ntervento alla presentazione di Charity, (McGill-Queen’s University Press), terzo volume di Is It Possible to Live This Way? (Dublino, 7 gennaio 2010; New York, 17 gennaio 2010; Montreal, 18 gennaio 2010)
Questo terzo testo conclude la pubblicazione in inglese (Is It Possible to Live This Way? Vol. 3 Charity, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2009) del percorso del libro di don Giussani Si può vivere così? intorno alle tre virtù teologali: fede, speranza, carità. Anche in questo caso, don Giussani ci offre l’esempio di un dialogo sulla natura dell’esperienza cristiana, fatta emergere dall’interno della dinamica della vita quotidiana. In lui fede, speranza e carità, infatti, non sono parole che si sovrappongono dall’esterno all’esistenza umana, ma un fatto che entra nella struttura dell’io, nella sua autocoscienza, con la “pretesa” di rispondere al problema della vita. Questo, infatti, è in gioco soprattutto oggi: che la vita valga la pena di essere vissuta. In questo libro Giussani ci accompagna a riscoprire il valore di parole che spiegano la vita, ma delle quali da troppo tempo gli uomini hanno smarrito il significato originale fino a sentirle come termini astratti o come un inutile peso.
Per questo nella nostra epoca parole come «amore» e «carità» non godono di buona fama. O meglio, hanno successo alcune immagini ridotte di esse, che vanno per la maggiore a seconda degli “interessi” di chi ha il potere: come sentimentalismo - volere bene e fare del bene perché se ne ha voglia - e come moralismo - volere bene e fare del bene perché si deve -. Dietro questa parola si può nascondere addirittura un desiderio di apparire, di figurare, che fa sorgere la domanda se il volere bene sia dettato da un vero interesse verso colui a cui il nostro gesto di amore è rivolto o piuttosto da un egoismo malcelato.
Lo stesso Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, ha messo in guardia dal rischio di equivocare quando si parla di amore e di carità: «Il termine “amore” è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate» (Deus caritas est, 2).
È difficile superare questo scoglio se non siamo disponibili a imparare dall’esperienza che tutti abbiamo fatto, almeno una volta, nella vita: quella di essere stati oggetto di un atto gratuito. È facile incontrare persone che dubitano dell’esistenza del bene, riconducendolo a fattori come il tornaconto, la comodità, l’abitudine o altro ancora. Quando però si sperimenta di essere voluti bene in maniera gratuita, tutte queste interpretazioni non reggono davanti all’esperienza. Se questo capita davanti al gesto disinteressato di un altro essere umano come noi, a maggior ragione cosa accadrà davanti al gesto di carità di Dio nei nostri confronti? È per questo che il Papa afferma che «l’amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi» (Ivi).
Incominciamo dalla seconda domanda delle due (chi siamo noi?), per cercare di capire fino a che punto l’amore di Dio è per noi una questione fondamentale. Noi non possiamo capire cos’è la carità, senza prendere coscienza della nostra natura bisognosa. Essa viene fuori nel rapporto con ogni cosa: niente ci basta.
1. «Di che è mancanza questa mancanza?»
Il poeta italiano Mario Luzi descrive in modo insuperabile in che consiste questa nostra natura: «Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza... / Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce forza e canto / la musica perpetua... ritornerà. / Sii calmo» («Di che è mancanza...», in Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999, p. 190).
La natura di questa mancanza si rende evidente quando cerchiamo di rispondervi. I piaceri costituiscono spesso il primo tentativo di colmare il vuoto di questa mancanza. Ma ci aspetta una sorpresa, descritta da Cesare Pavese in un modo ineccepibile: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità» (Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 190).
Ma dove di solito pensiamo di trovare una risposta all’altezza del nostro desiderio è nell’amore. La ragione di questa nostra speranza nell’amore ce l’ha ricordata il Papa: «L’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo […], al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» (Deus caritas est, 2). Per questo non c’è nulla che ci faccia comprendere il mistero del nostro essere uomini meglio del rapporto fra un uomo e una donna.
Si tratta esattamente dell’esperienza che in modo indimenticabile esprime Giacomo Leopardi in una sua poesia: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà» (Aspasia, vv. 33-34). La bellezza della donna è percepita dal poeta come un raggio divino, come la presenza del divino.
La bellezza della donna è segno che rimanda oltre, ad altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto alla sua natura limitata, come descrive Romeo nel dramma di William Shakespeare: «Fammi vedere una donna che sia bellissima fra le altre; / la sua bellezza non sarà altro per me che una pagina / dove leggerò di quella che supera tutto per bellezza» (Romeo e Giulietta, I, 1).
Questa è la grandezza dell’uomo, questo «non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).
Nell’esperienza che nulla di sensibile corrisponde alla portata infinita del nostro desiderio, e che allo stesso tempo non possiamo strapparci quest’ultimo di dosso, è inevitabile che prima o poi tentiamo di rispondere a questo vuoto con un possesso che non può che essere pieno di violenza e pretesa. Questa sarebbe, allora, la nostra sorte: finire nello scetticismo, disperando che ci sia qualcosa in grado di essere all’altezza del nostro desiderio.
Ma quasi dalle viscere più intime dell’uomo emerge un’ipotesi desiderabile: «Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo» (E. Montale, Prima del viaggio, vv. 25-28).
Ebbene: questo imprevisto è accaduto.
2. «Cristo me trae tutto, tanto è bello»
Noi siamo piuttosto abituati, per tradizione, a sentire parlare della carità di Dio. E perciò facciamo fatica a immedesimarci con la novità che introdusse il cristianesimo nel mondo antico, che era caratterizzato da quello che in termini moderni chiameremmo «multiculturalismo»: c’era spazio per ogni religione nel pantheon, non era la molteplicità di culti ciò che mancava.
A maggior ragione appare clamoroso il modo in cui il cristianesimo fu subito colto nella sua novità, come si evince dalla sua prodigiosa e inarrestabile diffusione. Che cosa portava di nuovo, di così attraente? Per le religioni antiche gli dèi non s’interessavano granché degli uomini (per fare un solo esempio: nelle religioni mesopotamiche questi ultimi erano stati da essi creati per liberarsi del giogo del lavoro, figuriamoci se potevano preoccuparsene!). La costante delle religioni antiche è che le divinità non possono amare, perché l’unico amore noto era l’amore come desiderio (eros). Infatti, accettare che gli dèi avessero desiderio - eros - implicava riconoscere in loro una mancanza, il che non corrispondeva alla loro natura perfetta di dèi.
In questo contesto, il cristianesimo irrompe svelando la natura di Dio, introducendo un nuovo significato della parola «amore»: la carità (caritas).
Il primo segno di questo amore è la donazione dell’essere. Il cuore dell’uomo - quando è semplice e leale - è in grado di riconoscerlo: «Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello d’essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende. Tradotto empiricamente è la percezione originale di un dato. […] “dato”, participio passato, implica qualcosa che “dia”. La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo “dato”, e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà, è la parola dono» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 140). Ora, poiché è un’evidenza che all’interno di questa realtà data, donata, ci sono anch’io come persona, la ragione usata secondo la sua vera natura di esigenza di significato totale non può che concludere così: «In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”. È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro. Quanto più io scendo dentro me stesso, se scendo fino in fondo, donde scaturisco? Non da me: da altro. È la percezione di me come un fiotto che nasce da una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me, e da cui vengo fatto. Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire una origine che non sa che cos’è, è altro da sé. Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avuto, di questa misteriosa presenza da cui la consistenza del suo istante, del suo io, è resa possibile. Io sono “tu-che-mi-fai”. Soltanto che questo “tu” è assolutamente senza faccia; uso questa parola “tu” perché è la meno inadeguata nella mia esperienza d’uomo per indicare quella incognita presenza che è, senza paragone, più della mia esperienza d’uomo. Quale altra parola dovrei usare altrimenti? Quando io pongo il mio occhio su di me e avverto che io non sto facendomi da me, allora io, io, con la vibrazione cosciente e piena di affezione che urge in questa parola, alla Cosa che mi fa, alla sorgente da cui sto provenendo in questo istante non posso che rivolgermi usando la parola “tu”. “Tu che mi fai” è perciò quello che la tradizione religiosa chiama Dio, è ciò che è più di me, è ciò che è più me di me stesso, è ciò per cui io sono. Per questo la Bibbia dice di Dio “tam pater nemo”» (Ibidem, pp. 146-147).
Questo semplice riconoscimento basterebbe all’uomo per non sentirsi da solo in mezzo al reale. Potrebbe vivere con la coscienza di figlio di un Dio così Padre. Ma tante volte, dimentico di questa evidenza elementare, l’uomo vive come orfano.
La dimenticanza dell’uomo nel corso dei secoli non fa cambiare a Dio la propria natura. Anzi, questa lontananza è l’occasione di svelare la sua vera natura. Come, davanti alla testardaggine del bambino, la mamma è costretta a tirar fuori le sue viscere di madre, così - nella traiettoria della storia umana - Dio compie una mossa che rinnova e invera la gratuità che costituisce la Sua natura: Egli, in Cristo, dona Se stesso.
Scrive Luigi Giussani: «La natura di Dio appare all’uomo come dono assoluto: Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice (felice, cioè totalmente soddisfatto o perfetto; come ho sempre detto, in latino e in greco, perfetto e soddisfatto sono la stessa parola: perfectus, cioè perfetto o compiuto, soddisfatto è un uomo compiuto). Si è dato a me, dandomi il suo essere: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. E poi, quando meno l’uomo se lo aspettava, non poteva neanche sognarselo, non se lo aspettava più, non pensava più a Colui dal quale aveva ricevuto l’essere, questo rientra nella vita dell’uomo per salvarla, ridà se stesso morendo per l’uomo. Si dà tutto, dono di sé totale, fino a: “Nessuno ama tanto gli amici come chi dà la vita per gli amici”. Dono totale» (Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 327-328).
Ma don Giussani non si limita al grandioso aspetto oggettivo del dono di sé, ma aggiunge che questo dono di sé è «commosso»: «Il secondo fattore - il primo è quello essenziale - è come un aggettivo accanto al sostantivo, è aggettivale; aggettivo vuol dire che si appoggia, s’appoggia al sostantivo, perciò sarebbe secondario rispetto al primo. Eppure è il più impressionante, e noi - scommetto - non l’abbiamo mai pensato e non lo penseremmo mai, se Dio non ci avesse messo insieme. Perché Dio dedica se stesso a me? Perché si dona a me creandomi, dandomi l’essere, cioè se stesso (mi dà se stesso, cioè l’essere)? Perché, per di più, diventa uomo e si dà a me per rendermi di nuovo innocente [...] e muore per me (che non c’era assolutamente bisogno: bastava un zic del pollice e del medio e il Padre avrebbe agito per forza)? Perché muore per me? Perché questo dono di sé fino all’estremo concepibile, al di là dell’estremo concepibile? Qui dovete andare a vedere e imparare a memoria questa frase del profeta Geremia, al capitolo trentunesimo, versetti dal 3 in poi. Dice Dio, attraverso la voce del profeta che in Cristo si realizza (pensate alla gente che stava insieme a quell’uomo, quel giovane uomo che realizzava queste cose): “Ti ho amato di un amore eterno, perciò ti ho attratto a me [cioè ti ho reso partecipe della mia natura], avendo pietà del tuo niente”, io ho tradotto sempre così questa frase. “Avendo pietà del tuo niente” che cosa vuol dire? Di che cosa si tratta? Di un sentimento, di un sentimento! Di un valore che è sentimento. Perché l’affezione è un sentimento; essere “affezionato a” è un sentimento, ma è un valore. Nella misura in cui ha ragione, è valore; se non ha ragione alcuna, non è valore qualsiasi affezione perché manca di metà dell’io, è l’io tranciato a livello dell’ombelico: rimane il resto, quello basso» (Ibidem, pp. 329-330).
Chi è in grado di parlare della carità come «dono di sé commosso», può farlo solo perché lui stesso si commuove per la commozione di Gesù: «La carità di Dio per l’uomo è una commozione, un dono di sé che vibra, si agita, si muove, si realizza come emozione, nella realtà di una commozione: si commuove. Dio che si commuove! “Che è mai l’uomo perché Tu te ne ricordi?”, dice il salmo”» (Ibidem, p. 332).
Don Giussani è ben cosciente dell’infida possibilità di riduzione anche di questo aspetto, esattamente come - abbiamo visto - ammonisce il Papa all’inizio dell’enciclica; ci dice quindi: «Ma occorre stare attenti a un particolare: questa commozione e questa emozione veicolano, portano con sé un giudizio e un palpito del cuore. È un giudizio, perciò è un valore - diciamo - razionale, non in quanto possa essere ricondotto e ridotto a un orizzonte di cui sia puramente capace la nostra ragione, ma razionale nel senso che dà la ragione, porta in sé la sua ragione. E diventa palpito del cuore per questa ragione. Non è carità, l’emozione o la commozione, se non ha dentro di sé questo giudizio e questo palpito del cuore. Qual è la ragione? “Ti ho amato di un amore eterno, perciò ti ho fatto parte di me, avendo pietà del tuo niente”: il palpito del cuore è la pietà del tuo niente, ma la ragione è che tu partecipassi all’essere» (Ibidem, pp. 335-336).
Tutto il Nuovo Testamento afferma questa assoluta precedenza dell’amore di Dio. Giovanni nelle sue lettere lo esprime in maniera definitiva: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4,10-11). E più avanti: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19).
Questa novità è quella che il Papa ci ha ricordato nella sua prima enciclica: «La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti - un realismo inaudito» (Deus caritas est, 12).
Questo amore commosso di Dio, che si è reso evidente in Cristo, è l’unico in grado di corrispondere alla natura bisognosa dell’uomo, alla sua mancanza. Per questo l’uomo si sente così attratto da Lui, come mette in evidenza il motto di Jacopone da Todi: «Cristo me trae tutto, tanto è bello». La Bellezza si è fatta carne, e il cristianesimo è proprio la sorpresa del fascino avvenuto davanti all’attrattiva di Cristo, che ha colpito quei due primi discepoli, Giovanni e Andrea, che dal giorno che l’hanno incontrato sono diventati suoi. Adesso sappiamo perché l’hanno seguito, perché «la carità […] indica il contenuto più profondo, scopre l’intimità, scopre il cuore di quella Presenza che la fede riconosce» (L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 322) e che oggi colpisce coloro che a Lui appartengono. Non ci sarebbe cristianesimo se non ci fosse questa sorpresa, che nessun errore umano può impedire.
Per questo, «il primo oggetto della carità dell’uomo si chiama Gesù Cristo. Il primo oggetto dell’amore e della commozione dell’uomo si chiama “Dio fatto carne per noi”» (Ibidem, p. 339). Infatti, questo amore sconfinato di Dio svelatosi in Cristo desta tutta quanta l’affezione dell’uomo che lo accoglie. «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La personalità cristiana è tutta definita da questo riconoscimento. I cristiani sono coloro che testimoniano questo: «Abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16).
«È questa affezione a Cristo, questa sorpresa continua del dono di sé commosso che il Mistero compie nella nostra storia che genera nel tempo un soggetto capace di interessarsi del destino di ogni uomo, non ideologicamente, non meccanicamente, ma come compassione e vicinanza, come dono di sé commosso, che dà testimonianza alla precedenza originaria del Mistero» (P. Martinelli). «Se Dio, infatti, non fosse diventato uomo, nessuno avrebbe potuto impostare la propria vita secondo questa gratuità, nessuno di noi avrebbe osato guardare la propria vita secondo questa generosità» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 132).
Così si capisce bene l’inizio della recente enciclica del Papa: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (Caritas in veritate, 1). Perché? Perché «dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza» (Ibidem, 2).
È questa carità sterminata di Dio nei nostri confronti, più soddisfacente che nessuna ipotesi di individualismo o di autodeterminazione, che ci rende a nostra volta soggetti di carità: «Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità» (Ibidem, 5).
Dalla sovrabbondanza della carità, dalla pienezza dell’amore di cui siamo stati oggetto, può scaturire la gratuità. Non da una mancanza, bensì da una sovrabbondanza! «È perché c’è questo Cristo che non c’è più nessun uomo che non mi interessi. Come si dovrebbero leggere certe note di Madre Teresa e delle sue suore! Specialmente una che spesso leggevo un po’ di anni fa che racconta di quando una suora di Madre Teresa ha trovato nella cloaca a cielo aperto un uomo che stava morendo; lei l’ha preso, l’ha portato a casa, l’ha lavato, lo ha messo a posto e quell’uomo diceva: “Io sono vissuto come un disgraziato, adesso muoio come un re”. Ma solo un cristiano può fare questo. Amare Cristo e in Lui, cioè secondo il suo modo, i fratelli; dedizione di sé (dono di sé) e commozione per gli altri, per l’altro. Insomma, è l’io che afferma il tu, è l’io che si esaurisce nell’affermare il tu, è l’io che muore per il tu» (L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., pp. 339-340).
Ma chi può essere capace di un amore così?
Così Giussani può affrontare con novità inaudita due delle questioni più incomprensibili dell’esperienza cristiana: il sacrificio e la verginità.
3. Quando il sacrificio e la verginità
sono diventati interessanti
«Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità». Questa frase atrocemente realistica del pensatore francese André Malraux (La tentation de l’Occident, Bernard Grasset, Paris 1926, p. 216) esprime bene la reazione umana al sacrificio. Infatti il sacrificio appare all’uomo come contrario alla sua natura, che è fatta per la felicità. Perché il sacrificio diventi un valore occorre scoprire qualcosa per cui vale la pena farlo.
Quando il sacrificio ha incominciato a diventare interessante? Il sacrificio ha cominciato a diventare interessante quando l’uomo, stupefatto della gratuità di Dio nei suoi confronti, ha intuito che non c’era niente di più intelligente da fare che riconoscerLo. Solo questa preferenza sperimentata dell’amore di Dio può essere ragione adeguata per potere darGli tutto. Il sacrificio nasce dallo struggimento per l’amore di Cristo. «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,14-15).
«Il sacrificio più vero è riconoscere una presenza. Cosa vuol dire riconoscere una presenza? L’io, invece che affermare sé, afferma te. Questa è la dedizione più grande: “Nessuno ama tanto gli amici come chi dà la vita per l’amico”, è lo stesso che dar la vita. Affermare te per affermare l’io, per far vivere l’io, affermare te come scopo dell’agire dell’io, affermare te, è amore a te. […] Affermare l’altro implica il dimenticare se stessi; che è il contrario di essere attaccati a se stessi, allora ci si sacrifica all’altro. Il sacrificio più vero è riconoscere una presenza, vale a dire il sacrificio più vero è amare» (L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 394).
È questo riconoscimento di Cristo, questo essere attratto dalla Sua bellezza, lo struggimento pieno di commozione che prova chi l’incontra che può riempire tutta la capacità affettiva dell’uomo, tutta la mancanza di cui parlava Luzi. È l’esperienza di questa pienezza che rende possibile un rapporto gratuito con le persone e le cose. Questo rapporto nuovo si chiama verginità, che Giussani definisce come «possesso con dentro un distacco». «Per pensare alla tua vita (di te che conosco di faccia), per amare il tuo destino, per amare la tua felicità, per amare la tua contentezza. […] Per amare veramente una persona occorre un distacco: adora di più la sua donna un uomo che la guarda a un metro di distanza, meravigliato dell’essere che ha davanti, quasi inginocchiato, anche se in piedi, quasi inginocchiato davanti ad essa; o quando la prende?» (Ibidem, pp. 420-421).
E, come documentazione di questo nuovo modo di possedere, Giussani fa l’esempio della Maddalena: «Possedette di più la donna da marciapiede, la Maddalena, Cristo che la guardò un istante mentre le passava davanti o tutti gli uomini che l’avevano posseduta? Quando, alcuni giorni dopo, quella gli lavò i piedi piangendo, rispondeva a questa domanda» (Ibidem, p. 421).
Questo è il modo di amare di Cristo. «Quando uno arrivava a venti metri da lui, era trapassato da quella Presenza e andava a casa con dentro quella figura che stentava giorni a tirarsi via, doveva far fatica a tirarla via! In questo modo Cristo si metteva in rapporto con le persone realizzando un amore più utile, un amore più compagnia nel cammino, un amore che rendeva più leggero il cammino, un amore che anticipava, come un sussulto, la tenerezza eterna» (Ibidem, p. 422). Chi non desidererebbe essere raggiunto da un sguardo così? Per renderlo presente oggi nel mondo Dio continua a scegliere alcuni perché «gridino davanti a tutti in ogni istante che Cristo è l’unica cosa per cui valga la pena vivere» (L. Giussani, Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, Rizzoli, Milano 1995, p. 20).
Conclusione
«Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente» (Cfr. Ger 31,3): questa notizia che ci giunge dalla storia del popolo ebraico è la cosa che mi commuove di più; il Mistero che fa tutte le cose ha avuto pietà del mio niente, del nostro niente. Lo ha riconosciuto anche la Madonna: «Il Signore ha guardato il niente della Sua serva». Questa pietà di Dio nei nostri confronti viene “prima” di ogni altra considerazione - tanto è vero che non è legata al nostro essere bravi oppure no: la preferenza di Dio è totalmente gratuita, tanto è vero che ci prende così come siamo - e per questo è la ragione che sta all’inizio di ogni nostra iniziativa verso gli altri e ne indica il metodo: la gratuità.
Se non partiamo da qui in ogni nostro tentativo di amare e di aiutare gli altri, in ogni gesto che chiamiamo di carità, prima o poi ci stanchiamo, le cose ci logorano e col tempo diventiamo sordi al nostro bisogno e a quello dei nostri fratelli uomini. E per questo siamo tentati di chiuderci nell’individualismo, ultimamente indifferenti a tutto e a tutti, cioè soli. Ma rimanere stupefatti perché Cristo ha avuto pietà del nostro niente, abbassandosi fino a divenire uno tra noi, questo vince ogni smarrimento e ogni impotenza e ci rende colmi di quella pienezza che ci fa accettare ogni sacrificio, fino alla possibilità umanamente inconcepibile di dare la vita perché l’altro viva, esattamente come ha fatto Gesù con ciascuno di noi e come farebbe una madre cristiana col proprio bambino.
© Copyright Tracce N.2, Febbraio 2010