Milano. “Quante volte hai sbagliato?”. Il
patriarca Shoichiro Toyoda, 84 anni, davanti
a una platea di 800 manager, puntò
l’indice verso Kazuo Watanabe, l’uomo che
fino a pochi mesi prima sembrava destinato
a raccogliere l’ovazione destinata ai
generali invitti per aver spinto la Toyota
alla testa della classifica mondiale dell’auto.
Il vecchio patriarca non si era accontentato
del cambio della guardia, rimuovendo
il ceo dal suo posto dopo il primo
trimestre in rosso del gruppo. Ma aveva
imposto questa sorta di esecuzione pubblica
a Nagoya, nella fabbrica di mattoni
rossi dove un secolo prima era nato il primo
telaio a legno dell’azienda. “Quest’uomo
– spiegò la sua rabbia in un’intervista
a Bloomberg il vecchio Toyoda – ci ha infilato
sulla stessa strada di Gm: o si cambia
o la Toyota finirà nella polvere come quelli
di Detroit”.
Sono passati solo dieci mesi da quella
mattinata di giugno, giusto alla vigilia dell’incoronazione
di un altro Toyoda, Akio,
alla guida dell’azienda leader delle quattro
ruote. E quel vaticinio di Shoichiro, il
managerpadrone che diede carta bianca a
Taiichi Ohno, il filosofo del sistema di produzione
Toyota, prende corpo all’improvviso.
Nel giro di pochi mesi, anzi settimane,
la regina della qualità a quattro ruote
è finita alla sbarra un po’ ovunque. Prima
i pedali dell’acceleratore montati su 8,1
milioni di vetture vendute in giro per il
pianeta, America e Europa in particolare.
E il presidente Akio, 56 anni, chinando il
capo, si è scusato di fronte ai clienti. I mercati
finanziari hanno perdonato. Poi il colpo
di grazia: le denunce al sistema frenante
del gioiello Prius. Forse, in questo caso,
il guaio non sarebbe così grave (non vediamo
problemi di sicurezza semmai di comodità
di guida, dicono dalla casa) ma il
segretario americano ai Trasporti Ray
LaHood non s’è fatta scappare l’occasione:
“E’ meglio che i proprietari americani di
due milioni di Toyota le portino subito a
riparare. E nel frattempo non le guidino”.
Al di là dei colpi bassi, c’è da chiedersi
però da dove nasca la maledizione che
aleggia su Toyota, la fabbrica di telai convertita
negli anni Trenta in azienda meccanica
che per decenni è stata sinonimo di
qualità totale. A basso prezzo, per giunta.
Ovvero se la maledizione di Shoichiro non
abbia colto nel segno: povera Toyota, accecata
dalla convinzione che, pur di diventare
al più presto il numero uno, si potesse
tradire le origini. La prima risposta
può darla una visita al gigantesco impianto
per i veicoli industriali di San Antonio,
Texas: 1,3 miliardi di investimenti, uno dei
gioielli di Watanabe. Nessun concorrente
ha avuto il coraggio, in questi anni, di mettere
in cantiere un impianto di simili dimensioni,
destinato a riversare sul mercato
250 mila pezzi all’anno in più. Nell’autunno
del 2008, in piena crisi Lehman, il
numero due Mitsuo Kimshitzu parlava ancora
di 9,8 milioni di pezzi venduti entro il
2010, tanti quanti erano necessari per giustificare
la crescita degli impianti Usa.
Quindi troppa produzione, tanto per cominciare.
Errore numero due: Toyota si è
concentrata su vetture più lussuose e costose,
capaci di far guadagnare di più. In
questo modo, altra accusa del patriarca, il
gruppo giapponese ha lasciato spazio ai
nemici più pericolosi e odiati: i coreani di
Hyundai, capaci di copiare, nel bene, i segreti
di quello che fu il miracolo Toyota,
cioè macchine affidabili ma a buon prezzo,
al servizio di clienti che badano al sodo.
Gli stessi coreani – altra critica del patriarca
– hanno avuto mano libera sui mercati
più interessanti: il 55 per cento delle
nuove vendite di Hyundai (in pieno boom
anche negli States) è nei Paesi emergenti
dell’Asia contro il 31 di Toyota. Infine l’accusa
più terribile: non è che gli sforzi siano
andati a detrimento della qualità? Il sospetto
è che qualcosa del genere sia accaduto.
Ovvero che gli sforzi al risparmio di
Watanabe siano finiti a vantaggio delle finanze
Toyota. La sensazione è che sia stata
tradita la filosofia di Taiichi Ohno, il
profeta della lean production basata sui
guadagni di qualità resi possibili dallo spirito
della fabbrica e dall’efficienza del
kanban, il dialogo a distanza che va a ritroso
dal consumatore al cuore della fabbrica,
tagliando i tempi morti: un moto perenne
che coinvolge anche i fornitori, almeno
quelli ammessi (come la bolognese
Marposs) nell’Olimpo dopo una lunga serie
di esami. Almeno così era. Adesso questo
spirito si ritrova in casa Hyundai per la
rabbia degli ex samurai di Toyota che
aspettano di esser guidati alla riscossa da
Akio, il principino che studiò anche in una
scuola di Honolulu negli stessi anni in cui
figurava tra gli iscritti il piccolo Barack
Obama. Non è un compito facile quello
che da meno di un anno compete al pronipote
del fondatore, protagonista di un rally
vincente in Germania alla guida di una
Lexus proprio alla vigilia dell’investitura.
Che destino amaro sarebbe, per uno come
lui, finire vittima di un guasto ai freni.
Ugo Bertone
Il Foglio 5 febbraio 2010