DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Miracolo di sant’Antonio Una folla di fedeli in coda

MARINA CORRADI
L
a carrucola gira cigolando, i cavi d’acciaio si tendono, manovrati con cautela da­gli artieri della Basilica. E lenta­mente, oscillando, la cassa che custodisce i resti di sant’Anto­nio viene issata fuori dal sarco­fago, nella cappella di San Gia­como. Le grosse mani degli ar­tieri la depositano per terra de­licatamente, come fosse la culla di un bambino che dorme. Poi e­straggono l’urna di cristallo: le ossa di sant’Antonio tornano al­la luce. Una frazione di istante di silen­zio nella penombra della cap­pella, tra gli invitati alla trasla­zione delle reliquie che saranno esposte ai fedeli fino a sabato. Ti volti: assiepati attorno all’urna i frati della Basilica, e suore, e le autorità cittadine, e i dipenden­ti del Messaggero di Sant’Anto­nio. Sulle facce ti pare di coglie­re un’ombra di commosso stu­pore davanti a quello scheletro annerito dal tempo, e però per­fetto: era un uomo dunque, sembrano dire, un uomo in car­ne e ossa quel santo di cui già ci parlavano i nostri nonni. Era un uomo, ha vissuto nella carne An­tonio, che ora contempla Dio faccia a faccia.
« O gloriosa fra le vergini » , into­na l’inno mariano, quasi a col­mare l’istante di vertigine in cui il tempo è sembrato annullato: 779 anni dopo la morte, quel fra­te ancora fra la sua gente, a Pa­dova. Certo, ciò che resta di lui: le dita lunghe e sottili con cui sa­nava e assolveva, le ossa delle gambe ispessite dalla lunga abi­tudine a pregare in ginocchio. Ciò che resta: ma è già tanto, per gli uomini, poter vedere e toc­care le reliquie di un santo. Per­ché i cristiani non disdegnano la carne. « La nostra fede – dice entrando nella Basilica padre U­go Sartorio, direttore del
Mes­saggero di Sant’Antonio – si fon­da sulla incarnazione, realtà concreta che non diserta mai la storia » .
E di nuovo l’altra notte la storia di Padova ha incrociato, come a un appuntamento, quella del frate venuto da Lisbona che gua­riva i malati, e faceva parlare i neonati, e inginocchiare una mula davanti all’ostia consacra­ta. La prima ostensione fu nel 1263, la seconda nel 1981, trent’anni fa. ( E si temeva, nel­l’aprire dopo tanti secoli la ba­ra, che le reliquie fossero spari­te, rubate, o che fosse piena so­lo di ceneri. Invece le ossa era­no lì, ben conservate; e anche le cartilagini che reggevano le cor­de vocali; mentre la lingua del predicatore che incantava le fol­le, scoperta intatta nella prima ricognizione da san Bonaventu­ra da Bagnoregio, è da secoli nel­la cappella delle Reliquie).
Sull’urna tornata alla luce si av­ventano i flash dei fotografi e le telecamere. Da dietro, i frati, e soprattutto quelli coi capelli bianchi, la fissano intensamen­te. Uno più vecchio, con la bar­ba canuta, non resiste e si avvi­cina. ( « A gloria di Dio il corpo del servo di Dio viene venerato dai fedeli » , è la parola di sant’A­gostino con cui il superiore dei Frati minori per la provincia pa­tavina, Gianni Cappelletto, ri­corda il senso di questo gesto di fede).
La processione si avvia verso la
cappella delle Reliquie, e l’urna entra nello sfavillio di luce e di o­ri, di angeli di marmo osannan­ti dalle volte. Si recita compieta, e il cantico di Simeone. Poi – è u­na impressione? –, superato il primo sbalordimento, la folla degli invitati ora s’accalca, qua­si preme per avvicinarsi: come quando un vecchio amico torna da lontano, e lo si guarda per un istante increduli prima di get­tarsi ad abbracciarlo. Per primi, i frati si accodano attorno al­l’urna. Gesti senza parole: la len­ta carezza di un frate anziano. Il bacio pudico di un altro alla te­ca (gesti di uomini che nel nome di Antonio, e di Cristo, hanno scommesso la vita). E noi bor­ghesi, dietro: autorità, mogli in visone, colonnelli dei carabinie­ri, suore. Le facce segnate dalle rughe o dalla fatica, dal­l’eco di ambi­zioni, passioni e speranze. Muti, in coda, gli sguardi fissi su quelle ossa. « Si quaeris miracu­la... aegri sur­gunt sani » , ab­biamo cantato nella antica preghiera al Santo. Se chiedi i miracoli, i ma­lati guariscono. E somigliamo, in questa proces­sione, alla folla dell’affresco di Bartolomeo Montagna, nella Scoletta, qui in piazza. Il pittore immaginò, è vero, una ostensio­ne che secondo gli storici non avvenne. E però come realisti­camente quegli sguardi intensi, e le mani protese, somigliano al­le nostre. Già, le mani. Le mani proprio non ce la fanno a non allungar­si, per sfiorare l’urna. Vedi la gente che, avvicinandosi, sem­bra imporsi di tenerle giù, a po­sto; ma quando sono proprio ac­canto non resistono, fugace­mente il palmo si appoggia alla teca, come costretto da una at­trazione segreta. Poi, un po’ so­spinti dai frati, ce ne andiamo lasciando il corpo d’Antonio al suo riposo, fino all’alba, quan­do arriveranno i pellegrini. Per cinque giorni, finché non tor­nerà nella restaurata splendida Cappella dell’Arca.
E ce ne andiamo sciamando fuo­ri, nel chiostro e poi nella gran piazza silenziosa, morsi da un
freddo che però ha già un remo­to odore di primavera. Per que­sta piazza correvano i fanciulli, il 13 giugno 1231, gridando: « È morto il Santo! » . Giacché per il popolo Antonio era santo già da vivo; già da vivo, lo avevano ri­conosciuto. E nella quiete della notte sul sagrato pensi meravigliato che ancora noi og­gi siamo venuti qui per un frate morto 779 anni fa. Di quale altro uomo, condottiero, eroe, re, ci cureremmo, otto secoli dopo, e con un devoto stu­pore sulla faccia al­lungheremmo le mani a carezzarne attraverso una te­ca le ossa? I santi vincono il tempo, violano la con­giura del tempo che incenerisce ogni cosa. Vivi, ancora e per sempre: e il popolo cristiano, che lo sa senza bisogno di tante spiegazioni, va a domandare con dimestichezza. Semplice­mente. Come si bussa alla porta di un amico. Ieri. per farlo, si so­no messi in fila in 15mila.
La prima esposizione fu nel 1263, la seconda nel 1981 Domenica notte preghiera ed emozione per la cerimonia dell’apertura




I fedeli davanti alle spoglie del santo di origine portoghese

Al freddo dell’alba: «Qui per ringraziare»


DAL NOSTRO INVIATO A PADOVA

la giornata


Fiocchi rosa e azzurri, foto di neonati: i figli tanto desiderati che arrivano per l’intercessione del santo

L
a campana del Santo rintocca le sei del mattino, e ancora è notte fonda. La città dorme. Ma verso la Basilica ri­suonano sul selciato tanti passi svelti. Fami­glie. Coppie con un bambino. Vecchi, inta­barrati nelle sciarpe nel freddo dell’alba. So­no le avanguardie del popolo che nella gior­nata invaderà pacificamente Padova: dai paesi limitrofi o da lontano, su grossi pull­man che hanno viaggiato tutta la notte dal Sud. Il primo della coda per sant’Antonio è qui dalle quattro del mattino. «Toniolo Ivo, da Camisano Vicentino», ripete ai giornali­sti con un orgoglio da soldato. Poco più in­dietro c’è una ragazzina coi capelli di un ful­vo veneziano. Ha 14 anni ed è qui perché sua madre le ha raccontato che è nata per una grazia del Santo: «Sono venuta per ringra­ziare ». Poi, nella mattina che si leva chiara, mentre i bar aprono e i pellegrini si scaldano col caffè bollente, quanti altri ne arrivano. Di ogni età, coi figli, con i nonni, coi passeggini. Tanti bambini piccoli. Sorride, la giovane madre cui domandi perché è qui col bambino, co­me di un geloso segreto. Ma basta entrare in Basilica per vedere sulle pareti della cappel­la di san Giacomo, dove fino a ieri era l’urna del Santo, allinearsi una moltitudine di ex voto particolari. Fiocchi azzurri, fiocchi ro­sa e tante fotografie di neonati. Sotto, due ri­ghe: «Grazie perché ce lo hai dato». Oppure: «Ecco Antonio. Secondo i medici non pote­va nascere. Grazie». Pare dunque che sant’Antonio in questi tempi moderni si sia specializzato nel fare avere alle donne i figli che, tanto desiderati, non arrivano. E quelle grate poi glieli portano: infagottati, bardati come eschimesi, i bambini che non poteva­no nascere nella mattina fredda dormono beati.
Duemila all’ora, i pellegrini sfilano pazienti. La coda che fuori è ferma accelera solo quan­do si entra nella cappella delle Reliquie, so­spinta dai commessi: «Avanti, signori, avan­ti ». Perché, arrivati fin lì dopo due ore di at­tesa, vedi in faccia alla gente il desiderio di potere almeno per un momento sostare. Da­vanti a quelle ossa scure, alla mano destra i­scheletrita con cui Antonio otto secoli fa be­nediceva il popolo di Padova. E non basta il tempo, forse, a raccomandare al Santo tutte le facce che si portano nel cuore. Già si è so­spinti fuori, nella Basilica colma della musi­ca d’organo che accompagna la Messa.
«Sono venuta solo per dire grazie», rispon­de nei chiostri una vecchia signora dall’ac­cento padovano. Grazie di cosa? «Di tutto. Troppe cose, perché si possano raccontare», risponde lei, e sorride. Nel museo della de­vozione stanno in fila centinaia di ex voto:
cuori, mani d’argento, «per grazia ricevuta». E quante tele a raccontare, con mano inge­nua, di lontane notti di febbre alta, i paren­ti già piangenti al capezzale; e sant’Antonio su una nuvola, in alto, e la data, e il guarito che ringrazia. Ma è recente la storia che fil­tra dagli addetti all’accoglienza. Due giova­ni donne si incontrano davanti al Santo; u­na piange, una prega. Scambiano quattro parole. Una piange il suo bambino morto, di cui è stato donato il cuore. L’altra sobbalza: a suo figlio, della stessa età, quel cuore pro­prio a Padova è appena stato trapiantato. Si abbracciano, sbalordite da quell’incontro ca­suale che colma un poco lo strazio dell’una, e la gratitudine dell’altra. Accadono queste cose, dal Santo. Per questo, a sera, erano già entrati in più di ventimila. Pazienti, puntua­li – a un appuntamento cui non potevano mancare.
Marina Corradi