Ogni tanto guardare
lontano assegna una
luce diversa anche alle
cose di casa nostra.
Metti Mu Sochua, una donna
cambogiana di 55 anni che è
stata ministro per gli Affari femminili e
poi, in rotta con il governo, ha ingaggiato
una battaglia legale dopo essere stata
diffamata dal premier, che l’aveva
definita “donna dalle forti gambe”, il che
suona, da queste parti, come un insulto.
Mu Sochua ha perso la causa, uscendone
condannata, ma si sta rifiutando di
pagare la multa che le è stata imposta.
Da ministro, Mu aveva patrocinato una
legge contro la violenza domestica e
condotto campagne contro l’abuso dei
minori e lo sfruttamento delle donne. Mu
Sochua sta facendo campagna elettorale
paese dopo paese per rimediare al
bando di fatto che la esclude dalla
televisione e dalla stampa pro
governativa. Ma, e questo risulta curioso
per noi che ci lamentiamo di vivere
un’eterna campagna elettorale, in
Cambogia mancano tre anni alle
elezioni. E’ uno strano paese, quello che
ho girato per una settimana, con un senso
del tempo tutto suo, che non so se
mettere, banalmente, in relazione con il
buddhismo. Metti l’inaugurazione, alla
fine di dicembre, di un nuovo tratto delle
strade numero 5 e numero 6, costruite
durante la dominazione francese per
congiungere Phnom Penh con la
frontiera thailandese. Cinquemila
abitanti dei villaggi sono accorsi alla
cerimonia inaugurale, sotto a uno
striscione che recitava “Dove ci sono
ponti e strade c’è speranza”. Quando sarà
completata, la strada renderà il viaggio
da Bangkok ai templi di Angkor
un’escursione comoda, e già oggi i tratti
completati hanno sottratto molti villaggi
alla loro sonnolenta economia. Ma la
madre di un giovane motociclista, prima
vittima della nuova strada, dopo aver
tamponato un camion privo di luci
posteriori si è lamentata: “Prima, quando
le strade erano cattive, il mio ragazzo
non guidava così veloce”. Nella
costruzione della nuova strada, che
attraversa l’ultimo bastione dei khmer
rossi e alla fine sarà lunga più di mille
chilometri, gli operai, prima di porre
l’asfalto, hanno dovuto rimuovere i segni
del passato: 300 mine antiuomo e 30 mila
proiettili. Ma anche il passato, essendo
una forma del tempo, è strano, in
Cambogia. Alcuni dei 350 operai erano
ex khmer rossi. E Hun Sen, il primo
ministro che ha celebrato
l’inaugurazione perse un occhio, a fianco
dei khmer rossi, nella presa di Phnom
Penh, salvo distaccarsene due anni dopo,
quando si rese conto della politica
genocida di Pol Pot. Per il viaggiatore è
difficile affrontare la Cambogia
dimenticando quel passato, ma per i
cambogiani lo stesso processo che
trent’anni dopo ha messo alla sbarra i
leader dei khmer rossi sembra un pegno
non appassionante da pagare a un
passato che sarebbe meglio dimenticare.
L’altro giorno, nella remota provincia di
Kampong Thom è morto l’ultimo fratello
di Pol Pot, l’ottantaquattrenne Saloth
Nep, che aveva vissuto da contadino. Ha
la stessa età Ieng Sary, già ministro degli
Esteri dei khmer rossi, e per lui gli
avvocati hanno chiesto gli arresti
domiciliari, per le cattive condizioni di
salute, cosa che si apprestano a fare
anche Khieu Sampan, già presidente
della Kampuchea, e Ieng Thirith, moglie
di Sary e cognata di Pol Pot, già ministro
degli Affari sociali. Forse è la loro età
(Nuon Chea, l’ideologo e braccio destro
di Pol Pot, ha compiuto 83 anni in
carcere), forse il fatto che alcuni hanno
scampato la giustizia terrena: (Ta Mok,
l’ex monaco buddhista che si era
guadagnato il titolo di “macellaio”, è
morto in carcere prima del processo), ma
per noi, usi a vedere nella giustizia un
terreno di lotta politica decisivo,
l’opinione pubblica sembra davvero poco
attenta al lavoro di una corte di cui i
giornali sottolineano che è già costata un
milione e mezzo di dollari. Ho chiesto
come mai, e un cooperante italiano mi ha
detto che forse è la convinzione che i rei
pagheranno i loro misfatti nella prossima
vita. La questione “khmer rossi”, che
massacrarono un quarto della
popolazione cambogiana, sembra
affascinare più gli stranieri: sul
lungofiume di Phnom Penh le agenzie
offrono, insieme con le gite ad Angkor o
ad Ho Chi Minh City, un tour dei Killing
Fields che porta alle fosse comuni di
Choeung e al famigerato centro di
detenzione S21, ora museo del
Genocidio. Alla sera anche il viaggiatore
può coltivare l’oblio sedendo sulla
terrazza del Foreign Corrispondent Club,
bevendo qualcosa e guardando il
Mekong, dopo aver salito le scale con le
foto del passato e l’atrio con i ritratti
della famiglia reale. Che effigiano il re in
carica Norodom Sihamoni, fiancheggiato
dal padre Sihanouk e dalla madre
Monineath. Sihanouk è l’uomo al mondo
che ha ricoperto il maggior numero di
cariche politiche, e che ha avuto pochi
tratti coerenti, oltre all’attaccamento al
potere: la passione per il cinema – decine
di film firmati come regista – per le
donne – sei o sette matrimoni – e, dopo
l’esilio in Nord Corea e a Pechino,
Internet, dove ha un sito personale.
Pochi pericoli di continuismo: la carica
di re è elettiva, Sihamoni è un single, e
per lui le donne sono come sorelle, ha
detto un membro della corte.
Toni Capuozzo
© Copyright Il Foglio 24 febbraio 2010