Anticipiamo stralci di un articolo pubblicato nell'ultimo numero della rivista dei gesuiti italiani "La Civiltà Cattolica".
di Giandomenico Mucci Che da molto tempo sia stata messa su una campagna a livello non soltanto europeo per denigrare presso le masse meno preparate il sentimento religioso, particolarmente quello cristiano e cattolico, lo sapevamo tutti. Che gli improvvisati critici delle Scritture cristiane e della loro storicità facciano maldestre incursioni in campi delicati e difficili del sapere che richiedono vaste conoscenze sull'Oriente antico, storiche, linguistiche, archeologiche, letterarie, lo sapevano tutti quelli che non hanno una cultura di accatto asservita a fini extraculturali. E tutti sapevamo che il mercato abbonda di romanzi pseudostorici e la cinematografia di film, gli uni e gli altri destinati a eccitare le basse passioni e curiosità umane. È il peggio del kitsch a cui ci ha abituato il nichilismo fuso con il consumismo.
Siamo stati perciò piacevolmente sorpresi, come dinanzi a una novità, quando abbiamo letto che, secondo Renato Oniga - professore di Lingua e Letteratura latina all'Università di Udine - "l'attacco anticristiano è il pretesto per colpire il vero obiettivo, che non è il sentimento religioso, ma "la giungla del sedicente pensiero umanistico"".
Gli esponenti dello scientismo hanno anch'essi i loro dogmi: l'odio di sé, lo scientismo e il relativismo. "L'odio di sé si manifesta nella volontà di autodistruzione della tradizione occidentale. Il relativismo viaggia sul piano etico: qualsiasi opinione può essere equivalente a un'altra, eccetto la scienza, che ha valore categorico". Nulla di nuovo, quanto al metodo, in questi maestri della post-religione. "Gli argomenti usati oggi contro il cristianesimo non sono altro che una riproposizione delle accuse dei pensatori pagani verso i primi cristiani, per esempio le invettive di Celso. È un po' strano che, per criticare il cristianesimo, la modernità scientifica non trovi di meglio che riproporre accuse vecchie di 2000 anni, già confutate dagli apologeti cristiani!". E che dire della "calcolata prudenza, per non dire una certa vigliaccheria" di questi maestri? "Prendersela con il cristianesimo apre molte porte in certi ambienti culturali: se si scrive un libello anticristiano, si riesce a pubblicarlo facilmente. Dare alle stampe un volume critico sull'islam è più difficile: una casa editrice ci pensa due volte".
È dall'Ottocento, con Comte e il positivismo, che si è affermata l'idea, o la mentalità, secondo la quale la scienza sperimentale soltanto rappresenta adeguatamente la realtà. Negando la contrapposizione tra scienza e umanesimo, Oniga sostiene la pacifica convivenza dei due valori nell'uomo che è il soggetto dei due saperi. Semmai, umanesimo si oppone a scientismo, perché nell'umanesimo, fondato sullo studio della classicità, esistono le risorse per combattere quella degenerazione della scienza che è lo scientismo e recuperare l'humanitas, che è sintesi di cultura e di scienza. La classicità, cioè i greci e i latini, ha avviato quella riflessione sull'uomo che poi, illuminata dal cristianesimo, è diventata l'anima della civiltà occidentale, permettendole di evolversi verso valori universali, quali sono la tolleranza, i diritti umani, l'apertura alle altre culture. A proposito di queste, non si deve dimenticare che esistono grandi tradizioni umanistiche anche nell'ebraismo e nell'islam: tutta una feconda realtà di cultura che può correggere l'insolenza integralista della scienza.
Sul tema della post-religione come parte rilevante del pensiero post-moderno, la posizione di Oniga è stata preceduta da quella, analoga, di Giorgio Israel, che è uno scienziato, ordinario di Matematiche complementari e direttore del corso di perfezionamento in Storia della scienza all'università di Roma "La Sapienza". A suo parere, la violenta verbosità degli scientisti e il loro rifiuto del dialogo civile con gli umanisti denota una grande debolezza camuffata, appunto, dalla verbosità che pretende di addentrarsi nell'esegesi biblica "senza vergogna delle proprie modeste conoscenze e della povertà dei propri mezzi analitici: una mancanza di pudore che non sarebbe mai ammessa nel campo scientifico".
La post-religione, che in larga parte usa come sua arma lo scientismo, è peraltro in stridente contrasto con la tanto conclamata laicità. Questa implica il rifiuto di una visione totalizzante della società, senza escludere per questo quei princìpi di validità universale riconosciuti e condivisi da tutti gli uomini che fanno un buon uso della ragione (una capacità di cui dubitava il Mefistofele goethiano!).
A chi poi consideri che la dimensione religiosa, nei suoi diversi aspetti e funzioni, agisce sempre nella cultura e nella formulazione del patrimonio etico di una società, risulterà evidente il danno che proverrebbe a una società democratica dalla noncuranza e dal disprezzo del fatto religioso. Se una critica merita la cultura postmoderna, essa non va rivolta all'approccio laico in quanto tale, ma alla sua indifferenza di fronte ai valori ultimi e alla sua opzione ideologica che pretende di imporre come sola legittima un'unica concezione della società e dell'uomo. Un sincero approccio laico della cultura e dell'educazione dovrebbe essere un approccio imparziale, non ideologico, a tutte le espressioni della realtà umana: simbolico-religiosa, etico-valoriale, antropologica, storica, sociopolitica. Apparirebbe allora in tutta la sua importanza la necessità di aprirsi, sia pure criticamente, all'eredità classica e cristiana.
Lo scientismo ha contaminato non pochi cristiani anche praticanti, che sono indotti a relegare la loro fede nell'ambito del soggettivo, sperando così di non esporla alle pretese della ragione. Assieme a molti nostri contemporanei, anch'essi identificano la scienza empirica con la totalità della ragione e riducono la religione e la fede al mero sentimento. La ragione, invece, ha in sé la capacità di trascendere il dato sensibile e di giungere a una realtà che svela il senso dello stesso mondo sensibile. Si pone qui di necessità l'accurata definizione di scienza. Con questa parola si intende la conoscenza sistematica, metodica e critica dei fatti e dei fenomeni osservabili con i sensi e spiegabili attraverso la ricerca delle loro cause proprie. Questa definizione mette in evidenza i limiti di questa forma di conoscenza che è la scienza.
Il riconoscimento di questi limiti determina due posizioni opposte. O, partendo da una visione dell'uomo che afferma la sua trascendenza rispetto alla materia, si rivendica un'altra forma di conoscenza non ristretta al dato sensibile. O si fa della conoscenza sensibile l'unica forma valida di conoscenza e si confina tutto il resto nel puramente soggettivo che non può essere contrapposto alla scienza. La prima posizione ammette, oltre alla scienza, altre forme di conoscenza: la conoscenza spontanea, l'intuizione e, radice di tutte, la coscienza del proprio io, dalla quale può svilupparsi quella forma di conoscenza che è la filosofia. La seconda posizione, oltre alla scienza, ammette soltanto l'epistemologia intesa come l'insieme delle regole che permettono il controllo del metodo scientifico.
La scienza non è in grado di conoscere tutto. In particolare, non è in grado di conoscere il dato più importante, l'uomo: o, più precisamente, può conoscere tutto dell'uomo, ma non chi egli sia e a che cosa sia destinato. Il pensiero moderno, che ha dato origine allo scientismo, conduce invece all'idea che l'uomo possa autocomprendersi totalmente, e strumento di questa autocomprensione sia la conoscenza derivata dall'esperienza mediata dai sensi. Lo scientismo cioè ignora che si dà un'altra esperienza, non mediata dai sensi, attraverso la quale l'uomo può accedere all'unica realtà che sfugge alla scienza: la coscienza, il proprio io. Il termine coscienza non va inteso unicamente come coscienza morale, ossia capacità di discernere tra bene e male.
Coscienza significa, più radicalmente, la consapevolezza immanente a tutte le nostre operazioni intenzionali, cioè a quelle operazioni che hanno come soggetto il nostro io. È il dato originario e irriducibile della presenza del soggetto a se stesso. È il soggetto che si percepisce in se stesso e nei propri atti. È la radice della dignità dell'uomo, del suo valore di persona, della sua libertà. In virtù della sua coscienza l'uomo si appartiene completamente e, appartenendosi, crea uno spazio tra se stesso e ogni altra realtà che da lui si distingue, appropriandosene come oggetto conosciuto. È questa la via per riconquistare quella conoscenza che trascende il dato puramente sensibile e superare lo scientismo.
(©L'Osservatore Romano - 20 febbraio 2010)