"Tutto posso in colui che mi da forza"
S.Francesca Cabrini
Santa Francesca Saverio Cabrini
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
L'anno giubilare del 2000 non è solamente un tempo a cavallo fra il secondo e il terzo millennio, ma celebra anche il centocinquantesimo anniversario della nascita di Santa Francesca Saverio Cabrini avvenuta a Sant'Angelo in provincia di Lodi e il cinquantesimo anniversario della sua proclamazione a patrona di tutti gli emigranti del mondo (17 settembre 1950) da parte di papa Pio XII, che l'aveva canonizzata nel 1946.
In una biografia della Madre Cabrini, detta «la Santa degli Italiani in America», si leggono testualmente queste parole: «In quell’ 800 americano, madri e nonne, volendo intimorire il proprio frugolino troppo irrequieto, invece di nominare l’orco, gridavano: ‘Ecco un italiano!’ e subito il bimbo correva a cercare riparo nel loro grembo».
Sembra una annotazione di colore, ma sono tra le righe più tristi che siano state scritte sulle tragiche vicende dei nostri emigrati, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni di questo secolo.
È l’epoca in cui i bar delle città americane espongono cartelli per avvertire che l’ingresso è vietato «a negri e italiani», dato che questi ultimi vengono considerati come «negri bianchi».
Tra il 1876 e il 1914 (alle soglie della prima guerra mondiale) emigrarono circa quattordici milioni di italiani, dicono le nostre statistiche; «diciotto milioni!», ribattono i paesi che furono invasi dalle turbe dei nostri poveri. E l’intera popolazione italiana non superava allora i trenta milioni.
Nei testi di storia si parla delle grandi migrazioni dei popoli e dei tempi in cui intere popolazioni venivano ridotte in schiavitù, ma si sorvola sul fatto che in tutto simile fu allora la storia dei nostri emigrati.
Italo Balbo ha scritto che tutti quei nostri connazionali - inghiottiti nelle miniere di carbone, nelle imprese di sterramento per le strade ferrate, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria siderurgica, nei capannoni dell’industria tessile, nei cantieri per la costruzione dei porti, nelle piantagioni di cotone e di tabacco - erano «l’Italia di nessuno», «un popolo anonimo di schiavi bianchi», «materiale umano mercanteggiato a migliaia di capi».
Si calcola che nelle miniere il numero degli italiani superasse, a un certo punto, quello di tutti gli altri immigrati messi assieme. Giungevano a centinaia di migliaia all’anno, insidiati già alla partenza e all’arrivo da loschi procacciatori che ne sfruttavano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventavano letteralmente il materiale umano su cui - come su detriti necessari, ma senza valore - si costruiva la potenza economica americana.
Vivevano in condizioni di incredibile degrado, affollati in alveari umani (fino a ottocento persone stipate in un piccolo edificio di cinque piani), in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche morale. Col loro stesso genere di vita sembravano accreditare l’idea dell’italiano come di un semi-selvaggio, pronto alla rissa e alla violenza.
Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro «piccole italie», quartieri che proliferavano ai margini delle grandi città. E quasi sempre non erano nemmeno «piccole italie», perché i vari campanilismi le frazionavano e mettevano rissosamente i vari gruppi regionali gli uni contro gli altri. I ragazzi crescevano sulle strade. Un destino di strilloni o Iustrascarpe attendeva i bambini (quando non diventavano procacciatori e guide di clienti ai vari bordelli) e spesso un destino ancora più equivoco attendeva le ragazzine. Quand’anche qualcuno li avesse voluti aiutare, l’impossibile comunicazione (quasi tutti erano analfabeti e si esprimevano solo in stretto dialetto) rendeva vano ogni tentativo di solidarietà.
Quelli che riuscivano a far fortuna (e molti cominciarono con negozi di frutta e verdura o organizzandosi in cosche malavitose) si guardavano bene dal mescolarsi con i propri disprezzati connazionali, cercando piuttosto di far dimenticare la comune origine.
Un giorno del 1879 un deputato osò leggere al parlamento italiano la lettera di un colono veneto: «Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici». I politici italiani chiudevano però gli occhi. Affrontavano il problema dell’emigrazione dal punto di vista dell’ordine pubblico, con qualche provvedimento di polizia, ma senza nessuna intelligenza volta a immaginare forme di tutela economica e sociale.
Alcuni anni dopo - quando la Cabrini avrà fatto da sola, per amore di Cristo, quello che l’intero governo non aveva mai saputo fare - i politici, guardando indietro ai loro pseudo-provvedimenti legislativi, confesseranno: «Abbiamo sbagliato tutto».
Nemmeno la Chiesa cattolica d’America poteva fare qualcosa. Allora in tutta New York non vi erano più di venti preti che capissero un po’ di italiano. E, ad aggravare le cose, i nostri emigrati trovarono un costume, ad essi estraneo, che legava la frequenza alla chiesa con l’obbligo, già all’entrata, di contribuire economicamente al sostegno delle attività parrocchiali. Erano già poveri e un simile costume sembrava loro ingiusto (chiamavano quell’elemosina: «la dogana»). Per non dire poi che le sole organizzazioni italiane attive sul posto erano i circoli «Giordano Bruno», che avevano come unica preoccupazione quella di diffondere e mantenere un acceso anticlericalismo.
Così finivano per non andare più in chiesa e per perdere anche gli ultimi brandelli di dignità spirituale e morale.
In Italia il problema era avvertito dal papa Leone XIII (che affrontava il problema anche nella celebre enciclica Rerum novarum) e dal vescovo di Piacenza, Scalabrini, che aveva fondato una congregazione per la cura dei migranti.
Francesca Cabrini era una lodigiana che aveva desiderato fin da bambina la vita missionaria, sognando ad occhi aperti quando in casa il papà leggeva ai figli, nelle lunghe sere, gli Annali della Propagazione della Fede. La piccola sognava allora la Cina misteriosa. Aveva perfino cominciato a non mangiare più dolci, quando s’era convinta che in Cina non ce ne fossero, e doveva dunque prepararsi.
Era divenuta, dopo numerose traversie, fondatrice di una piccola congregazione religiosa con finalità missionarie, un progetto allora strano per un istituto femminile, e si sentiva pronta per dare inizio al suo antico sogno di fanciulla.
Incontrò il vescovo Scalabrini che cercò di farle cambiare idea descrivendole la condizione miseranda degli emigrati in America.
Confusa, Francesca decise di rimettere la decisione al papa Leone XIII, che l’ascoltò a lungo, poi le disse con decisione: «Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!». Fu per lei la parola stessa di Dio che le indicava la Sua volontà.
Aveva 39 anni, era malata ai polmoni e i medici le avevano pronosticato non più di due anni di vita.
Partì con sette compagne; sulla nave, su cui compì il primo viaggio, c’erano in terza classe 900 emigranti.
Giunse a New York alla fine di marzo del 1889, sapendosi attesa dall’arcivescovo Corrigan e da una nobildonna americana (moglie di un conte italiano che era divenuto direttore del Metropolitan Museum of Art); ma i due avevano intanto litigato, per divergenza di vedute e di programmi, e avevano scritto in Italia affinché la partenza delle suore venisse sospesa.
Risultato: nessuno attendeva le suore. Sbarcarono mentre pioveva a dirotto e giunsero, come Dio volle, fradice di pioggia e di stanchezza, alla povera casa dei padri scalabriniani, i quali non sapevano proprio come ospitarle. Finirono in una sordida pensione vicino al quartiere cinese, dove i letti erano così luridi che non ebbero nemmeno il coraggio di coricarsi: restarono a rabbrividire sedute per terra, con le spalle appoggiate al muro.
Quando, a giorno fatto, l’arcivescovo le ricevette, consigliò loro sbrigativamente di tornarsene là da dove erano venute. «Questo mai, Eccellenza - ribatté la Cabrini - Io sono qui per ordine della Santa Sede, e qui devo restare».
Alla fine, e con l’aiuto della contessa, la madre riuscì ad aprire un piccolo educandato per poche orfanelle, che chiamò: «Casa dei santi angeli».
Questo per la contessa. Per obbedire all’arcivescovo, invece, organizzò una grande scuola per i bambini italiani. Era una scuola sui generis. I ragazzi giungevano a decine e decine; non c’era altro luogo per ospitarli che la povera chiesa degli scalabriniani e lì, tra una funzione e l’altra, in spazi ricavati nella cantoria, nella sacrestia, in angoli di chiesa recintati con tende, si costituirono le classi. Le panche servivano da banchi, gli inginocchiatoi da cattedre.
L’insegnamento delle suore cominciava spesso col lavare e pettinare quelle schiere di ragazzini sudici e arruffati. Al pomeriggio c’era la «dottrina», seguita dal gioco in un cortiletto affondato tra case alte e scure.
Nelle ore libere e fino a tardi, la Cabrini percorreva poi le viuzze fangose del quartiere italiano, alla ricerca di quei genitori che altrimenti non avrebbe mai conosciuto.
In un trafiletto del New York Sun, in data 30 giugno 1889, si legge: «In queste ultime settimane, alcune donne, vestite come suore di carità, vanno percorrendo i quartieri italiani del Bend e della Little Italy, arrampicandosi per irte e strette scalinate, scendendo in sporchi scantinati e in certi antri in cui nemmeno i poliziotti di New York osano entrare da soli».
Nonostante l’iniziale aiuto della contessa, il problema principale restava quello del denaro. Le suore si diedero allora a percorrere la città in lungo e in largo per cercare aiuti, rifiutando per principio ogni discriminazione.
In un ambiente dove regnava la divisione (tra gli stessi italiani separati per gruppi di famiglie e di campanili), dove i cattolici irlandesi consideravano gli italiani come neopagani e dove i «nativi» si associavano per organizzare «la protezione etnica», quelle suore si mossero con la dignità e la cordialità dell’amore.
Furono accolte oltre ogni speranza: bottegai d’ogni razza e religione si affacciavano alla porta per chiamarle e riempirle di provviste; uomini d’affari si decisero a staccare qualche assegno; i padroni dei mercati diedero ordini perché nessuno fermasse o maltrattasse quelle suorine coraggiose; perfino un falegname tedesco di religione ebraica cedette gratuitamente i mobili che servivano per arredare scuola e orfanotrofio; i nazionalisti irlandesi esigettero che i poliziotti fermassero il traffico, quando passavano le suore con le loro masserizie, perché «rappresentano il Papa»; e degli sconosciuti in tram mettevano loro in mano furtivamente qualche dollaro.
Intanto la «Casa dei santi angeli» s’era ingrandita e la frequentavano anche bambine negre, cinesi, mulatte.
Il 17 luglio 1889, per le vie di Little Italy sfilò una ordinata processione di trecentocinquanta bambini e bambine: queste con il velo e le coroncine; i ragazzi con il bracciale dell’associazione; a gruppi di trenta, con i loro bravi stendardi di san Luigi, sant’Agnese, sant’Antonio.
Chi ancora ricorda certe processioni che un tempo si tenevano nelle nostre parrocchie, quando le associazioni erano fiorenti, può farsi un’idea della tenerezza di un simile quadro; ma mai potremo immaginare l’impressione di irlandesi e protestanti che vedevano sfilare in silenzio e decoro proprio quei ragazzi che erano abituati a considerare come ladruncoli sporchi e disordinati.
La prima battaglia era vinta, ma si era appena agli inizi.
Nello stesso mese Francesca tornò in Italia, per prendersi cura delle novizie della sua Congregazione. A Roma la raggiunse la notizia che i gesuiti d’America vendevano a buon prezzo una grande tenuta in West Park, sulle sponde dell’Hudson, a 150 miglia da New York.
Tornò con altre sette suore e riuscì a mettere insieme i cinquemila dollari necessari per la caparra. Agli altri diecimila avrebbe pensato Dio. Fondò così la casa di formazione per l’Istituto, un collegio e perfino un ospizio per ragazze affette da tisi, la malattia che allora faceva strage tra i poveri.
La domanda nasce spontanea: ma come faceva a trovare il denaro? Si potrebbero dare mille risposte, fino a raccontare che se un benef attore si decideva a firmarle l’annuale assegno di trecento dollari, Francesca era capace di fermargli la mano sull’ultimo zero, con un sorriso, e poi - come era abituata a fare con i bambini - gli guidava la mano fino a tracciarne ancora uno. Non bisognava forse insegnare la carità come si insegna a leggere e scrivere?
Ma c’è un episodio che è giusto anticipare perché dà la misura del suo stile e della sua fede.
A New Orleans, nel 1892, la Madre incontra un ricchissimo avventuriero siciliano che aveva fatto fortuna con navi, fabbriche di birra, compagnie d’assicurazione, imprese edilizie, ed era proprietario inoltre di circa sedicimila ettari coltivati a cotone e a limoni.
Riassumiamo da una relazione del tempo, riportata nella biografia di G. Dell’Ongaro.
- «La sua visita mi onora, Madre Cabrini, di lei parla ormai tutta l’America. In cosa posso esserle utile?».
- «In niente. Vorrei io essere utile a lei».
- «Io non ho bisogno di nulla. Non chiedo nulla a nessuno, desidero solo che mi lascino fare in pace i miei affari...».
- «Io invece non mi interesso di affari. Ma mi interessa la sua felicità. Mi hanno detto che lei è sposato, da molti anni. Non avete figli però. E triste».
- «Purtroppo è così, mi piacciono i bambini, ma...».
- «Peccato. Proprio peccato. Con tutte queste belle cose, neanche un figlio a cui lasciarle... Si è mai chiesto, lei, il motivo di tanti doni piovutili dal cielo? Un motivo ci deve essere. Sono certa che il Signore ha formulato un bel progetto sul suo conto. Non sa quanta gioia possano dare i bambini!».
A questo punto l’uomo le rivela d’aver pensato qualche volta a una adozione, ma di averci sempre rinunciato per timore di trovarsi in contrasto con la moglie, e conclude:
- «Mi lasci pensare, lasci che ne parli a mia moglie, e se Maria è d’accordo allora la chiamo e lei ci porta il bambino».
- «Il bambino? chi ha parlato di un bambino solo? Perché uno solo?».
- «E quanti me ne vorrebbe dare, Madre?».
- «Cosa ne direbbe di sessantacinque, tanto per incominciare?».
L’uomo d’affari finì per finanziare un intero orfanotrofio. E quando, alcuni anni dopo, questo divenne troppo piccolo, le regalò ancora sessantacinquemila dollari, una cifra enorme per quei tempi.
Fondata la casa di West Park, la Cabrini tornò nuovamente in Italia, dove continuava a dirigere la sua Congregazione missionaria in rapido sviluppo. Vi restò alcuni mesi e ripartì ancora con altre ventotto suore, decisa ad accettare una nuova fondazione in Nicaragua. Aprì così un collegio a Granada che, dopo quattro anni, venne spazzato via da una delle tante rivoluzioni centro-americane.
Da lì passò agli Stati Uniti meridionali dove l’attendeva l’impatto più terribile. In Virginia, Carolina, Louisiana, emigravano numerosi italiani provenienti principalmente dalla Sicilia, che trovavano ad attenderli gente abituata agli odi razziali. La schiavitù era stata abolita ufficialmente solo da trent’anni e gli americani non si intenerivano certo per quei «negri dalla pelle chiara» che erano per loro i nostri emigrati.
Ma i siciliani non erano passivi come i negri. Le cosche mafiose dei fratelli Matranga e dei fratelli Provenzano dominavano e si con-tendevano il «fronte del porto».
Nel 1890 il capo della polizia di New Orleans cadde in un agguato e diciannove italiani vennero incriminati. Non c’erano prove, ma alcuni cronisti, prima che il commissario spirasse all’ospedale, l’avevano udito mormorare: «m’hanno sparato i dagos» (termine dispregiativo per «meridionale»).
Il processo tenne col fiato sospeso la nazione, ma i boss mafiosi, difesi dagli avvocati migliori, vennero tutti assolti nel marzo del 1891.
Ma se avevano abbastanza potere per difendere i loro picciotti dalla giustizia, i boss non ne avevano abbastanza per difenderli dall’odio popolare. Prima che fossero liberati, una folla inferocita di circa diecimila persone, guidata dal vice-sindaco, aggredì le carceri e linciò i prigionieri: due vennero impiccati, due finiti a colpi di spranga, altri abbattuti coi fucili. I corpi vennero appesi agli alberi e ai lampioni.
Quasi metà dei giornali dell’Unione approvò il massacro e la tensione salì al punto che l’Italia ritirò il suo ambasciatore da Washington. In seguito altri linciaggi si ebbero in altre due città della Louisiana.
Nella città di New Orleans, lacerata da questi odi implacabili, Madre Cabrini giungeva il martedì santo del 1892. Comprese subito che bisognava partire dalle nuove generazioni, dare un altro volto e un’altra speranza a quelle torme di ragazzi che aspettavano di ingrossare le schiere della malavita, costringere la città a riconoscere la dignità di quella gente umiliata e temuta.
Le occorrevano almeno un orfanotrofio, una scuola e un convitto. E almeno cinquantamila dollari, per cominciare.
Paradossalmente a New Orleans erano molti gli italiani che avevano fatto fortuna, divenuti capitani d’industria e padroni di aziende; ma non ci tenevano affatto a farsi riconoscere come italiani. Cercavano, anzi, di far dimenticare in ogni modo le proprie origini.
Francesca andò a scovarli uno per uno: il Rocchi, armatore milanese, i bresciani Marinoni, banchieri e proprietari di piantagioni di cotone, il napoletano Astrada, proprietario di famosi ristoranti, l’illustre clinico Formenti, la signora Bacigalupo, grossista di alimentari, i Bevilacqua e Monteleone, negozianti di calzature di lusso, e quel ricchissimo capitano Pizzati, siciliano, di cui abbiamo già parlato.
Sono solo alcuni nomi che abbiamo voluto citare, tra molti altri, proprio perché risuonano ancora nelle nostre terre; quasi tutti com-
presero e apprezzarono l’intento della Cabrini: dimostrare, a quella città che apprezzava l’Italia (la sua musica, i suoi artisti), ma odiava
gli italiani (ritenuti tutti mafiosi o potenziali delinquenti), che il vero problema era il disinteresse sociale in cui tutti quegli adolescenti ve-
nivano lasciati, senza nessuna cura e nessuna protezione.
L’orfanotrofio di Saint Philip Street divenne un centro sociale, sia per i ragazzi che vi erano ospitati, sia per altre centinaia che lo utilizzavano come oratorio, sia perfino per decine di ragazzi di ogni altra razza e colore.
La cappella dell’istituto divenne la chiesa degli italiani e, anche in questo caso, fu una superba e ordinata processione in onore del
Sacro Cuore - di quelle all’antica, che anche gli abitanti di New Orleans amavano molto - a sancire una ritrovata dignità; una processione con molti canti religiosi, e con tanto di «Va’, pensiero» che commosse perfino i bianchi «padroni», anche se in città ormai imperava il jazz.
Per la prima volta sfilavano insieme i circoli, le società, le federazioni e gli altri gruppuscoli in cui gli italiani erano da tempo divisi e lacerati.
Nel 1905 scoppiò in città una epidemia di febbre gialla. Gli immigrati di ogni razza e colore, nella loro ignoranza, rifiutavano medicine, trasgredivano ogni misura di igiene e di prevenzione, non volevano abbandonare case e luoghi infetti. Le suore di Francesca si assunsero il compito - girando casa per casa, rischiando la vita, e sacrificandola davvero in qualche caso - di convincerli di ciò che veniva disposto per il loro bene.
Delle suore tutti si fidavano, e - quando l’epidemia fu vinta – a loro andò il pubblico ringraziamento non solo dell’intera città di New Orleans, ma perfino del governo degli Stati Uniti e di Roma.
Torniamo a New York.
Un settore della vita in cui la tragedia degli emigrati poteva essere quasi toccata con mano era il problema sanitario.
Poiché li consideravano come materiale umano, nessuno si preoccupava molto né di coloro che si ammalavano per le disumane condizioni di vita, né delle vittime di quella che venne chiamata «strage industriale» (centinaia e centinaia di feriti sul lavoro), né del fatto che non esistessero ospedali dove gli emigranti potessero essere accolti.
C’erano sì ospedali a pagamento, ma anche avendone la possibilità economica, nessuno voleva andarci. Quale ne era l’utilità per gli ammalati che non riuscivano nemmeno a farsi capire quando cercavano di spiegare i sintomi del male in quel gergo che mescolava assieme - spesso per assonanza - il dialetto originale e lo slang dei bassifondi americani?
Ai ricoverati sembrava d’entrare prima del tempo in una prigione o in obitorio - tutto era così freddo e asettico! - e spesso perdevano perfino la speranza senza la parola di conforto di una suora o di un prete.
Preferivano morire nelle loro casupole, senza cure né pulizia, ma con un po’ di tenerezza.
Certo, mettendo assieme le forze, gli italiani avrebbero potuto avere un ospedale per loro; lo stesso governo americano li avrebbe aiutati e anche il governo italiano era disposto a fare qualcosa.
I progetti non mancavano, e si può dire che l’argomento fosse di quelli che teneva più banco nei sogni e nelle discussioni di tutti, ma ogni tentativo era miseramente fallito: ci sarebbe voluto un ospedale per i siciliani, uno per i napoletani, uno per i calabresi, uno per i lombardi e via di questo passo. A ognuno importava solo dei suoi corregionali, quando non ci si fermava ai soli compaesani.
A dire il vero, si era riusciti ad aprire un «Ospedale Giuseppe Garibaldi» - nella speranza che l’Eroe dei due mondi mettesse tutti d’accordo - ma il Commissario generale per l’Emigrazione dovette riconoscere, sconfortato, che là dentro «i dottori italiani litigavano dodici mesi all’anno» e i soldi raccolti per mantenere l’ospedale in attività si volatilizzavano inspiegabilmente.
Francesca sentiva, con un certo fastidio, che gli occhi e le speranze si volgevano verso di lei, ma non si sentiva tagliata per quel compito.
D’altronde ne aveva già abbastanza di pensare a scuole e orfanotrofi!
Poi accaddero due episodi che nella sua coscienza lei percepì come due voci - una dalla terra e una dal cielo - che le chiedevano ambedue obbedienza alla volontà di Dio.
La voce terrena le giunse dal racconto di due suore che erano andate a fare una visita all’ospedale cittadino e s’erano sentite chiamare da un ragazzo che, gettato lì da alcuni mesi, s’era messo a piangere sentendole per caso parlare nella sua lingua. Da tre mesi aveva sotto il cuscino una lettera dall’Italia, ma era analfabeta e nessuno gliel’aveva potuta leggere. Anche le suore, del resto, solo con molta fatica, riuscirono a leggere la lettera che annunciava al ragazzo che la mamma, al paese, era morta all’improvviso.
E per tre mesi lui aveva posato il capo su quella notizia che non riusciva a farsi voce.
Francesca pianse a lungo. Poi la notte sognò - e fu la voce proveniente dal cielo - una corsia d’ospedale in cui una dolce e bellissima signora si aggirava tra i letti, con incredibile tenerezza, e accarezzava i malati e rimboccava le coperte. Capì subito, nel sogno (o nella visione, chissà!), che era la Vergine Santa e si precipitò ad aiutarla. Non toccava a lei, la Regina del cielo, fare l’inserviente dei malati! Ma la Madonna - sempre nel sogno - l’aveva guardata con un po’ di tristezza in fondo agli occhi e le aveva detto: «Faccio io quello che non vuoi fare tu!».
La mattina dopo Francesca aveva già deciso di destinare a quel compito dieci delle sue suore.
In un primo tempo cercò di rilevare e far funzionare un ospizio cui avevano già messo mano gli Scalabriniani, ma che navigava in cattive acque.
Quando s’accorse che con quella gestione ci avrebbe rimesso molto denaro, fece un colpo di mano. Affittò due case, comprò alcuni letti, mise le suore all’opera per confezionare dei materassi, e poi trasferì di nascosto i malati (ognuno con le sue posate nascoste sotto le coperte) e qualche flacone di medicinali nella nuova sede. Le suore avrebbero dormito su materassi posti a terra, avvolte nei cappotti.
Cominciò così - nel 1892, centenario della scoperta dell’America - il Columbus Hospital, con due medici americani che prestavano gratuitamente la loro opera, affascinati com’erano dal coraggio di quella donna. Il mantenimento fu sempre più garantito da mille rivoli di carità che Francesca sapeva fare emergere e scorrere senza interruzione, fin quando non vennero anche le sovvenzioni statali.
In pochi anni le cabriniane furono conosciute dovunque come «le suore di Colombo». Nel 1896 si potevano contare seicentoquindici ricoveri gratuiti; nei primi trent’anni di vita l’ospedale si prese cura di circa centocinquantamila ammalati.
«Ma questo è Italia!», esclamò allibito il Commissario del Governo italiano per l’Emigrazione, vedendo il clima meridionale che regnava in quella casa di cura: poi attese che gli presentassero la Madre, con tutto il sussiego di una persona importante, venuta per «rendersi conto della situazione e riferire a chi di dovere».
Restò impressionato dagli occhi penetranti, indagatori, di lei e da una specie di energia indomabile che emanava da quella figura apparentemente fragile. Ma ancor più lo fu quando si sentì dire con una franchezza che non ammetteva replica: «Voi discutete troppo! Non è necessario discutere molto sulla necessità di proteggere gli emigrati: questa protezione bisogna farla! Io non discuto; trovo che un bene dev’essere fatto? Mi metto subito all’opera col mio piccolo istituto e non dispero mai di trovare i mezzi, perché ho fiducia che in un modo o nell’altro li troverò sempre».
Qualche anno dopo lo stesso Commissario, divenuto ormai un amico e un entusiastico ammiratore, le dirà: «Madre Cabrini, fa più lei per gli emigrati italiani che tutto il Ministero degli Esteri messo assieme».
Nel 1903 costruì un altro ospedale a Chicago, adattando un albergo di lusso acquistato per centoventimila dollari, quando era in grado di versarne solo un acconto di diecimila, raccolti tra gli italiani dell’intera città.
Lasciò in mano la ristrutturazione ad alcune sue suore che furono ingannate da impresari senza scrupoli, che le coinvolsero in lavori inutili e malfatti e provocarono debiti paurosi.
Francesca tornò dopo dieci mesi, quando ormai tutto sembrava perduto. Ma lei non si perse d’animo, licenziò imprenditori, architetti, muratori, e si mise a rifare tutto ingaggiando, ai suoi diretti comandi, nuove schiere di muratori, falegnami, idraulici. Si scontrò con le cosche mafiose dell’Illinois: ricevette minacce e avvertimenti. Era d’inverno quando le tagliarono i tubi dell’acqua, sì che il pianterreno si coprì di un tale strato di ghiaccio che ci vollero i picconi per romperlo; le incendiarono gli scantinati, poi minacciarono di far saltare tutto con la dinamite. Quando nessuno ancora se lo aspettava, perché i lavori non erano conclusi, ci trasferì dentro gli infermi:
«Vediamo - disse - se faranno saltare in aria i malati!». La lasciarono stare. Ebbe partita vinta e prima di ripartire poté perfino dettare un regolamento per il servizio interno di medici e infermieri.
Sembrava indistruttibile al punto che le avevano dato l’affettuoso nomignolo di «Suor moto perpetuo».
Un giorno che viaggiava in ferrovia, nel Colorado infestato di banditi, il treno venne attaccato. Un proiettile penetrò nello scompartimento di Francesca e sembrava dirigersi dritto verso di lei, ma deviò senza colpirla: «Non vi colpirebbero neanche se vi sparassero in faccia», le disse ammirato un ferroviere. Ed era proprio l’impressione che dava ogni volta che affrontava una difficoltà o un pericolo.
Dobbiamo rinunciare a raccontare tante storie che colpiscono l’immaginazione solo ad accennarle.
Ecco soltanto alcuni nomi e date principali.
1896: fonda un collegio a Buenos Aires, dove arriva dopo aver attraversato le Ande salendo a dorso di mulo fino ai quattromila metri; 1898: apre tre nuove scuole a New York, un collegio a Parigi e uno a Madrid; 1900: altre fondazioni a Buenos Aires e un collegio a Rosario de Santa Fè; una scuola a Londra e una casa a Denver nel Colorado; 1903: oltre al Columbus Hospital di Chicago, dà inizio a un orfanotrofio a Seattle; 1905: apre un orfanotrofio a Los Angeles; 1907: fonda un collegio a Rio de Janeiro; 1909: apre un altro ospedale a Chicago; 1911: apre una scuola a Philadelphia; 1914: un orfanotrofio a Dobs Feny in New York; 1915: un sanatorio a Seattle. Per non nominare le fondazioni italiane, come l’Istituto Superiore di Magistero a Roma, e un collegio a Genova e a Torino, tra un viaggio e l’altro.
Il tutto, in numeri: trentasette anni di attività con la fondazione di sessantasette istituti; percorrendo quarantatremila miglia per mare (scherzando sulle sue origini contadine, Francesca chiamava l’Atlantico: «la strada dell’orto») e sedicimila per terra.
Ma i numeri nulla dicono ancora dell’ampiezza dell’apostolato delle cabriniane. Basta ricordare che Francesca ne condusse alcune fin dentro le miniere di Denver, a novecento piedi di profondità, preparandole con accorata dolcezza: «Non sarà difficile parlare ai minatori del Paradiso, dato che all’inferno ci sono già!».
E da allora destinerà sempre alcune delle sue figlie al servizio di coloro che erano «senz’aria e senza famiglia».
Come ne condusse altre fino a Sing Sing, dove non pochi condannati italiani - incapaci di difendersi, come i malati di spiegare le loro malattie - si maceravano nell’odio e nella disperazione.
Le suore si preoccuparono soprattutto di mantenere i legami, altrimenti impossibili, tra i prigionieri e le loro famiglie.
E i carcerati piansero quando seppero che Francesca si era disperatamente battuta per ottenere il rinvio dell’esecuzione capitale di un ragazzo, figlio unico, che non voleva morire senza avere rivisto la mamma e senza averle chiesto perdono d’averla abbandonata sola al paese; Francesca l’aveva fatta venire dall’Italia, pagando le spese del lungo viaggio, conducendo con infinita tenerezza quella povera donna avvolta nel suo scialle nero di contadina.
Ci è mancato intanto il tempo di raccontare di che tempra fossero quelle intrepide suorine che la Madre conduceva con sé, a gruppi sempre più folti, ogni volta che tornava da un viaggio in Italia.
Ci basti, per intuirlo, un solo episodio: sul molo, in attesa di imbarcarsi per l’America, una suora spiega piamente ai parenti accorsi a salutarla: «Faccio volentieri questo grave sacrificio di partire per l’America!». Francesca è li accanto e l’interrompe di botto: «Iddio non vuole importi sacrifici così gravi, figliola, resta!». E la sostituì immediatamente con un’altra.
Durezza? No: realismo. Lo stesso realismo che non riteneva nulla impossibile, le diceva che nulla si poteva intraprendere senza una dedizione piena di gioia e senza essere completamente distaccati da sé, anche dai propri vezzi spirituali.
Perciò aveva un sistema pedagogico molto sicuro: «Quando visito qualche nostra casa e vedo delle facce lunghe, e noto una certa aria di abbattimento, di svogliatezza e di malumore, non chiedo all’una o all’altra: ‘Che hai o che non hai?’, metto in piedi qualche opera nuova che obblighi le suore a uscire da se stesse».
Dio solo sa cosa accadrebbe, e come si rinnoverebbero certi istituti, se i rispettivi superiori e superiore trovassero il coraggio di adottare un simile criterio pedagogico!
Ci resta un’ultima cosa da dire. A volte certi «laici» amano ripetere con scherno che «non si governa con i padrenostri», e nemmeno con la «dottrina sociale» della Chiesa.
E tuttavia ci sono pagine di storia in cui la fede e la preghiera si dimostrano capaci di una operosità così concreta e multiforme, di una genialità sociale così sollecita (Sollicitudo rei socialis) e anticipatrice da renderci certi che è proprio la mancanza di preghiera - e più a monte la mancanza di una vera fede - che lascia gli uomini nel più tragico egoismo, proprio quando vogliono governare i loro simili e inventare ricette di progresso sociale.
Un egoismo soprattutto «intellettuale», di una mente cioè inevitabilmente costretta a baloccarsi con se stessa e con i propri pregiudizi, e con il proprio piccolo «partito», per quanta estensione si immagini di dargli. E, per necessaria conseguenza, anche una inevitabile ristrettezza mentale nel comprendere i problemi e nell’affrontare i bisogni, la ristrettezza di una mente priva dell’infinito respiro della preghiera e della fede.
«E troppo piccolo il mondo - diceva Francesca Cabrini - vorrei abbracciarlo tutto!». E non temeva - riesumando certi ricordi di scuola - di confessare: «Non mi darò pace finché sull’Istituto non tramonti mai il sole!».
E tuttavia - con la stessa identica verità - usava dire, come tanti altri Santi prima di lei: «Dio è tutto e io sono nulla».
La differenza - che veniva dai suoi «padrenostri» - era tutta qui: che lei immaginava di portare il suo Istituto in ogni angolo del mondo, fino a che il sole non potesse mai tramontare su di esso, senza mai pensare né a se stessa né ai suoi progetti, ma solo desiderando di fare il possibile perché non ci fosse spazio alcuno dove non splendesse quel Cristo che le struggeva il cuore.
«Gesù - usava ella dire con espressione bellissima - è per noi una beata necessità».
E credeva tutto possibile, perché ripeteva con san Paolo: «Io posso tutto in Colui che mi dà forza!».
Ai cristiani di allora e di oggi ella ricorda: «Senza industriarsi, non si combina mai nulla. Che cosa non fanno i business-men nel mondo degli affari! E perché noi non facciamo almeno altrettanto per gli interessi del nostro amato Gesù?».
Quando, stremata di lavoro e di gioia, morì nel 1917, a Chicago, nell’Ospedale da lei stessa fondato, i nostri emigrati dissero con affetto e infinita riconoscenza che «l’italiano Colombo aveva scoperto l’America, ma solo lei, Francesca, aveva scoperto gli italiani in America».
Santa Francesca Cabrini. Scritti della patrona degli emigranti
MADRE FRANCESCA CABRINI
La fede produce speranza, e la preghiera è appunto la speranza supplichevole. «In te, Domine, speravi, non confundar in eternum». Oh, speranza del cielo, tanto ti ottiene quanto tu attendi e speri. Non stanchiamoci, o figliole, quando a noi pare che le nostre preghiere non ottengano nulla e quando pare che la nostra speranza sia delusa. No, non è mai delusa, ma tutto è disposto dalla sapienza onniveggente di Dio; Egli sa il perché! Confidate contro ogni speranza e non sarete mai confuse… allargate le ali della speranza fiduciosa che rallegra lo spirito, e vivete nella santa letizia del Signore.
(Pensieri)
Ieri sera fummo contristate da un triste incidente: un ministro protestante raccolse quanto più poté signori attorno a sé nel gran salone di prima classe e tenne loro una conferenza, ossia un meeting, come lo chiamano gli inglesi, allo scopo di raccogliere quattrini per le famiglie dei poveri marinai vittime di infortuni. Abbiamo con noi cinque sacerdoti cattolici e molto istruiti, almeno due in tutte le lingue, ma a nessuno venne in mente di fare qualcosa. Io non so come vada la storia, ma fa davvero compassione vedere come sono più zelanti i ministri dei diavolo che non quelli di Cristo. Noi siamo diventati vili, codardi, e tante volte nighittosi, ci lasciamo sorprendere dal rispetto umano e lasciamo di mostrarci veri seguaci di Gesù Cristo in faccia al pubblico. Si sente deridere la virtù e si tace, si sente concultata la verità e si tace; ma, e perché si tace? Perché siamo vili. Oh! abbiamo bisogno di rinnovellare la nostra fede, di riscaldare i nostri cuori ai sublimi principi di nostra Santa Religione, abbiamo bisogno di informarci allo Spirito di Gesù Cristo, e nelle vera carità dei suo Divin Cuore animarci a grande slancio nel pubblicare sempre la verità. Non temiamo d’offendere le persone che ci avvicinano, né di essere loro importuni nel parlare della verità della fede. No, se sapremo informarci alla carità vera, dolce e soave di Gesù Cristo, ma pur forte ed energica, nessuno sarà da noi offeso, ma piuttosto verrà conquiso.
(settembre 1891)
La conversione dei peccatori, la santificazione delle anime non dipende dalla fredda e sterile eloquenza umana e da fronde di fiori di elegante stile e studio ricercato; ma tutto dipende dalla grazia fecondatrice di Gesù Cristo; egli illumina le menti, commuove gli affetti, semina virtù, infervora ad opere sante e perfette. È Gesù che velato nella voce di chi ammaestra con zelo e fede, opera prodigi nelle anime, rinnova miracoli, fa meraviglie. Oh! con quanta sapienza il buon Gesù penetra nel santuario dei cuori umani! Rispetta bensì di tutti la libertà, ma illumina colla verità e colla sua luce divina, commuove ed invita soavemente al premio celeste: sì, è Gesù, o figliuole, il nostro diletto Gesù, che colla sua morte vinse l’inferno ed il peccato, e il celeste Padre gli diede per eredità tutte le genti. Che cosa consolante il pensare che noi e tutta la gente che vorremmo convertire, siamo il regno di Gesù, porzione testamentaria di Gesù, eredità preziosissima di Gesù.
(maggio 1895)
DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII
SULLA FIGURA EROICA DI
SANTA FRANCESCA SAVERIO CABRINI*
Martedì, 9 luglio 1946
Un'eroina dei tempi moderni
Una mirabile epopea di lotte e di vittorie spirituali può ben dirsi, dilette figlie Missionarie del S. Cuore di Gesù, la carriera terrena della vostra Madre Francesca Saverio Cabrini, immagine della donna forte, conquistatrice, con passi arditi ed eroici, del mondo attraverso il corso della sua vita mortale, ed ora esaltata al fastigio della gloria dei Santi quaggiù, ove al nostro occhio non è dato né d'immaginare, né di comprendere lo splendore dei beati nel soggiorno del cielo. Noi la vediamo, questa eroina dei tempi moderni, apparire in mezzo a noi, sorgere come una stella da un umile paese lombardo, elevarsi nella sua luce e varcare gli oceani, spargendo per ogni dove il calore dei suoi raggi, e suscitando intorno a sé la meraviglia dei popoli. Quando Iddio folgora sul mondo i lampi delle gesta dei santi, sceglie qualcuna delle anime riccamente dotate dalla natura, santamente ardenti, non timide dell'altezza della missione a cui le destina; o meglio, — perché questo sarebbe un parlare alla maniera umana, — Egli stesso, nell'arcano consiglio della sua Provvidenza, elargendo loro a profusione i doni della natura e della grazia, le prepara, le forma, le avvia, le illumina, le conforta e le sostiene per farle ministre e collaboratrici dei suoi vasti disegni. Mirate il meraviglioso ardore di natura e di grazia posto da Dio in colui, che doveva essere l'Apostolo e il Dottore delle genti, e che tanto lavorò e si affaticò nella diffusione del Vangelo. Guardate l'altro Apostolo, il Saverio, che la vostra Madre elesse per patrono, assumendone e facendone suo il nome, perché le sembrava di vedere e trovare in lui l'ideale modello della sua vita. Ma concentrate poi il vostro sguardo in lei stessa: quale altezza e forza d'animo! quale elevatezza e comprensione di pensieri! quale insaziabile sete di conquiste ! Quale ricchezza ed estesa generosità di amore verso ogni bisogno dell'umanità! Che facciamo Noi, affermando questo concorso e questa cooperazione dei valori umani e delle aspirazioni della creatura con l'azione e l'opera onnipotente del Creatore? Contraddiciamo forse alla grande disposizione della mente divina, che suole eleggere le cose deboli del mondo per confondere le forti (cfr. 1 Cor. 1, 27)? No; perché le cose deboli e inferme del mondo si mutano e si corroborano sotto la mano di Dio, che talora le occulta, finalmente lavorandole, migliorandole e rinvigorendole. Così avviene che i doni, da Lui nascosti nei suoi eletti, il Signore sembra talvolta renderli infecondi, e quasi rovinati e perduti; quel fuoco, prima acceso nel loro cuore, pare che voglia estinguerlo, privandolo di ogni alimento. Ma non scorgete voi che Colui, il quale ha donato al grano di frumento la sua fecondità, lo seppellisce prima sotterra, ve lo lascia quasi morire, perché poi sorga e riviva in fruttuose spighe dorate? Anche un bel blocco di marmo, ma greggio, scelto per la sua finezza e per la bellezza della sua venatura, l'artista, dopo averlo tagliato, scolpito, apparentemente mutilato, lo pone sulla sommità del tempio a nobile suo ornamento.
Non dissimile è la storia di Francesca Saverio Cabrini.
Trasformazioni spirituali
2. - Forte e soave è il lavorio del Signore nel formare i suoi santi e renderne le anime più conformi che mai alla immagine del Figlio suo (cfr. Rom. 8, 29), incarnatosi per la nostra salute, che non disdegnò i patimenti e i disagi umani fin dalla sua fanciullezza; passando dalla grotta di Betlemme all'Egitto, dall'Egitto al nascondimento nella bottega di Nazareth, pur sempre pensando alle cose del Padre suo celeste, nelle quali conveniva che egli fosse (cfr. Luc. 2, 49). Tale vita nascosta di Cristo non era rinunzia o ritardo dell'opera sua di Maestro di verità e di santità per tutto il genere umano: nell'umiltà e nell'esempio di lavoro dei suoi primi anni era un Maestro silenzioso, non meno grande e divino. A Lui teneva fisso lo sguardo la giovane Francesca Cabrini; e nei primordi delle sue aspirazioni devote, meno generosa e meno umile, avrebbe gridato alto la sua delusione, ma non dubitò di sottomettersi di pieno cuore, con tutto lo slancio della vivace sua natura, a tal segno che, mentre tutto ciò, che era di lei, a mano a mano pareva andasse crollando, tutto ciò, che in lei era di Dio, si purificava, si svolgeva, cresceva e rinvigorendosi predominava.
Nel suo carattere spontaneo e affettuoso, poco è il dire che la morte prematura dei suoi genitori le apriva l'animo a maggior tenerezza in mezzo ai suoi cari ; fa d'uopo però ch'ella nel suo spirito e nella sua natura sia foggiata e plasmata dal cuore senza dubbio amante, ma insieme dalle mani forti e rudi della sua sorella Rosa. L'occhio suo spazia fuori del casolare paterno, sul mondo: ella sogna una vita religiosa dai fervori mistici e un apostolato dai larghi orizzonti; ma alla fanciulla troppo gracile rimane chiusa la Congregazione, che avrebbe meglio corrisposto alle sue aspirazioni, perché tutta dedicata al Cuore appassionatamente amato di Gesù. Conviene invece che entri in un Istituto dallo spirito stretto, dal cuore freddo, senza ordinamento, senza unione, senza carità: nel suo adattarvisi, appare mirabilmente dotata per governare, eroicamente disposta ad obbedire, tanto che l'obbedienza la mette alla testa di quella strana comunità, superiora tiranneggiata e trattata da intrusa. In tale condizione di vita procederà tutta la sua formazione religiosa; ma da questo inverosimile noviziato, sotto la mano di quel Dio che trasforma, perfeziona, assimila a sé e con la sua grazia sublima le anime secondo il suo benigno consiglio, voi vedrete uscire la « piccola donna » dal carattere fortemente temprato. Quale trasformazione spirituale! Ella, che non sapeva se non ubbidire, pregare e tacere, ascoltando quel che dicevano le sue compagne dal cantuccio in cui se ne stava a lavorare; che non osava levar gli occhi da terra per timore di venir meno alla modestia; comprese un giorno che gli occhi era in dovere di tenerli bene aperti per il buon andamento dell'Istituto; e d'allora in poi nulla ebbe più il potere d'intimorirla o di scuoterne i propositi.
Di fatto quale cosa o chi mai potrà farla indietreggiare di un passo nella via da lei intrapresa? Ardire e coraggio, previdenza e vigilanza, avvedutezza e costanza la rendono tetragona in ogni cimento. Contro di lei non valgono a fermarla nel suo avanzamento né le autorità più venerande, ai rifiuti delle quali ella oppone imperturbabilmente la missione o il beneplacito ricevuto dalla S. Sede; né i poteri civili, che si arrendono dinanzi a lei; né gli uomini di legge, ai quali ella tien testa, e di cui sventa i cavilli con la precisione dei suoi contratti e la fermezza delle sue rivendicazioni, né i maestri dell'arte e dei mestieri, architetti, ingegneri, imprenditori e operai, ai quali ella comanda e talvolta le accade di sostituirsi. Le difficoltà economiche non l'arrestano né le scemano l'ardimento. La diffidenza in lei stessa diventa nel suo cuore immensa confidenza in Dio, appoggiata alla quale senz'altri mezzi compra, mobilia, allestisce in ospedali, in collegi, in case di opere, alberghi, palazzi, castelli. Nell'espansione del suo ardore per il bene altrui non dubitò ella forse, con un misero fondo di cassa, di intraprendere coraggiosamente l'istituzione di una scuola popolare per centinaia e centinaia di bambini?
Nemmeno gl'instabili elementi della natura Francesca paventerà : ella, che al ricordo di un incidente occorsole nella sua fanciullezza, tremava. incontrando un rigagnolo d'acqua; ella, che, legata per tradizioni di famiglia al suo paese lombardo, non avrebbe sofferto senza uno sforzo doloroso di perdere di vista la cima del campanile del nativo S. Angelo. Ma la grazia e la vocazione divina vince in lei ogni timore e ogni separazione : eccola che imperterrita attraversa diciannove volte l'oceano, costeggia due volte le sponde del Pacifico, tre volte quelle dell'Atlantico nell'infuriare di terribili tempeste, e non timida degli sconvolgimenti convulsi di un mare, sulle cui onde galleggiano gli avanzi di velieri naufragati, canta le grandezze di Dio nelle opere sue. Voi la vedete percorrere e solcare in tutti i sensi i due emisferi del globo; varcare la Cordigliera delle Ande, e là, in una salita, al cui pericolo tremavano le stesse guide, voi la scorgete provare nella sua natura il primo deliquio, ma non svenire che pochi istanti dopo fatto il salto.
Potente fu in lei il lavorio della grazia, che la fece più che donna, e nei provvidenziali avvenimenti dell'operosissima sua vita volle come richiamare e rinnovare il ricordo dell'Apostolo Paolo, dei suoi naufragi, dei suoi innumerevoli viaggi, coi pericoli dei flutti, pericoli degli assassini, pericoli dei gentili, pericoli nelle città, pericoli nei deserti, pericoli nel mare, con le fatiche e le pene, la fame e la sete, il freddo e il caldo, senza parlare delle quotidiane cure per le sue numerose famiglie e comunità (cfr. 2 Cor. 2, 23-28).
Apostolato prodigioso
3. – Nel succedersi di tante multiformi vicende e imprese della sua vita, Francesca sentì la forza delle trasformazioni, che del suo carattere e del suo temperamento andava facendo lo scalpello di Dio nel sodo marmo della sua persona, per metterne in luce tutti i pregi di virtù e di ricchezze spirituali; trasformazioni che penetravano nell'intimo di lei e delle sue aspirazioni per mutare anche il suo ideale, martellato e variato secondo il disegno divino col cesello delle contraddizioni. Eppure il suo ideale era bello e generoso: essere la missionaria del Cuore di Gesù fra le popolazioni della Cina! Ma davanti agli ostacoli esso non svanirà; si compirà, diventerà più bello e più fulgido, più ampio e potente, senza paragone, di quel ch'era stato concepito dall'inizio. La Provvidenza, che dove accenna il cammino, non sempre avvia, sembra compiacersi di dissipare anche i devoti sogni e le accese brame che il cielo ispira, a quel modo che il sole, procedendo al suo meriggio, discioglie e disperde le rosate nuvole della sua aurora. Francesca aveva sognato tutto l'estremo Oriente. Ma Dio rovesciò i disegni di lei, e tutto l'Occidente, l'estremo Occidente soprattutto, dall'uno all'altro polo, divenne il vastissimo continente del suo apostolato. Nei suoi ardenti sogni ella aveva veduto i pagani della civiltà più antica, adoratori degli idoli, il suo campo di azione sarà invece nel seno della civiltà moderna dell'Europa e ultramoderna delle Americhe, fra i cristiani e particolarmente fra i cristiani indifferenti, adoratori dei beni e dei godimenti materiali. Ivi la gran donna missionaria farà prima presagire, poi conoscere, adorare, amare e servire il Cuore di Gesù, della cui devozione diventa la propagatrice più e meglio di quanto avesse mai pensato, mirando ad essere in ogni luogo la dispensatrice dei suoi benefici, quasi vivo riflesso della bontà di Lui. Il consiglio divino, che la guida, fa di ordini e contrordini, di occasioni, apparentemente fortuite, favorevoli o sfavorevoli, di concorsi che si offrono in aiuto, di ostilità che si oppongono, di miserie che si incontrano, altrettanti interventi provvidenziali, che, mentre ad ogni istante sconcertano e sconvolgono le sue vedute e i suoi disegni, vi sostituiscono opere incomparabilmente più belle e migliori nella loro innumerevole varietà.
Non sembra forse sconcertare ogni nostra aspettazione il contemplare sul principio il suo zelo impaziente confinato fra le quattro mura di una piccola scuola comunale di villaggio? Ma non temete: dalle minime cose cominciano quelle che si fanno della massima grandezza. In quell'umile scuola alla religiosa maestra rifulgeva il lampo dell'educazione della gioventù, che le apriva e illuminava una immensa visione futura e un orizzonte che la conquistava, in cui vedeva sorgere la scuola, l'orfanotrofio, il laboratorio di Codogno, e in Codogno la culla del grande Istituto già disegnato nei consigli divini. Poi la scuola normale per formare e istruire giovani insegnanti, che moltiplicheranno in tal guisa la sua propria azione e quella delle sue figlie. Codogno fu pertanto a Francesca Cabrini e alla sua Congregazione religiosa l'Oriente sognato, che dalla carità di Cristo, ignara di confini e tutto abbracciante, fu cambiato in pensiero a pro dell'Occidente. Mirate l'ardito e operoso volo di tale pensiero, che da Codogno attraversa l'Europa, varca l'Atlantico e va a gente che di là al pari del sole l'aspetta. È un Oriente che spande luce, è un pensiero che si diffonde, è un fiume che straripando riversa le sue acque per ogni via e ogni regione della convivenza sociale. È uno straripamento meraviglioso per ogni forma di scuola e per tutti i gradi d'insegnamento, a Milano, a Roma, con fondazioni che si succedono più o meno dappertutto in Italia. Ma dall'Italia all'America, dopo il suo arrivo, Francesca aspira a ben più larghe e numerose imprese davanti alle colonie degli emigrati italiani, nelle quali le par di vedere altrettante « piccole Italie », dove l'opera dell'educazione non è più bastevole ai bisogni e alle strettezze. Tutti si rivolgono a lei, in cui ammirano il genio cristiano di bontà e di beneficenza: alle chiamate di ogni sorta occorre rispondere con ogni sorta di opere. Ecco allora alle scuole povere, ai collegi di educazione superiore, aggiungersi gli oratori festivi, gli orfanotrofi, poi gli ospedali e le cliniche, quindi l'apostolato delle prigioni, l'apostolato nell'Alasca, e, durante l'altra guerra mondiale, la cura dei soldati e dei feriti, dei quali elle raccoglie le bambine. Quanti viaggi, che per lei diventano missioni, dove il suo zelo semina ed edifica, si espande e arriva con tenerezza alle grandi Dame di Parigi e di Madrid, alle orfanelle povere dell'aristocrazia spagnuola, alle piccole emigrate italiane di Londra, e, come un sorriso dei suoi primi sogni, ai « mosquitos » delle riserve indiane dell'America centrale!
Il suo pensiero giganteggiava nel fare il bene, ma non meno in lei si ampliava, dilatando il suo cuore, la sete delle anime, che una volta fece scrivere alla nostra Santa: « Io sento che il mondo intero è troppo piccolo per soddisfare i miei desideri ». Nel leggere queste parole, Ci son tornate alla mente, per ragioni di contrasto, quelle che Shakespeare mette in bocca a Porzia (The Merchant of Venice, i , 2) : « My little body is a-weary of this great world ». Il mio piccolo corpo è stanco di questo gran mondo! In Francesca si manifesta l'ardore di zelo e di santità, che vuole abbracciare il mondo intero, troppo ristretto per le sue brame; in Porzia è raffigurata la sterile tristezza di molti cuori femminili, che pur in mezzo alla sovrabbondanza delle ricchezze terrene, sentono il tedio del mondo né sanno sollevarsi a maggiori altezze.
Fervori mistici
4. – Oh profani, che non possedete le nozioni delle cose di Dio, non meravigliatevi di vedere questa donna di azione multiforme congiungere alla sua vita esteriore, tanto mossa e operosa, una vita interiore e contemplativa di una rara intensità e fervore. Qui sta veramente il segreto del suo prodigioso apostolato. Infiammata al contatto permanente del Cuore di Gesù, autore della grazia, e del Cuore di Maria, madre di grazia, porta nel suo cuore quel fuoco ardente che non dice mai: « basta » (cfr. Prov. 30, 16), e che fin dalla prima giovinezza la conquistò alla pietà, alla devozione, al servizio di Cristo, cui si dedicò con ammirabile generosità. Divenuta religiosa, il suo intelletto si allargò e distese a nuovi pensieri, e sorpassando tutto ciò che la circondava, concepì nella preghiera quella grande idea, che doveva farla madre di un nuovo consorzio di figlie amanti del Cuore di Gesù. All'orazione aggiungendo lo studio di costituzioni religiose e di insigni opere ascetiche, scrisse la propria regola, nominandola delle Missionarie del S. Cuore di Gesù, titolo che seppe difendere e mantenere con sapiente fermezza. Perché in questo titolo vibrava quello zelo per la salute delle anime, che accendendole il cuore, lo spronava alla preghiera e ad offrire anche ogni sofferenza e patimento e azione in ogni parte del mondo per adunare adoratori fedeli del divin Cuore.
Fra le sue virtù eroiche eroicissima era in lei la carità di Cristo. Il suo cuore, scevro di ogni attaccamento a sé stessa e alle cose del mondo, trovava ogni sua ricchezza e pace e felicità in Cristo, che stava e dimorava nell'anima sua, mentre l'anima sua pur rimaneva nel Cuore di Gesù. Quale intima e sovrumana unione la stringeva al suo Diletto, che adorava sugli altari, esaltandosi come in estatica contemplazione davanti a Lui! A chi la vide parve un serafino del cielo, e che sublimata in Dio non si curasse più di nulla degli affari di questa terra. Di tale amore eucaristico mirò ad accendere le sue figlie, infondendo loro una confidenza illimitata nella potenza del Cuore di Gesù, per trasformarle in anime simili alla sua, e farle obbedienti, tranquille, pronte e preste ad ogni ufficio e fatica, che richiedesse la perfezione dell'opera e della vita religiosa. Nella sua vigilanza di superiora saggia e conoscitrice dei molti rami dell'insegnamento e dei diversi caratteri della gioventù femminile, guidava le direttrici delle scuole, dei collegi e di ogni casa da lei istituita con mano franca, con avvertimenti illuminati, con quella dolcezza e serenità di modi, che fa gradita anche ogni punta di osservazione in apparenza severa.
Mitezza e umiltà di cuore Francesca aveva profondamente apprese dal divin Maestro in quella grande lezione: « Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo alle anime nostre » (Matth. 11, 29). Perciò sul suo stendardo volle scritto : « Imitazione di Cristo ; abnegazione dell'amor proprio; custodia del cuore; i tre sacri vincoli dell'obbedienza, della povertà, della castità ». Così il Cuore di Gesù fu dato da lei alla sua Congregazione come divino modello di perfezione, che deve essere conseguita con le vittorie dell'amor proprio e con la guardia del proprio cuore; e in tale vigilanza sugli affetti e sul trattare anche con le sue figlie, e non solo con le persone esterne, la virtuosa madre sparse per tutta la sua vita in tutte le circostanze, in tutti i luoghi di qua e di là dell'Atlantico, mirabili esempi di virtù, di moderazione e di vigile affabilità. Con quale materna sapienza ammonisse e crescesse non solo fin dal noviziato le sue figlie, ma anche le fanciulle e le studenti delle molteplici e varie sue scuole e collegi, parlano molte sue .lettere e vari suoi scritti, dove la gran donna manifesta in modo vivo il suo animo, la sua prudenza, le sue aspirazioni dì opere e di virtù, i suoi alti propositi nel progresso più ardente di santità religiosa e di azione educativa e benefica, sostenuta come si sentiva da tutta la fiducia del Nostro grande Predecessore Leone XIII, del quale l'esser figlia le dava ogni forza e ardimento e l'assicurazione di avere lo spirito di Dio, come aveva udito da Lui.
Fra le Sante dell'età nostra Francesca Saverio Cabrini grandeggiò non solo per instancabile operosità e beneficenza verso tutti i poveri e gli infelici, ma ancora per tutte quelle virtù che fanno di una Superiora religiosa l'esemplare della sua Congregazione e delle regole da lei dettate per le sue figlie. Maestra come suddita nell'insegnare e nel praticare l'obbedienza, riserbando a sé, quand'era Superiora e comandava alle altre, umilissimi uffici e servigi, amò sommamente la povertà, quella povertà di spirito, a cui Dio suole dare per giunta i beni di questa terra, necessari alla vita per i suoi bisogni di opere e di bene.
La fede, operante per mezzo dell'amore (Gal. 5, 6), nella speranza dell'eterno premio in una vita oltremondana, sempre animò, guidò e sostenne lo spirito di lei nella grandiosa sua attività di Missionaria del Cuore di Gesù, finché questo medesimo Cuore non le concesse di riposare eternamente nelle fiamme del suo divino amore.
Invito celeste
5. – Moriva in America nelle pianure dell'Illinois, presso Chicago, il 22 dicembre 1917, quasi alla vigilia del S. Natale, di quella morte tranquilla e pacifica, senza spasimi di agonia, con cui un repentino invito celeste talvolta nei santi tramuta la terra di esilio nella beatitudine del premio. Francesca non troncava morendo la vita menata quaggiù : quell'unione di spirituale amore incontaminato, che fin dalla giovinezza l'aveva stretta come sposa al Cuore di Gesù, ella la continuò oltre la tomba ai piedi del Re dei secoli, nella gloria della Vergine Immacolata, in mezzo ai Santi, dove si asside celeste patrona della sua e vostra Congregazione, o. dilette figlie, e impetratrice di grazie per voi e per quanti la invocano dall'oriente all'occidente. Figlie di una tal Madre, levate lo sguardo al cielo, contemplatela negli splendori che la circondano, splendori di tutte quelle perfezioni e di quei carismi divini, che voi in lei vivente quaggiù avete ammirati.
Quale più prezioso consiglio potrebbe darvi il Nostro labbro e il Nostro affetto? Guardatela: studiate la via ch'ella ha percorsa per guidare voi quaggiù e avviarvi a seguirla lassù; è la via dello spirito di Dio; Noi la supplichiamo d'impetrarvi questo stesso spirito, d'insegnarvi ad attingerlo in sempre maggior copia alla medesima fonte, il Cuore di Gesù. In quella fonte divina voi ritroverete la vostra Madre e con la vostra Madre il vigore e il coraggio di battere il medesimo sentiero, sul quale ella vi ha lasciato le sante e gloriose sue orme.
Intanto, nella fiducia che questo spirito vi farà proseguire e accrescere l'opera da lei affidatavi in retaggio, impartiamo a voi, dilette figlie, a quante, persone e cose, sono sotto la vostra direzione, ai vostri benefattori e a tutti quelli che vi porgono aiuto e sostegno in tutto il bene che compite nel mondo, con particolare affetto la Nostra paterna Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VIII,
Ottavo anno di Pontificato, 2 marzo 1946 - 1° marzo 1947, pp. 159-168
Tipografia Poliglotta Vaticana