di Giuseppe Frangi
Giovanni Testori sapeva restituire espressivamente la golosità rapace della vita. Anche rinchiuso in una stanza di ospedale. Ecco perché assistere oggi al suo Cleopatràs è come incontrarlo ancora. Diciassette anni esatti dopo la morte
L’ultima volta che ho incontrato Giovanni Testori è stato poche sere fa. Non prendetemi per pazzo, è andata proprio così. Ero a Milano in un teatro della periferia più hard che si possa immaginare: palazzoni, scalinate e spianate di cemento armato, su cui cadeva una pioggia vagamente sozza. All’interno una sala dignitosa ma molto spartana; un teatro a tutta larghezza, strapieno di gente che non t’aspetti. Davano Cleopatràs: un monologo che fa parte di un’opera in tre atti, scritta da Testori negli ultimi mesi di vita. I tre atti corrispondevano nell’architettura testoriana a Inferno, Purgatorio e Paradiso. Cleopatràs era appunto, inevitabilmente, la prima stazione (un osservatore sociologico potrebbe scontatamente commentare: in un luogo così, cos’altro si poteva rappresentare se non l’Inferno?). Non era la prima volta che Cleopatràs veniva messa in scena, ma in questa versione l’attrice, Arianna Scommegna, davvero eccezionale, essendo lombarda, aveva voluto spingere l’acceleratore su tutte le potenzialità espressive del testo, che come a Testori piaceva tanto, era, dal punto di vista linguistico, un impasto di tutte le lingue che avevano attraversato la sua vita (dialetto, italiano, latino, francese, ma anche anglicismi alla moda).
Il canovaccio stravolto
Il risultato era travolgente. I ragazzi, che costituivano la grande maggioranza del pubblico, gente venuta antropologicamente da un altro pianeta, seguivano, si divertivano, si commuovevano, a tratti si sbellicavano sulle sedie. Anch’io, che Testori ben ho conosciuto e ho frequentato, poco alla volta mi sono trovato completamente e letteralmente spiazzato. Perché quel testo, che pur non mi era oscuro, aveva questa forza di sorprendere? Perché le barriere linguistiche e se si vuole anche culturali cadevano come carte e Cleopatràs si rivelava capace di “arrivare” in maniera così dirompente a sensibilità lontane anni luce da chi l’aveva scritta?
Nel cercare una risposta ho riavvolto rapidamente il film della storia testoriana. Mi sono riposizionato nei mesi in cui lui, carta e penna, aveva scritto questa trilogia che aveva intitolato Tre Lai e che sarebbe uscita lui ormai morto. Era un periodo di sofferenze, con la malattia che lo aggrediva e gli riduceva gli spazi vitali giorno dopo giorno, con la stanza d’ospedale che era diventata la sua prima casa. Un Testori di cui ricordo tante ore incupite dal dolore e dalla tristezza. Com’era possibile che “quel” Testori potesse trovare la voglia e le energie per scrivere un testo tanto travolgente e innamorato della vita, così espressivamente baldanzoso? Così preciso nei ricordi, così aggressivamente attento alle mode e ai tic dell’attualità? In genere quelle sono le condizioni biografiche in cui un intellettuale tira le somme, in cui ci si concede a solenni e commosse riflessioni finali, in cui magari un po’ di timor di Dio induce a più miti consigli e pensieri.
Con Testori evidentemente questo canovaccio non aveva funzionato. Ancora una volta lui si era buttato nel corpo a corpo con la vita che ne aveva contrassegnato tutta la biografia. Non aveva saputo resistere al richiamo (o alla tentazione) della realtà come un innamorato.
Immaginare che un uomo nelle settimane finali della sua esistenza, sappia macinare immagini e neologismi a questo ritmo; che sappia restituire espressivamente la golosità rapace della vita; che sappia imporre la positività irriducibile (e per lui addirittura plateale) dell’essere, reagendo alla dominante e sfiancata cultura del dubbio, all’intellettualismo nobile e scettico; immaginare che un uomo sulla soglia della fine abbia saputo fare ed essere tutto questo è cosa che riempie di stupore. E, se permettete, anche un po’ di entusiasmo.
Per questo non è visionario ammettere di aver incontrato Testori, poche sere fa, in un teatrino della periferia milanese. Perché con quel suo atto di fiducia umana e intellettuale nella vita ha ammesso in sostanza di non voler dire lui l’ultima parola. Di non dichiarare finita nessuna storia. Ma di aver voluto lasciar correre liberi pensieri, intuizioni poetiche, frammenti di parole, stimoli intellettuali perché continuassero a vivere e a generare altre esperienze.
Come si difendono i maestri
La forza di Testori sta in questa sua energia generativa che mobilita ancora artisti, attori, ma anche persone del tutto normali. Mobilita nel senso che le porta a osare e a rischiare, ciascuno negli ambiti in cui la vita li ha chiamati ad essere. Ma questa sua “capacità generativa” esiste perché lui stesso si è lasciato “generare” dalle esperienze che la vita gli ha fatto incontrare. Prima di tutto quella del rapporto con la madre, che costella potentemente i suoi scritti sin all’ultimo attimo. Poi l’incontro con Roberto Longhi e il suo modo di restituire vita all’arte del passato (fu Longhi a “scaraventarlo” sullo studio dell’arte lombarda e in particolare del Sacro Monte). Poi, soprattutto, c’è stato l’incontro con don Luigi Giussani, dentro il quale per la prima volta si era sentito compreso e non giudicato nella sua esperienza di cattolico borderline (un abbraccio che aveva sopravanzato le gabbie e i calcoli dell’etica: esperienza che Testori ha testimoniato in modo appassionato al Meeting 1989). Con don Giussani nel 1982 Testori scrisse un libro-dialogo, Il senso della nascita, in cui questa esperienza del lasciarsi generare trovava la sua sintesi in una parola chiave per lui: “sperdutezza”. Cioè lasciarsi andare, affidarsi, lasciar fare un altro, come avviene tra donna e uomo quando amandosi generano un figlio.
La cifra intellettuale di Testori sta qui, in questi incontri “generativi” che si trasformano inevitabilmente in innamoramenti. E sta nella passione con cui li ha sempre difesi, sul piano umano e su quello intellettuale. In un libretto maldestro appena uscito, c’è un’introduzione scritta poco prima di morire da un grande personaggio del cattolicesimo milanese, padre Camillo De Piaz, che ebbe una grande amicizia con Testori negli anni del Dopoguerra ma che non ne aveva capito l’avvicinamento a don Giussani (valutazione un po’ scontata da parte di un uomo che ha lasciato purtroppo prevalere lo schema alle evidenze della vita). In quelle righe De Piaz racconta un episodio emblematico. Nel 1953, quando Roberto Longhi aveva organizzato una delle grandi mostre di Palazzo Reale, quella che riscopriva l’arte della Realtà in Lombardia, girava il pettegolezzo che alcuni dei quadri scelti fossero stati esposti per rivalutarne il valore commerciale. Quando De Piaz gli riferì il pettegolezzo, in piena piazza Duomo, Testori rispose rifilando un schiaffone al prete amico. Così si fa quando si devono difendere i maestri. E quando si deve difendere l’incontro con chi ti ha “generato”.
*direttore di Vita Non Profit Magazine presidente dell’Associazione Testori
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