Pubblichiamo ampi stralci della conferenza che si terrà il 10 marzo a Roma, presso il Centro internazionale di studi cateriniani, nell'ambito di un ciclo di incontri dedicati al tema "La donna negli scritti cateriniani: dagli stereotipi del tempo all'infaticabile cura della vita".
di Alessandra Bartolomei Romagnoli
Pontificia Università GregorianaDopo esserne stato il confessore (1374-1380), Raimondo da Capua diventa il biografo di santa Caterina. Nominato maestro generale dell'ordine dei predicatori nello stesso anno della morte della Senese, si dedica alla stesura della Legenda maior tra il 1385 e il 1395. L'opera ha una gestazione lunga, ma nonostante i molti impegni e i viaggi continui Raimondo vi attende con grande impegno. La Legenda maior è un testo prolisso e letterariamente complesso che si sostiene su un difficile equilibrio tra l'esigenza della veridicità storica e della interpretazione teologica e sapienziale dell'esperienza viva della Senese. È questo secondo registro della scrittura che qui ci interessa.
L'opera di Raimondo da Capua può essere letta infatti come il racconto esemplare della trasformazione di un corpo naturale in un corpo cristico, un rituale di passaggio. La sua struttura è cristallina. Come ogni rito transizionale lo sviluppo della narrazione è infatti contraddistinto da tre fasi: l'iniziazione, caratterizzata da pratiche di autonegazione e procedure di separazione e autoesclusione, necessarie affinché il corpo di Caterina sperimenti lo stato della "morte mistica". La fase liminale, il vero e proprio passaggio, in cui, operata la frantumazione, la creatura partecipa di una condizione ambigua, è ormai priva di attributi ed è dunque suscettibile di essere completamente rimodellata. Infine la trasfigurazione del corpo, che, ormai trasformato, può mettere in atto la pienezza della sua fecondità soprannaturale.
All'inizio del racconto, la figlia del tintore Benincasa è una bambina ben nutrita dal latte della madre e molto amata, anzi è la prediletta, e tutti l'ammirano per la sua pietà, la saggezza, la precocità nel linguaggio. Ma a sei anni ha una visione di Cristo che la sfida: "Che fai? Non vieni?". Caterina accetta la seduzione e si perde. La situazione iniziale si capovolge. Rinuncia progressivamente al cibo fino a diventare incapace di mangiare regolarmente, si priva del sonno, indossa il cilicio, con la catena si dissangua di flagellazioni. Il corpo, da grande e forte che era, si riduce, si rimpicciolisce, si contrae. Infine si blocca, in una immobilità simbolica che non è né vita né morte.
Anche lo spazio è contrassegnato da un progressivo ritirarsi. Si rinchiude in casa, poi non esce più dalla sua stanza, infine si mura dentro la cella interiore per negarsi anche alla parola: diventa muta. Fra lei e l'Assoluto, a questo punto, l'ultimo ostacolo è la famiglia. Sostituisce alla parentela carnale le figure divine. Si taglia i capelli, a sancire l'irrevocabilità del patto.
Caterina a questo punto è diventata una creatura liminale: non ha nulla, non è nulla. Non ha status, proprietà, rango, e dunque nemmeno diritti. Anche la scelta di entrare tra le mantellate rimane culturalmente equivoca. Fisicamente presente, si rende strutturalmente invisibile. Condizione paradossale e ambigua, fonte di scandalo, tanto che la vergogna viene anche materialmente confinata e sottratta alla vista.
Ma in positivo il processo di frantumazione e dissolvimento contiene in sé l'apertura a tutte le possibilità, al cambiamento dell'essere, a una trasformazione ontologica radicale. Al culmine del lavoro di sottrazione, come uno scultore, Caterina ottiene infatti un corpo che non è più regolato dall'ordine biologico, ma che funziona secondo le disposizioni dell'Assoluto. Ne esce completamente trasformata e rimodellata, perché Cristo le impone un'altra natura. Dopo le nozze mistiche le fa indossare una veste sanguigna, le dona un cuore nuovo e la corona di spine. Si nutre di un altro cibo, quello eucaristico, e del sangue che sgorga dal costato del Crocefisso. Si identifica completamente in lui, ne assume le connotazioni fisiche, stigmate, piaghe.
I sensi della percezione spirituale vengono amplificati: vede e sente con l'olfatto il peccato e le virtù delle anime. Assimila la potenza straordinaria e salvifica del corpo glorioso: lievitazione, forza sovrumana, invulnerabilità al fuoco, immobilità, dono di compiere miracoli. Il movimento non è più un chiudersi e un ritrarsi, ma un aprirsi e un andare fuori. Il corpo, sino a ora trattenuto, controllato, contratto, si dilata, esce fuori sé, nell'estasi, e si diffonde all'esterno, nel mondo. Caterina lascia la cella, poi la casa, infine Siena, e diventa feconda, madre di anime.
Chiudendo il corpo al cibo, non accumulando, prendendo su di sé l'abiezione fisica e spirituale degli altri, Caterina ha restituito il corpo al sacro e ha ristabilito la circolazione simbolica, permettendo agli altri di nutrirsi, consentendo la redistribuzione dei beni materiali e spirituali. Acquisisce infine, per investitura divina, anche il privilegio della parola. Al termine del suo lavoro, Caterina è diventata la madre di tutti.
Tra il 1411 e il 1416 alla curia vescovile di Venezia, non ancora patriarcato, affluiscono ventitré deposizioni giurate, solennemente autenticate per mano di pubblico notaio. Tranne due laici, sono tutti appartenenti al clero regolare, quindici i domenicani. Sono padri e insieme figli della madre, formati alla sua "divina scuola". A distanza di trent'anni dalla morte riaffiorano i ricordi, il calore del pane e delle focacce che lei impastava e cuoceva, il profumo delle coroncine di fiori che intrecciava e regalava ai suoi figlioli, una nota di colore che rompe la fitta coltre del dolorismo. Caterina digiunava e nutriva, soffriva e serviva, soprattutto prendeva su di sé i peccati di tutti. I gesti familiari della vita ordinaria si incrociano con i miracoli strepitosi: le moltiplicazioni del pane, quelle del vino. La memoria dei figli, ormai orfani, prende il posto della presenza di cui sono stati privati.
Ma sullo sfondo si profila anche l'urgenza di una frontiera per spazi da circoscrivere con rigore. Si è alla vigilia del concilio di Costanza, quello che rimetterà in causa i doni di Brigida, veracissima prophetissa, e i maestri di Parigi, Gerson in testa, pongono sul tappeto la questione della discretio spirituum. Al centro delle deposizioni si intravede la necessità di definire la funzione e le modalità di trasmissione del carisma.
I discepoli si sentono chiamati a rafforzare il processo di idealizzazione di Caterina, necessario a giustificare il loro lavoro al servizio della collettività. In gioco c'è infatti anche la questione della riforma dell'ordine. Essa rinvia a due fondatori: la santa madre Caterina e il beato padre Raimondo. Sono loro i genitori del discorso riformato. Ma la madre prevale sul padre, in nome di una struttura che assegna alla donna la trasmissione dei mysteria Dei per scientiam infusam. Femminilità della rivelazione divina e della sua abitazione nel mondo. È attraverso la madre che la parola arriva e si fa corpo e discorso.
La Legenda maior diventa così il racconto di fondazione dell'osservanza domenicana, è il mythos delle origini. A farsene carico, con una consapevolezza precisa, è soprattutto frate Tommaso da Siena, il Caffarini. La deposizione al processo dell'autore del Libellus ha l'andamento di un sermone. Sulla scorta di Bartolomeo da Pisa sviluppa il tema della perfetta conformità di Caterina, alter Franciscus, a Cristo.
Ma il punto centrale nell'argomentazione di Tommaso è nella proposta di soluzione del rapporto tra esercizio del carisma e sacerdozio ordinato, sia nei termini del munus docendi che sul piano sacramentale. Per tagliare alla radice ogni potenziale tensione ed equivoca interpretazione, Caffarini sottolinea che l'opera di materna direzione svolta da Caterina mirava in realtà a rafforzare e potenziare i ruoli direttivi dei padri, risolvendosi in una forma di apostolato privilegiato nei confronti dei sacerdoti. Un modello esemplare di questa situazione gli viene fornito dalla coppia spirituale Giacomo da Vitry/Maria di Oignies. Era stata la madre a "generare" Giacomo, indicando all'intellettuale prigioniero della sua passione per i libri la via della santa predicazione, era stata lei a sostenerlo per i suoi meriti e le sue preghiere nel lavoro apostolico. Ancora prima del riconoscimento ufficiale della santità di Caterina, il processo Castellano offre una delucidazione intellettuale: l'opera di direzione spirituale, entro alcuni parametri, è consentita alle donne e considerata di grandissima utilità, anzi incoraggiata. Canonizzando la leggenda di Raimondo da Capua e garantendo la conservazione e la trasmissione degli scritti di Caterina, il processo conferisce una singolare patente di fondazione alle esperienze di vita consacrata femminile ponendo le premesse alla fioritura delle sante vive e delle terziarie domenicane che tra Quattrocento e Cinquecento si riconosceranno nel profetico modello cateriniano.
Vorrei adesso fare un passo indietro per cercare di riflettere su come Caterina stessa abbia interiorizzato il proprio ruolo direttivo e materno. A questo proposito vorrei solo accennare a un tema al quale non mi sembra sia stata accordata nella storiografia una attenzione sufficiente. La tradizione accosta immediatamente Brigida di Svezia e Caterina da Siena, le due grandi madri della Chiesa e del Papato trecentesco. Le evidenti analogie non devono però farci perdere di vista alcune sostanziali differenze del loro linguaggio spirituale e le diverse modalità con cui esse hanno interpretato la propria funzione carismatica.
In contrasto con Brigida, Caterina è ben attenta a non avanzare per sé una apostolicità di tipo profetico, né a proporsi quale strumento e canale della continua rivelazione di Dio, come fa invece la Svedese, che nell'evento rivelatorio si autoidentifica con la Madre di Dio. Caterina mette in guardia dal paradigma di un profetismo inteso come conoscenza di eventi futuri ed è molto cauta nei confronti di forme di gnosi estatica e visionaria. Non parla mai di segreti divini che non sono tramandati dalla Scrittura e, a differenza di Brigida, è assai prudente anche nella utilizzazione degli apocrifi. Rimane tomista nell'invito costante a mantenere ben lucido e chiaro l'occhio dell'intelletto. L'aristocratica Brigida non esita con piglio regale a somministrare irrevocabili condanne su ecclesiastici e dottori che sovente nelle sue visioni le appaiono sprofondati negli abissi infernali. Caterina è severa, anche dura nell'opera di correzione, ma mantiene sempre intatta la reverenza e la devozione affettuosa nei confronti dei sacerdoti, ministri del dolce sacramento.
E tuttavia, in Caterina, non meno che in Brigida è forte la coscienza di adempiere a un preciso mandato divino e, come una madre, "sente" di portare i suoi figli, letteralmente, con il corpo e con l'anima.
Nella Legenda maior si parla in maniera molto diffusa del rapporto tormentato di Caterina con la madre. È un motivo - lo noto qui per inciso - che si introduce nelle agiografie delle sante mistiche della fine del medioevo. Nella tradizione antica, il paradigma offerto dalla coppia Monica/Agostino suggerisce l'idea di una trasmissione dei valori cristiani per via matrilineare. La nuova agiografia sembra invece organizzarsi su una frattura che capovolge gli assunti culturali. Nella legenda maior, in particolare, il tema del conflitto trova uno sviluppo del tutto inedito, tanto che la madre assurge quasi al ruolo di maestra in negativo nel processo di formazione della figlia.
Caterina indirizza alla "madre sconsolata" quattro lettere del suo immenso epistolario, poche forse, se misurate all'angoscia di Lapa Benincasa. La figlia lontana conosce bene la sua sofferenza, la sua "fadiga" di comprendere: "Tutto questo v'addiviene perché voi amate più quella parte che io ho tratto da voi, che quella ch'io ho tratta da Dio, cioè la carne vostra, della quale mi vestiste". Supplica allora la madre di deporre "ogni disordinata tenerezza", l'"amore sensitivo", e di lasciarla andare, per diventare finalmente "madre non solamente del corpo, ma dell'anima mia". Le chiede di seguire l'esempio della Vergine che "dona sé e figlioli, e tutte le cose sue, e la vita per onore di Dio", e di non avere paura di restare come lei "sola, ospita e peregrina". Il dolore solitario della madre di Dio ai piedi della croce è un momento forte della spiritualità di Caterina, che nel segno domenicano ha una devozione profonda nei confronti della Vergine.
Tuttavia la sua esperienza mistica di maternità trova la sua prima ragione nella cristologia. Nella visione di Caterina, pienamente compresa nel quadro teologico della scolastica, Cristo è innanzitutto il redentore, in quanto solo il suo essere Dio rende possibile la salvezza per l'uomo, è il suo sacrificio di espiazione a cancellare il peccato, è il suo sangue a ricomprare l'umanità pagandone il riscatto. È dunque insieme un atto di giustizia e un atto d'amore. Ma nell'incarnazione si realizza compiutamente anche il mistero dell'unione umano-divina: "l'uomo è fatto Dio e Dio si è fatto uomo per l'unione della natura divina e della natura umana in Cristo", scrive nel Dialogo. Per questo l'immagine fondamentale di Cristo negli scritti di Caterina è quella del corpo di Dio che muore affinché gli uomini possano nutrirsi e vivere: "A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, el quale, volendo prendere il latte, prende la mammella della madre e mettesela in bocca, unde col mezzo della carne trae a sé il latte; e così doviamo fare noi, se vogliamo notricare l'anima nostra: dovianci attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità".
La teologia della maternità di Dio aveva radici profonde nel pensiero medievale. La serie era stata aperta nel XII secolo da Ildegarde di Bingen, che aveva visto nell'incarnazione quasi una seconda creazione, e in Cristo il padre e la madre insieme dell'umanità nuova. Cristo quindi, nuovo Adamo, ha un tratto comune anche con Eva, in quanto la sua nascita non ex semine, sed caro ex carne presenta delle analogie con quella della progenitrice: non avendo avuto un padre umano, la carne di Cristo è tratta da sua madre. Per questo nel Liber divinorum operum Ildegarde era giunta ad affermare esplicitamente che "l'uomo veramente significa la divinità del Figlio di Dio, e la donna la sua umanità". Se il Padre è il segno della potenza del divino, nell'incarnazione, vissuta nel segno dell'accettazione dell'umana debolezza, si fa presente e visibile il mistero del suo amore e della sua misericordia.
Ma Ildegarde rimane ancora all'interno della tradizione monastica. Quando viene trasferito sul piano dell'esperienza, questo dato teologico dà forma al nuovo linguaggio della mistica femminile, dove l'intimità totale con la persona di Cristo viene ricercata nella partecipazione alla sua sofferenza. È questo anche il grande problema di Caterina: la possibilità del ripetersi dell'evento dell'incarnazione in ogni uomo, come una realtà storicamente tangibile come lo è nella carne eucaristica. Non è più, per via di contemplazione, l'oltrepassamento da questo mondo finito e diveniente per raggiungere l'Essere eterno e immutabile, perché quello che la sua vita e la sua scrittura testimoniano è il tentativo di lasciare sempre aperta la possibilità che l'Essere avvenga.
In altri termini potremmo dire che è un modo di porsi, nei confronti dell'Essere, in relazione materna, di generarlo, di farlo venire alla luce. L'attenzione si sposta da un conoscere, o un contemplare, a un fare. È questo quello che Caterina intende quando parla di "partorire un figliolo dell'Amore". Non è una novità: espressioni simili si ritrovano in Hadewijch che sente "amor che cresce nel suo grembo", in Gertrude di Helfta, che la notte di Natale si sente incinta del divino Bambino, ma anche in Angela da Foligno cui il mondo intero appare come gravido di Dio, vivente nell'attesa. Decine e decine di visioni di sante donne ce le mostrano intente nell'accudimento del Figlio divino: lo nutrono, lo fasciano, lo cullano.
Ma Caterina va oltre: la singolarità della sua esperienza è quella di aver portato alle sue conseguenze estreme l'intuizione mistica del completo coinvolgimento di Dio nella storia e di aver trasferito il tema della maternità dal momento personale privato spirituale a quello pubblico.
(©L'Osservatore Romano - 8-9 marzo 2010)