Beirut (AsiaNews) - Tahir ul-Qadri, sheikh soufi pakistano, ha annunciato il 2 marzo alla Bbc aver redatto un documento di 600 pagine che smantella l’ideologia dei gruppi terroristi che si rifanno al Corano e alla Sunna. Al-Qaeda, dice, è "un male vecchio con un nome nuovo". La fatwa sfida le motivazioni religiose dei kamikaze che sognano del paradiso promesso ai martiri. Loro non sono per niente martiri ma semplicemente criminali.
L'organizzazione del dottor Qadri, Minhaj ul-Quran International, che ha circa 5000 aderenti e 10 moschee in Gran Bretagna, s’incarica di diffondere questo documento e il pensiero del maestro spirituale.
Dio sia lodato! Al-Hamdu li-llâh ! Finalmente un autorità si alza per proclamare ad alta voce e in maniera dotta ciò che ognuno sente nel fondo del cuore, cioè che la violenza non puo’ giustificarsi nel nome di Dio e che l’ingiustizia può spiegare certe reazioni, ma non puo’ mai giustificarle!
Violenza: caratteristica dell’Islam?
Certo, la violenza esiste da quando l’uomo esiste sulla terra. In un modo o nell’altro, quasi tutte le culture e le mitologie l’hanno praticata. Il racconto mitico di Adamo ed Eva nella Bibbia mostra che l’armonia sta nella sottomissione/obbedienza a Dio, ed essa introduce a una vita “paradisiaca”, mentre la violenza sta nella ribellione/disobbedienza a Dio.
In termini coranici, l’islam porta al salâm (la sottomissione a Dio genera la Pace e l’Armonia), invece la ‘isyân (ribellione) porta al Disordine e alla Violenza.
La storia di Caino e Abele (Qâbîl wa-Hâbîl), indicati nella Bibbia come i figli di Adamo ed Eva, esplicitano questa realtà: la violenza estrema, l’assassinio, sono iscritti nel cuore dell’uomo e sono un rifiuto di Dio, che porta al nostro proprio rifiuto dagli uomini.
Ritroviamo lo stesso approccio nel Corano, anche se con formule differenti, nella sura della Mâ’idah (la Tavola imbandita) 5, 27-32, con questa conclusione che mostra bene il legame con la tradizione ebraica (v. 32):
“Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l'umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l'umanità. I Nostri messaggeri sono venuti a loro con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra”. (trad. UCOII).
Sappiamo come l’antropologo René Girard ha sviluppato questo mito fondatore nel suo libro “La violenza e il sacro” (1972), cura di Ottavio Fatica e Eva Czerkl (Milano: Adelphi, 1980).
Il fatto certo è che l’uomo di qualunque tradizione culturale o religiosa ha praticato la violenza e ha cercato di giustificarla spesso perfino in nome di Dio. Nessuna religione, né cultura è esente.
Per questo, nel corso della storia, la violenza non è tipica dell’islam. Direi piuttosto che essa è tipica dell’essere umano, il solo capace di praticare la violenza anche quando essa non è una necessità vitale.
La non violenza come programma
Ad ogni modo, è proprio della riflessione spirituale il cercare di eliminare la violenza, fino a mettere al centro della cultura ilo rifiuto della violenza, la “non-violenza”.
Ai nostri tempi, è merito del Mahatma Gandhi (2 ottobre 1869 – 30 gennaio 1948) aver stabilito la non violenza non solo come principio etico, ma anche come programma politico. Non è stato lui il primo a sceglierla, ma è stato il primo – credo – ad aver istruito le folle per questo obbiettivo, e a dimostrare nei fatti l’efficacia pratica di questo ideale. E sappiamo anche che egli stesso ha pagato il prezzo di questa rivoluzione politica pacifica, con il proprio martirio.
Non-violenza nell’islam?
Muhammad Tahir ul-Qadri ha osato opporsi alla devastante corrente del terrorismo, per strappargli ogni pretesa religiosa: in nome dell’islam o in nome di Dio – che lo si chiami Allah, o Dio, o qualunque altro nome - nessuno può pretendere di ottenere il bene e la giustizia attraverso la violenza. Dio – qualunque siano le descrizioni che gli uomini (considerati profeti ) gli abbiano dato – non può identificarsi con la violenza.
Quadri non è il primo a condannare il terrorismo islamico: prima di lui, lo hanno fatto diverse personalità religiose musulmane. Fra questi: il gran rettore dell’università Al-Azhar, lo sheikh Muhammad Sayyed Tantawi. Ma Quadri è senz’altro il primo nell’islam ad affrontare il tema in maniera così radicale, scrivendo un trattato di 600 pagine per rispondere a tutti gli argomenti ispirati dal Corano o dalla Sunnah (tradizione) islamica.
È caratteristico del terrorismo islamico giustificare la propria pratica appoggiandosi su versetti coranici e su argomenti tratti dalla Sunnah. E per avere la certezza che essi – compiendo l’atto terroristico – fanno il gesto di pietà suprema, lo compiono solo dopo aver ricevuto una fatwa.
Al contrario, per Quadri la violenza non è mai accettabile; essa è contro Dio stesso.
È proprio quanto Benedetto XVI ha sviluppato a modo suo a Regensburg, nel famoso discorso del 12 settembre 2006, dicendo che la violenza è un atto irrazionale e per conseguenza contrario a Dio, che è ragione, e contrario alla religione.
Violenza giustificata dall’ingiustizia?
Spesso si sente dire che il terrorismo islamico non è che una reazione contro l’ingiustizia subita dal mondo musulmano ad opera del colonialismo e dell’imperialismo. Si cita la creazione dello Stato d’Israele nel 1948 sulla Terra d’Islam (Dâr al-Islâm), e il terrorismo praticato dai Paesi occidentali, specie gli Usa, contro il mondo musulmano. In particolare si utilizza molto l’argomento anti-Usa, soprattutto dopo che George W. Bush ha parlato di “crociata” a proposito della guerra contro l’Iraq.
Vi è comunque una differenza di misura fra il “terrorismo islamico” e il “terrorismo degli Usa”: i primi si appoggiano sul Corano e sulle fatwa degli uomini di religione; i secondi non si appoggiano sul Vangelo e sui Padri della Chiesa e nemmeno sull’insegnamento degli uomini di religione, ma lo fanno in nome della loro civiltà.
Per questo, non stupisce che il mondo consideri orribili la religione dei primi e la civiltà dei secondi.
Per questo è importante che gli americani discendano in piazza per protestare contro il terrorismo esercitato in nome della loro civiltà, e che i musulmani discendano in piazza per protestare contro il terrorismo esercitato in nome della loro religione.
Discendere in piazza non significa che io mi riconosco colpevole, ma che io protesto contro un misfatto compiuto in nome della ia religione e dunque in nome mio. In ogni caso io non sono certo responsabile di ciò che altri fanno. Ognuno è responsabile dei propri atti, e nessuno è responsabile per gli altri. Come dice il Corano (6/164) : “Ognuno pecca contro se stesso: nessuno porterà il fardello di un altro”.
La violenza in nome dell’Islam, inoltre, è così diffusa che essa si esercita ormai più contro altri musulmani che contro i “miscredenti (kuffâr): pensiamo all’Algeria degli anni ’92-2002, dove più di 100 mila musulmani (da 60 a150 mila, secondo le stime) sono stati uccisi, spesso sgozzati vivi o sventrati; pensiamo alle carneficine fra sunniti e sciiti in Iraq o in Pakistan…
Si sente spesso dire che le folle fanatiche sono manipolate dai loro governi che vogliono distogliere l’attenzione dei loro sudditi dai veri problemi. È vero!
Ma com’è che, per fare ciò, tali governo utilizzano l’islam? Il fatto è che troppi musulmani sono facilmente manipolabili in nome dell’islam.
Come sempre, si tratta di segnare bene la differenza: la religione non ha nulla a che fare con la difesa della terra e il concetto di “Terra islamica” (Dâr al-Islâm) è oggi superato e inaccettabile nel diritto internazionale. Se un Paese viene aggredito, io lo difenderò qualunque esso sia, in nome del diritto internazionale e della giustizia, ma non in nome di una religione, a meno che la religione non aiuti ad essere sensibile al diritto internazionale e alla giustizia).
Purtroppo, la violenza e il terrorismo degli islamisti sono divenuti quasi un mezzo normale per regolare i nostri problemi. E il peggio è che ciò viene giustificato ricorrendo alla religione.
Conclusione
La fatwa di Quadri è un gesto importante. Esa può essere come un fendente di spada nell’acqua, ma anche l’inizio di un movimento di pensiero e d’azione! Non è la fatwa che cambierà le cose. Come si dice: una rondine non fa primavera; allo stesso modo, una fatwa non fa una dottrina. Tanto più che le fatwa sono ormai migliaia ogni anno sui temi più disparati e obsoleti.[1]
Ad ogni modo questa fatwa è un gesto profetico. Una fatwa di 600 pagine (in realtà è un trattato) potrebbe suscitare un dibattito fra intellettuali e religiosi. È un atto di ragione, un atto riflesso, maturato durante gli anni.
Dipenderà dai sapienti musulmani e dalle folle musulmane (ma anche da tutti noi) che questo atto divenga una corrente di azione concertata e riflessa, per lavare l’islam (e ogni corrente religiosa) dalla vergogna d’aver attribuito a Dio la fonte d’ispirazione del Male assoluto. Il mondo ha bisogno di atti positivi.
Non basta dire e ripetere che “l’Islam vuol dire salâm, pace!”: è troppo facile. Occorrono dei gesti. Allo stesso modo in cui ci sono manifestazioni delle folle – attizzate dai discorsi degli ulema – contro le “caricature danesi”, o contro il discorso di Benedetto XVI a Regensburg, o – più recente – contro la persona e il pensiero di Talima Nasreen nel Karnataka, così occorrono manifestazioni di popolo per la non violenza.
Giorni fa il presidente Kadhafi ha proclamato un jihad contro la Svizzera, per salvare l’onore di suo figlio Hannibal! Come è possibile che questa sia l’unica reazione a venire in mente a un capo di Stato?
Il nostro mondo musulmano è in piena crisi e questo da numerosi decenni. Noi non osiamo confrontarci con la modernità per ripensare noi stessi, per distinguere il positivo e il negativo e proporre riforme che non siano un ritorno al passato, a una pseudo età d’oro, quella dei “califfi ben guidati” (al-khulafâ’ ar-râshidûn), dei quali tre su quattro sono morti assassinati.
Facciamo le nostre riforme, per ritrovare un po’ la nostra dignità in questo mondo arabo-musulmano. Forse l’occidente ci potrà guardare in un altro modo!
[1] Non più tardi di domenica 7 marzo 2010, il quotidiano libanese Al-Nahar ha dato a pag 11 un resoconto a firma del palestinese Jawwâd al-Bashiti dell’ultima fatwa dello sheikh saudita Abd al-Rahmân al-Barrâk, che propugna la morte per ogni persona che autorizzi le scuole miste.