di Andrea Riccardi
Tratto da Avvenire del 6 febbraio 2010
La guerra tra europei era divenuta mondiale. Le nazioni in lotta, attraverso i combattimenti e la propaganda di guerra, allargavano sempre più il fossato che le separava. Era un fatto incontestabile, rilevabile nel panorama internazionale e nelle varie opinioni pubbliche. Di questa lacerazione risentiva la Chiesa stessa nel suo intimo. La guerra mondiale è un terreno invivibile per la Chiesa cattolica, diffusa in tante e diverse nazioni: conduce lo stesso cattolicesimo a una lacerazione interna. Infatti, quella Chiesa cattolica, che Benedetto XV guidava da Roma (dietro le mura vaticane, protetto dalla fragile legge delle Guarentigie, non accettata dalla Santa Sede), soffriva proprio la divisione tra i diversi cattolicesimi nazionali coinvolti nel conflitto, l’uno contro l’altro.
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era – in un certo senso – un’internazionale, una realtà globale. Si vede come questa Chiesa «cattolica» si confronti con la fervida adesione dei cattolici alla guerra, con il nazionalismo cattolico dei vari Paesi, con la demonizzazione del nemico, operata anche da cattolici di livello. Il predicatore domenicano padre Sertillanges, nel 1917, dichiarava, in presenza dell’arcivescovo di Parigi, dopo la Nota di papa Benedetto, di non volerne sapere della «sua pace». Infatti, la pace di Benedetto, quella da lui ricercata, non era la vittoria di una parte sull’altra, ma la fondazione di un ordine internazionale giusto e stabile, operata anche attraverso il riconoscimento dei diritti e dell’identità delle nazioni, che fino allora erano state conculcate. È una pace perseguita non attraverso le armi, ma con il negoziato e il dialogo.
I nazionalismi lacerano la Chiesa stessa, che è per sua natura soprannazionale. I nazionalismi isolano la Santa Sede dalle nazioni e talvolta dagli stessi cattolici. Ma l’isolamento non spinge il Papa al silenzio e a una prudente inazione. La lacerazione dell’«internazionale cattolica» si sente particolarmente tra le mura vaticane, dove il Papa, ospite di una capitale in guerra dal 1915, non accetta mai di essere appiattito sulle ragioni di una parte. Non si tratta di tatticismo, ma di una posizione coerente con la missione della Chiesa e del suo stesso ministero, che vuole ricordare alle nazioni in lotta che c’è qualcosa al di là del conflitto. C’è la comune appartenenza alla famiglia dei popoli.
Nel vuoto di una famiglia ormai lacerata, il Papa parla e agisce ricordando che i popoli sono fratelli, che debbono agire come se lo fossero, anche se non si riconoscono come tali. È una posizione impossibile nella logica stringente della politica e della propaganda di guerra. Ma Benedetto XV non abdica a questa visione «imparziale», che gli appare dettata non solo dalla «carità» della Chiesa cattolica, ma dalla natura stessa dell’umanità.
La posizione elaborata da Benedetto XV, nei quattro anni di guerra, rappresenta la «filosofia» a cui si rifà l’azione della Santa Sede durante tutto il Novecento per quel che riguarda la pace e la guerra.
Pio XII, che era stato stretto collaboratore di papa Della Chiesa in posizioni di grande responsabilità, ha sotto gli occhi la vicenda della Chiesa nella prima guerra mondiale, quando fa le sue scelte tra il 1939 e il 1945. Ma la filosofia dell’imparzialità, accompagnata dalla ricerca del dialogo e del negoziato come via d’uscita dalla logica delle armi, unita all’impegno umanitario, restano un riferimento decisivo per l’orientamento del cattolicesimo lungo tutto il Novecento. La «dottrina» di Benedetto XV è un punto di partenza decisivo, tra guerra e pace, anche per la Chiesa di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, di papa Ratzinger, che ha voluto prendere il nome di Benedetto, anche per l’azione di pace condotta dal suo predecessore. Si vede chiaramente l’importanza di questo pontificato come laboratorio di scelte destinate a influenzare la vita della Chiesa per un intero secolo.
Chi conosce sommariamente la figura di papa Della Chiesa potrebbe pensare a una figura «profetica» nel senso di un uomo irruento, interventista, implicato in denunce e condanne. Questa è un’idea di profezia invalsa in un periodo della nostra storia, quello dopo il Vaticano II, ma non è l’unica accezione d’essa. Giacomo Della Chiesa è tutt’altro che un irruento interventista. Ha la formazione e l’esperienza del diplomatico: è un realista, come si vede dalla gestione dei suoi rapporti con l’Italia. Il carattere dell’uomo è quello di un tessitore diplomatico di iniziative: possibili.
È un papa che affascinava il giovane Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Il realismo di papa Benedetto non significa, però, l’accettazione della realtà della guerra o l’andare passivamente a rimorchio dietro alle infiammate opinioni pubbliche nazionaliste. C’è nel Papa una indomita passione per la pace che si esprime anche nella capacità di agire contro corrente, rischiando critiche e isolamento.