di Christian Rocca
In politica ci sono due cose importanti,
diceva alla fine dell’Ottocento
Mark Hanna, lo stratega del presidente
repubblicano William McKinley:
“La prima sono i soldi e non mi ricordo
quale sia la seconda”. Soldi, soldi,
soldi. In America non è sconveniente
parlare di finanziamenti alla politica,
non è tabù mischiare gli interessi speciali
delle lobby e le regole della democrazia.
Non c’è niente di oscuro,
non c’è niente di illecito, a patto che si
rispettino le leggi e le convenzioni. Gli
intrecci tra partiti e denaro e la regolamentazione
pubblica delle attività
dei gruppi di pressione sono l’essenza
del dibattito politico di Washington,
come sintetizzava felicemente Hanna
con la sua battuta buona ancora oggi.
In America dare soldi ai politici si
fa e si dice, anzi si deve dire, addirittura
conviene dirlo, perché poi si può
anche scaricare dalle tasse. Gli americani
mettono mano al portafoglio e
finanziano politici e magistrati, sceriffi
e difensori civici con dieci, cento,
mille dollari, massimo 2.300 dollari
l’anno a candidato, una o più volte
l’anno, motivati dalle proprie passioni,
dagli eventi della campagna elettorale
e dalle emozioni che i candidati
sono capaci di suscitare. Le grandi
corporation, i sindacati, i gruppi di interesse
contribuiscono ai costi della
politica attraverso i Pac, i Political action
committee, i comitati di azione
politica che ricevono, raccolgono e gestiscono
denaro versato dai manager e
dagli azionisti delle aziende e dagli
iscritti alle union sindacali (massimo
5 mila dollari l’anno per ogni candidato,
14 mila dollari a partito).
Spesso l’esito della lotta democratica
è deciso dai politici, e dalle lobby,
che riescono ad accumulare più denaro
degli avversari. Per questo motivo
non è raro che gli incumbent, i deputati
e i senatori in carica, siano rieletti
senza avversari seri a contendergli
il seggio, proprio perché le loro capacità
di fundraising – perfezionate
negli anni di lavoro fianco a fianco
con le lobby registrate a Washington –
diventano un ostacolo insuperabile
per un candidato alternativo, a meno
che non sia egli stesso un miliardario.
I critici del sistema americano sostengono
che quella statunitense sia
una democrazia in vendita al miglior
offerente, una partita truccata dove
vince chi gioca con la squadra più ricca
e si avvale degli interessi speciali
più invadenti. In realtà queste critiche
non tengono conto che gli interessi
sono sempre contrapposti, che se
c’è qualcuno che si impegna a favore
di un candidato o di una legge, c’è anche
qualcun altro che investe denaro
sulla posizione alternativa. Questo
scontro di interessi contrapposti si è
visto bene nei mesi della contrattazione
politica sulla riforma sanitaria. Le
tv americane sono state inondate da
spot finanziati da sindacati, aziende
farmacologiche e compagnie assicurative,
le une a favore e le altre contrarie
alle proposte di Barack Obama.
A fare la differenza, in generale, è
la trasparenza del processo di finanziamento
della politica, la responsabilità
degli attori in campo, il senso di
comunità degli americani e la partecipazione
attiva dei cittadini e delle
aziende private in quasi tutte le articolazioni
sociali del paese, dalla beneficenza
all’assistenza. Alla fine il sistema
funziona, viceversa uno come
Barack Obama o come lo sconosciuto
repubblicano nel seggio dei Kennedy
non avrebbero mai potuto vincere
contro macchine di raccolta fondi
oliatissime e candidati ricchi e favoriti.
E’ un sistema, piuttosto, capace di
essere preso a modello da grandi e
piccole democrazie di tutto il mondo,
come dimostrano le recenti proposte
italiane del presidente della Camera
Gianfranco Fini.
Non tutto è permesso, però. Ci sono,
anzi c’erano, numerosi limiti stabiliti
da norme, sentenze e più recentemente
anche dalla legge bipartisan
McCain-Feingold che nel 2002 ha regolamentato
il finanziamento privato
alla politica e vietato l’intervento diretto
delle grandi corporation. Le regole
più rigide sono state spazzate via
a fine gennaio dalla Corte suprema
con una decisione controversa votata
da cinque giudici e a cui si sono opposti
in quattro. Secondo la maggioranza
dei giudici dell’Alta corte, queste regole
limitative violavano il diritto costituzionale
al free speech, alla libertà
di parola.
In America, dunque, dare soldi alla
politica non è solo un elemento fondamentale
del processo democratico,
non è soltanto incentivato dalle leggi
e dal fisco, addirittura secondo la Corte
suprema è l’espressione più piena
del diritto alla libertà di parola garantita
dal primo emendamento della
Costituzione.
I giudici supremi, cancellando una
legge di 63 anni fa e una serie di precedenti
sentenze della Corte, hanno
stabilito che le imprese e i sindacati
possono spendere liberamente nelle
campagne elettorali, possono usare
tutti i soldi che vogliono a favore o
contro questo o quel candidato, anche
se solo indirettamente. Secondo i cinque
giudici della maggioranza, impedirlo
sarebbe censura, limitazione anticostituzionale
del diritto di espressione.
Secondo il giudice che ha scritto
la dissenting opinion per conto dei
quattro colleghi di minoranza, la sentenza
della Corte minaccia invece di
mettere a repentaglio l’integrità delle
istituzioni e del processo elettorale.
Dopo la sentenza, le aziende e i sindacati
continueranno a non poter donare
direttamente ai candidati, ma
potranno condurre campagne autonome
a sostegno di qualcuno, comprare
spazi pubblicitari e sostenere indirettamente
una causa, un candidato, un’iniziativa
anche negli ultimi trenta
giorni di campagna elettorale.
Tutte le elezioni americane, locali,
federali e presidenziali, ruotano intorno
a una montagna di dollari e alla
capacità di raccoglierli alla luce del
sole. Chi sgarra ha chiuso con la politica.
La straordinaria campagna elettorale
di Barack Obama ha potuto certamente
contare su un formidabile
candidato e su un altrettanto efficace
messaggio politico che lo accompagnava,
ma non avrebbe potuto ottenere
il successo che ha avuto senza quei
730 milioni di dollari raccolti in poco
meno di due anni. Il suo avversario, il
repubblicano John McCain, ne ha raccolti
soltanto 284. Il repubblicano, al
contrario di Obama, ha mantenuto la
promessa di accettare per gli ultimi
due mesi di campagna elettorale gli 84
milioni di finanziamento pubblico
versati dai contribuenti che hanno devoluto
al sistema tre dollari attraverso
le dichiarazioni dei redditi. Lo stato
federale assegna questa cifra ai candidati
presidenziali in cambio della
rinuncia alla raccolta di ulteriori fondi
e, quindi, di una limitazione delle
spese. Obama ha detto di no ai soldi
pubblici, malgrado avesse promesso
che li avrebbe accettati.
Il finanziamento pubblico è stato
istituito nel 1974 per morigerare i costi
delle campagne elettorali e da allora
è un pilastro della politica americana.
Nessuno prima di Obama,
nemmeno George W. Bush, aveva mai
avuto il coraggio di rinunciarvi. Obama
ha detto di no perché si è accorto
che avrebbe potuto raccogliere, e
quindi spendere, molti più soldi di
quanti gliene offrivano lo stato e gli
suggerivano le sue convinzioni etiche
e politiche.
La bravura di Obama è stata anche
di riuscire a far credere che la sua
campagna di autofinanziamento fosse
dovuta in gran parte all’entusiasmo di
milioni di piccoli contribuenti, di singoli
militanti che hanno versato meno
di duecento dollari durante l’anno
delle elezioni. Alla fine del ciclo elettorale,
quando sono usciti i dati definitivi,
si è scoperto che non era vero:
soltanto il 26 per cento del totale dei
finanziamenti di Obama è arrivato da
piccoli contribuenti. Nel 2004, per Bush
erano stati il 24 per cento, per
Kerry il 20. Nel 2008, per il repubblicano
McCain sono stati il 21 per cento.
Non c’è dubbio, però, che il candidato
Obama sia riuscito a creare su Internet
una formidabile catena di S.
Antonio elettronica che gli ha assicurato
un elenco di sostenitori motivati
e pronti a versare anche dieci o venti
dollari ogni volta che il quartier generale
della campagna glielo chiedeva.
Con quei primi soldi, Obama è riuscito
a costruire un modello alternativo
alla potente macchina da guerra clintoniana
alle primarie, avviando il lavoro
del suo staff in ciascuno dei cinquanta
stati dell’Unione e puntando
tutta la posta sul caucus dell’Iowa. I
Clinton si sono affidati per lo più ai
grandi sostenitori del partito, quelli
capaci di raccogliere molti assegni da
2.300 dollari ciascuno da amici e conoscenti
e poi girarli alla candidata
favorita per le elezioni.
L’innovazione tecnologica portata
da Obama ha destabilizzato il piano di
Clinton. Obama, infatti, è riuscito a
trasportare in politica il modello di
network sociale che ha fatto la fortuna
dei siti come Facebook e MySpace.
Nel pieno dello scontro elettorale, i
gruppi tematici o locali, spontanei e
autofinanziati, erano quasi 10 mila.
Un milione di militanti e di piccoli finanziatori
si sono mobilitati per il
candidato e sono rimasti attivi sul
Web, pronti a rispondere alle richieste
del quartier generale di Chicago.
Quando Obama ha rinunciato al finanziamento
pubblico, provocando le
proteste della sua base liberal e perfino
del New York Times, ha cercato
di definire questo nuovo sistema come
“un modello parallelo di finanziamento
pubblico”, visto che i soldi arrivano
dai piccoli versamenti della
gente comune. I giornali hanno rilanciato
il mito dei piccoli versamenti
della gente comune, ma in realtà i
grandi finanzieri di Wall Street e i dirigenti
degli hedge fund hanno sostenuto
a grande maggioranza Obama,
più che il suo avversario repubblicano.
Tradizionalmente Wall Street sta
con i democratici, al contrario delle
industrie petrolifere che preferiscono
i conservatori, ma rispetto all’imprevedibile
McCain il candidato Obama è
stato considerato più malleabile e disponibile.
Una volta alla Casa Bianca,
Obama ha nominato a capo del suo
staff economico Lawrence Summers,
un protégé di Bob Rubin, il guru liberista
clintoniano e garante politico di
Wall Street che poi ha avuto un ruolo
non secondario nel salvataggio pubblico
di Citigroup, il colosso bancario
di cui è diventato presidente quando
ha lasciato il Tesoro di Clinton. Il capo
dello staff della Casa Bianca,
Rahm Emanuel, è un ex banchiere
d’affari e il segretario al Tesoro, Tim
Geithner, ha guidato la Federal Reserve
di New York quando gli istituti
finanziari hanno creato la bolla speculativa
scoppiata un anno e mezzo fa.
Obama, inoltre, ha riconfermato
Ben Bernanke alla Fed e ha perfezionato
con lui il grande bailout finanziario,
il salvataggio delle banche avviato
da Bush dopo il fallimento di
Lehman Brothers. I commentatori più
radicali, nonostante l’innamoramento
nei confronti di Obama, hanno cominciato
ad accusare il presidente di essersi
venduto alle lobby di Wall
Street. La recente svolta populista
contro gli eccessi delle banche è risultata
poco credibile dopo tutto quello
che in questi mesi la Casa Bianca
ha fatto per le banche, anche se potrebbe
aver convinto Wall Street a favorire
i repubblicani al prossimo giro
delle elezioni di metà mandato.
Le grandi aziende e i sindacati finanziano
candidati e politici, ma soprattutto
spendono miliardi di dollari
l’anno per fare pressioni trasparenti e
legali sul Congresso e sulle strutture
federali. La via più comune per influire
sulla gestione della cosa pubblica
in modo da ottenere vantaggi milionari
è quella di affidarsi alle aziende
di lobbying registrate regolarmente
e quasi tutte con sede nella leggendaria
K Street di Washington. In totale
sono 13.415 i lobbyisti iscritti all’albo.
L’altra strada è quella di dotarsi di
una struttura interna di lobbying.
In entrambi i casi un ruolo fondamentale
è ricoperto da ex deputati, ex
senatori ed ex funzionari di governo,
le cui consulenze sono decisive per la
riuscita delle operazioni di lobbying
di un’idea, di un provvedimento, di
una voce di bilancio perché conoscono
meglio di chiunque altro i meccanismi
del Congresso e dell’amministrazione,
capiscono le dinamiche politiche
e possono avere una grande influenza
sugli ex colleghi. Una delle
questioni più controverse della politica
americana, su cui anche nell’era
Obama sono crollate decine di carriere,
è quella delle cosiddette “porte girevoli”
tra politica e lobby, ovvero i casi
di quelle persone che fanno avanti
e indietro tra ruoli di governo e attività
lobbistiche. Nel 1998, secondo i
dati offerti da Open Secrets, la spesa
totale per le operazioni di lobbying è
stata di un miliardo e 440 milioni di
dollari. Nell’anno dell’elezioni di Obama
ha raggiunto i 3 miliardi e 300 milioni.
Al primo anno di Obama si è attestata
su 3 miliardi e 180 milioni.
Il Foglio 5 febbraio 2010