la civiltà europea aveva respirato, quello occidentale latino-celto-germanico e quello orientale greco-slavo (con una compresenza, in quest’ultimo, di tradizione cattolica e tradizione ortodossa).
Évelyne Patlagean, Un Medioevo greco? Bisanzio tra IX e XV secolo, Dedalo, pp. 480, € 26,00
«Avvenire» del 2 gennaio 2010