DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Papi, non personaggi. Riflessioni su Karol e Joseph. Di Vittorio Messori

Nella società attuale c’è il pericolo di un’attenzione per la personalità, più che per il papato

Qualcuno le ha scambiate per «parole dure», quasi irriguardose nei riguardi di Giovanni Paolo II. Sono quelle che riprendo tali e quali— per comodità — dall’intervista data a Davide Perillo per il Magazine di giovedì scorso: «Joseph Ratzinger vuole rendere la Chiesa meno papocentrica. In qualche modo, il carisma personale di Wojtyla ha fatto sì che la Chiesa intera si identificasse in un uomo».
«Insomma, ha avuto risvolti da culto della personalità, per quanto non voluti. Benedetto XVI cerca di essere il meno invadente possibile. Non vuole che la Chiesa diventi tout court l’uomo che la guida». Sorprende che le critiche rivoltemi per simili osservazioni vengano da parte cattolica. Una conferma che anche nella Chiesa rischia di oscurarsi quella che i tedeschi chiamavano, dedicandole prestigiose cattedre universitarie, die katholische Weltanschauung, la prospettiva cattolica sul mondo e sulla Storia.
Varrà dunque la pena di ricordare con forza che ciò che interessa davvero al credente non è «il Papa», bensì «il papato». Ciò che conta non è—non deve essere—il nome, il carattere, la storia personale di chi è chiamato a svolgere il servizio di Pietro di pascere, istruire, confermare il gregge dei discepoli di Cristo. Una funzione immutabile, un lavoro di supplenza sino alla fine dei secoli, quando il Risorto ritornerà nella gloria e — terminato, con la fine della storia, anche il regime di «Chiesa militante»—non ci sarà più bisogno di un «vicario», in una terra eternamente trasfigurata.
La singolarità della Chiesa cattolica, osservava Carl Schmitt, sta nel fatto che nella sua istituzione riesce a unire in sintesi i tre possibili sistemi di governo: monarchia, oligarchia, democrazia. Diciassette secoli prima che Napoleone promettesse ai suoi soldati che «nello zaino di ciascuno c’era il bastone da maresciallo», la Chiesa elevava al vertice qualunque credente, quali che fossero le sue condizioni sociali e il suo livello di cultura. Il primo successore di Pietro, Lino, era uno schiavo affrancato, molti furono i papi provenienti da famiglie contadine o artigiane. Radicalmente democratica, dunque, la base degli eleggibili, ma non il modo della elezione.
L’oligarchia, il Collegio, il Senato chiamato alla scelta era ed è, nella prospettiva di fede, soltanto uno strumento del quale lo Spirito di Dio si serve per indicare chi meglio possa esercitare il servizio di pastore del gregge. Non sono i cardinali, semplici intermediari, è il Cristo stesso che sceglie il suo vicario. In questo, dunque, il Papa non ha nulla da spartire con i leader di quel «mondo» i cui vertici si raggiungono per virtù — o per vizi — singolari e dove la personalità spiccata, nel bene o nel male, è elemento decisivo. Decisivo non soltanto nella scalata al potere ma anche nella sua gestione, a cominciare dalla propaganda.
Pio IX, grazie alla invenzione della fotografia, fu il primo pontefice del quale il popolo cattolico conoscesse le fattezze precise. Sino ad allora ci si affidava a disegni, quadri, stampe, con una circolazione limitata e riservata alle élite. Non se ne conosceva il volto ma spesso, tra le masse analfabete dei fedeli, nemmeno il nome. Al cattolico non interessava sapere «chi» fosse il Papa e quali fossero le sue caratteristiche umane: bastava la consapevolezza che, nella remota Roma, vi fosse una guida, un maestro, un custode della fede e della sua ortodossia, oltre che un garante della legittimità dei pastori locali, i vescovi. Ancora oggi, per il fedele comune, la serie dei pontefici prima del XX secolo è una massa un po’ indistinta, della quale pochi saprebbero citare nomi e date, quasi nessuno indicare singolarità di governo.
Singolarità, in ogni caso, poco significative: per definizione il «vicario» è il custode di un patrimonio dottrinale che va gestito con fedeltà e che non è né mutabile né incrementabile. Un Papa «creativo », un pontefice «originale», sarebbero contraddizioni in termini e, in ogni caso, inaccettabili, indegni del loro ruolo di semplici amministratori del depositum fidei. La «politica ecclesiastica » è diversa per ciascun pastore supremo, perché la Chiesa è immersa nella mutabilità della storia. Ma questa «politica » è in fondo cosa poco significativa, rispetto a ciò che davvero conta. La conquista, cioè, della salvezza eterna, nell’obbedienza a una dottrina annunciata e garantita dal maestro terreno.
Viene proprio da questa prospettiva cattolica autentica un certo allarme. Nell’attuale società dell’immagine e dello spettacolo, si rischia una deriva che porti a una sorta di omologazione del pontefice ai leader del mondo se non, addirittura, alle stelle dello spettacolo. Insomma: rovesciando la priorità necessaria, c’è il pericolo di un’attenzione per la personalità del Papa ben più che per il papato come funzione religiosa. Un vicario di Cristo come «personaggio», del quale interessano carattere, gusti, vicende personali, magari look and hobbies e al quale dedicare infinite copertine a colori dei rotocalchi o altrettanto infiniti servizi televisivi.
Proprio la straordinaria singolarità dell’uomo Karol Wojtyla, le sue doti uniche, il fascino della sua biografia, la sua stessa santità manifesta sono state— e sono tuttora—un’attrazione irresistibile per il media-system. È ovvio, e lo precisavo nell’intervista, che Giovanni Paolo II non ha «colpe»: il rischio stava in quella sua grandezza, alla quale sono il primo a inchinarmi.
Con umiltà pari alla fermezza, so di non avere bisogno di lezioni per venerare, come sempre ho fatto, quell’anima privilegiata e certamente destinata agli altari. Ma proprio lo spessore del suo carisma ha provocato una sovraesposizione mediatica della quale certi cattolici si compiacciono, perché ignari ormai delle dinamiche della fede. Una fede della quale per un quarto di secolo, Joseph Ratzinger è stato il rigoroso custode. Consapevole del problema, che non è secondario, nel primo anno di pontificato ha cercato di contrastarlo —da qui la scelta di un «basso profilo», di discrezione, di sobrietà—per non esserne vittima egli stesso.
E non certo per contrapporsi al predecessore, così amato e venerato; bensì, per schivare un rischio che ha minacciato (e tuttora minaccia) Giovanni Paolo II, colpevole solo di una personalità così dotata da indurre la cultura attuale a trasformarlo in «personaggio » su cui imbastire un’inesauribile aneddotica. Ruolo che non si addice a colui che definisce se stesso «servo dei servi di Dio».

Vittorio Messori
Corriere della Sera 02 aprile 2006



Giovanni Paolo II e lo Spirito Santo
di Luca Doninelli

«Joseph Ratzinger vuole rendere la Chiesa meno papocentrica. In qualche modo, il carisma personale di Wojtyla ha fatto sì che la Chiesa intera si identificasse in un uomo». Queste parole sono di Vittorio Messori, prima dette in un’intervista e poi scritte in un intervento uscito sul Corriere domenica scorsa.
Poiché sono un po’ incosciente e non me ne importa quasi nulla di essere in linea con l’ortodossia più ortodossa, vorrei dire che il suo intervento non mi è piaciuto. È facile nascondersi dietro gli argomenti inappuntabili, ma ogni tanto bisogna rischiare di essere appuntabili, altrimenti i nostri discorsi finiscono per trasformarsi in tanti sepolcri.
Mi limito alla frase sopra citata. Messori sembra incolpare il carisma di Karol Wojtyla di aver gettato il fumo negli occhi sulla vera natura della Chiesa. Da ragazzo però ho imparato (per l’esattezza al catechismo, tenuto con ferrea ortodossia dall’allora arciprete di Desenzano, monsignor Mario Peruzzi), che si dice carisma un dono dello Spirito Santo alla Chiesa. Ora, mi chiedo dove ha sbagliato lo Spirito Santo, elargendo alla Santa Chiesa un dono che la getta nella confusione. Non vorrei avere capito male: Messori se la prende con lo Spirito Santo? Non credo. Allora si può pensare che Wojtyla abbia fatto un cattivo uso di quel dono, ma anche questo non è credibile. È vero che noi facciamo cattivo uso dei doni di natura, ma dubito che lo Spirito Santo si metta in gioco alla leggera.
Restano due ipotesi. La prima è che il mondo è tanto cattivo e usa in modo cinico la forza di un carisma depotenziandone la portata, riducendo l’amore popolare per quell’uomo a mero culto della personalità. Questo può essere vero, anche se per poter agire il mondo deve trovare nell’uomo di oggi, magari confusamente, una speranza: quella speranza che non il «papato», ma quel preciso papa, con la sua passione per Gesù Cristo, ha saputo comunicare anche a gente lontanissima dalla Chiesa.
C’è anche un’altra ipotesi. Che tanta parte della Chiesa, con la scusa della difesa della propria istituzione, non abbia accettato - lei! - la provocazione di Giovanni Paolo II. Perché accettarla significa accettare il rischio totale di sé, non solo una carriera amministrativa. Dare a Giovanni Paolo II la colpa della scristianizzazione del mondo durante questi decenni sarebbe ipocrita. In questi decenni ci siamo stati anche noi.
Dio fa uso di qualunque carattere umano per l’edificazione della sua Chiesa. Anch’io mi ritrovo maggiormente nel carattere di Benedetto XVI. Ma anche questo sarebbe solo un partito preso se non nascesse dalla meraviglia per l’opera di Dio e per la sua illimitata larghezza di cuore: una larghezza che fa della fede cristiana una sorpresa continua, anche nel dolore.