Benedetto XVI, con umiltà, dopo una camminata attraverso il ghetto di Roma, entra in uno dei luoghi di preghiera ebraici più illustri nel mondo per ascoltare lodi al suo magistero e critiche prevedibili in un momento non dei più facili nei rapporti tra cristianesimo cattolico e ebraismo. La diplomazia attutisce la forza delle scabrosità e la cortesia riesce a far prevalere il sorriso al disopra di sentimenti che in certe occasioni devono venir repressi.
Il risultato della visita è stato una commovente cerimonia per una visita rappacificatrice del massimo rappresentante del cattolicesimo, in un luogo ebraico dove la più vecchia comunità della diaspora ebraica gli ha voluto porgere un benvenuto rispettoso e cordiale, senza però dimenticare screzi di quasi due millenni di convivenza. All’entrata della sinagoga, dopo un commovente incontro con un quasi 95enne ex-rabbino capo di Roma, Elio Toaff, già amico di papa Vojtyla, un minimo comun denominatore sembrava unire ebrei e gerarchi del Vaticano: le papaline. Quella bianca spiccava sopra quelle cardinalizie e sopra quelle variopinte delle teste degli ebrei romani, ma il significato del simbolo è lo stesso.
Non ci si attendono abbracci, il momento è regolato da un severo protocollo, le parole dei discorsi sono controllate, pur lasciando trasparire i punti di dissenso in una difficile relazione che, nonostante tutto, è rimasta viva nel tempo, ma che col tempo sembra voler migliorare. A volte un gesto è più carico di buone intenzioni che lunghe relazioni interreligiose. E questo gesto di Papa Ratzinger ha marchiato un simbolo di conferma su un processo iniziato in sordina da Giovanni XXIII e continuato dai pontefici dopo di lui. Molto è stato menzionato dal presidente della comunità, Riccardo Pacifici, da dignitari e dal “padrone di casa” Rabbino Di Segni: ricordi di un ghetto di limitazioni, l’atto terroristico al tempio, il silenzio di Pio XII, le persecuzioni attuali di cristiani nel mondo, il fondamentalismo islamico, il non voler dimenticare il giovane soldato rapito in Israele, il non voler pronunciare il nome di Israele sostituendolo con Terra Santa e Terra Promessa, l’attesa dell’apertura degli archivi vaticani, il non poter visionare i libri sacri ebraici di proprietà del Vaticano. Si è insomma voluto compilare una lista che contribuirebbe a una collaborazione tra le due religioni.
Il Papa, nel suo intelligente discorso, ha quasi rincarato la dose menzionando l’indifferenza di molti davanti ai crimini della Germania nazista, un’osservazione quasi autocritica quilibrata dal ricordo del contributo dato da varie istituzioni cattoliche a salvare degli innocenti ebrei dallo sterminio. È un papa che si è avvicinato agli ebrei, definiti come i primi a portare al mondo la parola del Signore con il Decalogo. È un papa che ha chiesto cristiani ed ebrei di pregare lo stesso Dio per una pace vera. È un papa diventato un po’ ebreo, quando in perfetto ebraico ha concluso il suo atteso discorso con un salmo di Davide. Sono incontri, questi che, basati su rispetto, cortesia e buona volontà, sembrano soffiare un alito di speranza su di un mondo che oggi sembra non voler guarire da troppi mali. Per realizzare questo sogno sono necessari emissari di ottimismo basato su conoscenza, realtà e fede. Papa Ratzinger in sinagoga sembra avere il carisma necessario per cambiare questo mondo.
Elio Bollag
Il Giornale del Popolo 18.01.2010