La riscoperta delle regole
di Francesco D'Agostino
Sembra che diritto e legge stiano tornando prepotentemente di moda. A causa dei fatti che tutti ben conosciamo, da giorni e giorni i giornali sono invasi da interventi, sottoscritti anche da intellettuali e politici di rango, in cui si esalta il «rispetto delle regole», in cui si biasimano coloro che delle regole vorrebbero far ciarpame, in cui si elogia la legge come unica garante della libertà.
Con appena un po’ di malizia, si potrebbe ricordare a tanti legalisti di oggi, che appena ieri erano e si comportavano da contestatori, che l’ elogio della legge dovrebbe estendersi anche alla Polizia di Stato, il cui motto, come è noto, è appunto l’antico e notissimo detto Sub lege libertas. Se c’è infatti un punto fermo nella teoria della politica e del diritto, è che uno Stato di libertà non può che essere uno Stato di diritto, in cui la legge è sovrana. Ma da questo punto fermo discende inevitabilmente che lo Stato di diritto ha bisogno di una polizia che garantisca il rispetto della legge. Quando, negli anni della mia giovinezza, si sentiva gridare da parte degli studenti: «Fuori la polizia dall’Università», pochi si rendevano conto che questo grido equivaleva di fatto a: «Fuori la legge – e quindi la libertà – dall’Università».
Ma allora, potrebbe concludere un provocatore, è la stessa cosa parlare di Stato di diritto e di Stato di polizia? Naturalmente no. L’espressione "Stato di diritto" è bella e irrinunciabile. L’ espressione "Stato di polizia" è odiosa. Ma bisogna capire bene perché. Se "Stato di polizia" ci turba, è perché intuiamo, più o meno lucidamente, che la legge che in questo tipo di Stato la polizia è chiamata a far rispettare è una legge ingiusta e aberrante. Se invece l’espressione "Stato di diritto" ci affascina, è perché intuiamo che in quest’altro tipo di Stato non comanda la volontà arbitraria del potente di turno, ma il diritto, come norma condivisa e soprattutto giusta. Quello che fa la differenza, quindi, non è la legge in quanto legge, ma la legge in quanto giusta. Non esisterà mai la libertà sotto una legge ingiusta: lo dimostrano platealmente i campi di concentramento, che erano regolati in modo rigidamente e formalmente minuzioso e che nello stesso tempo erano luogo di infamia e violenze inenarrabili.
Si può allora concludere che il luogo della libertà è quello in cui si regna sovrana una giusta legge? Sì e no, purtroppo. La legge infatti è sì condizione di libertà, ma non è una tecnica che garantisca che la libertà possa fiorire. L’esercizio reale della libertà (non la sua mera proclamazione verbale!) richiede infatti da parte di ciascuno di noi un impegno profondamente morale. Vive liberamente chi crede nella libertà, chi crede cioè che la libertà sia un valore autentico, che corrisponde a una vocazione umana profonda. Solo chi crede nella verità può realmente credere nella libertà, perché solo la verità, non certo l’ideologia, può farci liberi.
Ben vengano quindi gli elogi della legge che in questi giorni ascoltiamo da tante parti, a condizione che non si radichino in un relativismo scettico, che sostituisce alla verità il rispetto formale di qualche povera regola procedurale. Ben venga l’elogio del diritto, purché sia accompagnato dall’elogio della verità. E la verità del diritto non sta nelle sue regole, ma nel bene umano che esso promuove e tutela. Altrimenti, l’effetto delle tante e tante parole, spesso sagge e nobili, che ci bersagliano in questi giorni sarà unicamente quello che è proprio di tutte le battaglie ideologiche: la dilatazione ossessiva della retorica, accompagnata dal vuoto del pensiero e del senso morale.
Con appena un po’ di malizia, si potrebbe ricordare a tanti legalisti di oggi, che appena ieri erano e si comportavano da contestatori, che l’ elogio della legge dovrebbe estendersi anche alla Polizia di Stato, il cui motto, come è noto, è appunto l’antico e notissimo detto Sub lege libertas. Se c’è infatti un punto fermo nella teoria della politica e del diritto, è che uno Stato di libertà non può che essere uno Stato di diritto, in cui la legge è sovrana. Ma da questo punto fermo discende inevitabilmente che lo Stato di diritto ha bisogno di una polizia che garantisca il rispetto della legge. Quando, negli anni della mia giovinezza, si sentiva gridare da parte degli studenti: «Fuori la polizia dall’Università», pochi si rendevano conto che questo grido equivaleva di fatto a: «Fuori la legge – e quindi la libertà – dall’Università».
Ma allora, potrebbe concludere un provocatore, è la stessa cosa parlare di Stato di diritto e di Stato di polizia? Naturalmente no. L’espressione "Stato di diritto" è bella e irrinunciabile. L’ espressione "Stato di polizia" è odiosa. Ma bisogna capire bene perché. Se "Stato di polizia" ci turba, è perché intuiamo, più o meno lucidamente, che la legge che in questo tipo di Stato la polizia è chiamata a far rispettare è una legge ingiusta e aberrante. Se invece l’espressione "Stato di diritto" ci affascina, è perché intuiamo che in quest’altro tipo di Stato non comanda la volontà arbitraria del potente di turno, ma il diritto, come norma condivisa e soprattutto giusta. Quello che fa la differenza, quindi, non è la legge in quanto legge, ma la legge in quanto giusta. Non esisterà mai la libertà sotto una legge ingiusta: lo dimostrano platealmente i campi di concentramento, che erano regolati in modo rigidamente e formalmente minuzioso e che nello stesso tempo erano luogo di infamia e violenze inenarrabili.
Si può allora concludere che il luogo della libertà è quello in cui si regna sovrana una giusta legge? Sì e no, purtroppo. La legge infatti è sì condizione di libertà, ma non è una tecnica che garantisca che la libertà possa fiorire. L’esercizio reale della libertà (non la sua mera proclamazione verbale!) richiede infatti da parte di ciascuno di noi un impegno profondamente morale. Vive liberamente chi crede nella libertà, chi crede cioè che la libertà sia un valore autentico, che corrisponde a una vocazione umana profonda. Solo chi crede nella verità può realmente credere nella libertà, perché solo la verità, non certo l’ideologia, può farci liberi.
Ben vengano quindi gli elogi della legge che in questi giorni ascoltiamo da tante parti, a condizione che non si radichino in un relativismo scettico, che sostituisce alla verità il rispetto formale di qualche povera regola procedurale. Ben venga l’elogio del diritto, purché sia accompagnato dall’elogio della verità. E la verità del diritto non sta nelle sue regole, ma nel bene umano che esso promuove e tutela. Altrimenti, l’effetto delle tante e tante parole, spesso sagge e nobili, che ci bersagliano in questi giorni sarà unicamente quello che è proprio di tutte le battaglie ideologiche: la dilatazione ossessiva della retorica, accompagnata dal vuoto del pensiero e del senso morale.
«Avvenire» del 19 marzo 2010