Qualcuno  le ha scambiate per «parole dure», quasi irriguardose nei riguardi  di Giovanni Paolo II. Sono quelle che riprendo tali e quali— per  comodità — dall’intervista data a Davide Perillo per il Magazine di  giovedì scorso: «Joseph Ratzinger vuole rendere la Chiesa meno  papocentrica. In qualche modo, il carisma personale di Wojtyla ha fatto  sì che la Chiesa intera si identificasse in un uomo».
             «Insomma, ha avuto risvolti da  culto della personalità, per quanto non voluti. Benedetto XVI cerca  di essere il meno invadente possibile. Non vuole che la Chiesa diventi  tout court l’uomo che la guida». Sorprende che le critiche rivoltemi per  simili osservazioni vengano da parte cattolica. Una conferma che anche  nella Chiesa rischia di oscurarsi quella che i tedeschi chiamavano,  dedicandole prestigiose cattedre universitarie, die katholische  Weltanschauung, la prospettiva cattolica sul mondo e sulla Storia. 
             Varrà dunque la pena di  ricordare con forza che ciò che interessa davvero al credente non è  «il Papa», bensì «il papato». Ciò che conta non è—non deve essere—il  nome, il carattere, la storia personale di chi è chiamato a svolgere il  servizio di Pietro di pascere, istruire, confermare il gregge dei  discepoli di Cristo. Una funzione immutabile, un lavoro di supplenza  sino alla fine dei secoli, quando il Risorto ritornerà nella gloria e —  terminato, con la fine della storia, anche il regime di «Chiesa  militante»—non ci sarà più bisogno di un «vicario», in una terra  eternamente trasfigurata. 
             La singolarità della Chiesa  cattolica, osservava Carl Schmitt, sta nel fatto che nella sua  istituzione riesce a unire in sintesi i tre possibili sistemi di  governo: monarchia, oligarchia, democrazia. Diciassette secoli prima che  Napoleone promettesse ai suoi soldati che «nello zaino di ciascuno  c’era il bastone da maresciallo», la Chiesa elevava al vertice qualunque  credente, quali che fossero le sue condizioni sociali e il suo livello  di cultura. Il primo successore di Pietro, Lino, era uno schiavo  affrancato, molti furono i papi provenienti da famiglie contadine o  artigiane. Radicalmente democratica, dunque, la base degli eleggibili,  ma non il modo della elezione. 
             L’oligarchia, il Collegio, il  Senato chiamato alla scelta era ed è, nella prospettiva di fede,  soltanto uno strumento del quale lo Spirito di Dio si serve per indicare  chi meglio possa esercitare il servizio di pastore del gregge. Non sono  i cardinali, semplici intermediari, è il Cristo stesso che sceglie il  suo vicario. In questo, dunque, il Papa non ha nulla da spartire con i  leader di quel «mondo» i cui vertici si raggiungono per virtù — o per  vizi — singolari e dove la personalità spiccata, nel bene o nel male, è  elemento decisivo. Decisivo non soltanto nella scalata al potere ma  anche nella sua gestione, a cominciare dalla propaganda. 
             Pio IX, grazie alla invenzione  della fotografia, fu il primo pontefice del quale il popolo  cattolico conoscesse le fattezze precise. Sino ad allora ci si affidava a  disegni, quadri, stampe, con una circolazione limitata e riservata alle  élite. Non se ne conosceva il volto ma spesso, tra le masse analfabete  dei fedeli, nemmeno il nome. Al cattolico non interessava sapere «chi»  fosse il Papa e quali fossero le sue caratteristiche umane: bastava la  consapevolezza che, nella remota Roma, vi fosse una guida, un maestro,  un custode della fede e della sua ortodossia, oltre che un garante della  legittimità dei pastori locali, i vescovi. Ancora oggi, per il fedele  comune, la serie dei pontefici prima del XX secolo è una massa un po’  indistinta, della quale pochi saprebbero citare nomi e date, quasi  nessuno indicare singolarità di governo. 
             Singolarità, in ogni caso, poco  significative: per definizione il «vicario» è il custode di un  patrimonio dottrinale che va gestito con fedeltà e che non è né mutabile  né incrementabile. Un Papa «creativo », un pontefice «originale»,  sarebbero contraddizioni in termini e, in ogni caso, inaccettabili,  indegni del loro ruolo di semplici amministratori del depositum fidei.  La «politica ecclesiastica » è diversa per ciascun pastore supremo,  perché la Chiesa è immersa nella mutabilità della storia. Ma questa  «politica » è in fondo cosa poco significativa, rispetto a ciò che  davvero conta. La conquista, cioè, della salvezza eterna,  nell’obbedienza a una dottrina annunciata e garantita dal maestro  terreno. 
             Viene proprio da questa  prospettiva cattolica autentica un certo allarme. Nell’attuale  società dell’immagine e dello spettacolo, si rischia una deriva che  porti a una sorta di omologazione del pontefice ai leader del mondo se  non, addirittura, alle stelle dello spettacolo. Insomma: rovesciando la  priorità necessaria, c’è il pericolo di un’attenzione per la personalità  del Papa ben più che per il papato come funzione religiosa. Un vicario  di Cristo come «personaggio», del quale interessano carattere, gusti,  vicende personali, magari look and hobbies e al quale dedicare infinite  copertine a colori dei rotocalchi o altrettanto infiniti servizi  televisivi. 
             Proprio la straordinaria  singolarità dell’uomo Karol Wojtyla, le sue doti uniche, il fascino  della sua biografia, la sua stessa santità manifesta sono state— e sono  tuttora—un’attrazione irresistibile per il media-system. È ovvio, e lo  precisavo nell’intervista, che Giovanni Paolo II non ha «colpe»: il  rischio stava in quella sua grandezza, alla quale sono il primo a  inchinarmi. 
             Con umiltà pari alla fermezza,  so di non avere bisogno di lezioni per venerare, come sempre ho  fatto, quell’anima privilegiata e certamente destinata agli altari. Ma  proprio lo spessore del suo carisma ha provocato una sovraesposizione  mediatica della quale certi cattolici si compiacciono, perché ignari  ormai delle dinamiche della fede. Una fede della quale per un quarto di  secolo, Joseph Ratzinger è stato il rigoroso custode. Consapevole del  problema, che non è secondario, nel primo anno di pontificato ha cercato  di contrastarlo —da qui la scelta di un «basso profilo», di  discrezione, di sobrietà—per non esserne vittima egli stesso. 
             E non certo per contrapporsi al  predecessore, così amato e venerato; bensì, per schivare un rischio  che ha minacciato (e tuttora minaccia) Giovanni Paolo II, colpevole solo  di una personalità così dotata da indurre la cultura attuale a  trasformarlo in «personaggio » su cui imbastire un’inesauribile  aneddotica. Ruolo che non si addice a colui che definisce se stesso  «servo dei servi di Dio».
              
             Vittorio Messori