DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Asino chi legge. Vanno a ruba i testi “for dummies”, guide di ogni tipo per ignoranti. Cosa c’è dietro la prevalenza del cretino nell'editoria

di Fabiana Giacomotti
Ci sono vari modi per definire un
cretino. Negli Stati Uniti è molto
in voga il termine “dummy”, da quei
manichini che fanno tanta pena quando
vengono catapultati contro un muro
nei crash test automobilistici, ma
ultimamente trova un discreto riscontro
anche il “complete idiot”, che va
dritto al punto senza perdersi in metafore
e fumetti di omini col viso a
triangolo e gli occhi sbarrati. In Francia,
dove la speculazione astratta continua
ad aver ragione sulla pratica applicativa
così come gli studenti di
SciencesPo continueranno a ritenersi
superiori ai meccanici della facoltà
di Ingegneria, il termine in uso è
“nul”, assimilabile allo zero in tedesco.
In Italia, dove gli studenti fuoricorso
superano di un buon 15 per cento
la media europea ma i genitori ancora
perseguono il sogno del figlio
dottore, fosse pure di sbrigativa laurea
triennale, il termine di paragone
dell’ignoranza bieca e marrana sono
invece le nostre figlie, le nostre nonne
e persino le nostre stesse madri
che, magari e volendo cincischiare di
retorica, hanno fatto gli straordinari
alla catena di montaggio per sentirci
chiamare dottore dal panettiere e dal
portinaio e tutti, dummies, nuls e parenti
ottusi (femmine, ça va sans dire),
formiamo la nuova categoria dei grandi
lettori mondiali. Una manna inaspettata
e trasversale che s’avanza da
un capo all’altro dell’Atlantico, felicissima
di rimpinguare le casse delle
case editrici da best seller in cambio
del sottile, oscuro piacere di farsi insultare
entro una varietà pressoché
infinita di argomenti: elettronica, cultura
generale, cucina ma anche sesso
(e già si vedono le signore riempirne
una sportina per farne spiritoso dono
agli ospiti a cena e intavolare un minimo
di conversazione) e persino il
paese Italia. “Culture générale pour
les nuls”, “Sexe pour les nuls” ma anche
“Italy for dummies”, che a voler
giudicare dalle cinque edizioni in
due anni si direbbe siamo un paese
infrequentabile per cretini patentati.
Fosse qui adesso Flaubert metterebbe
mano di nuovo e senza indugi
al piano del suo “Bouvard et Pécuchet”,
il romanzo sull’idiozia che tanto
e purtroppo non riuscì a completare
mai, o almeno aggiungerebbe una
voce al suo “Dizionario dei luoghi comuni”.
Qualcosa del genere “Madre:
legge ovvietà sul design”, che è poi il
tema per cui, dopo aver quasi condiviso
che Tahar Ben Jelloun designasse
la figlia a capro espiatorio di una
propedeutica minima al razzismo e
quella di Annette Wieviorka a destinataria
di un compendio simile ma
sulla tragedia di Auschwitz, adesso
viene voglia di ribellarsi al “Design
spiegato a mia madre” da Fabio Novembre,
che per chi non lo sapesse o
fosse convinto che i nostri architetti
di caratura internazionale siano Renzo
Piano e quel pur maleducatissimo,
iroso Massimiliano Fuksas, è l’astro
nascente della creatività volumetrica
e all’intronizzazione si è preparato
legando una cesta di boccoli neri in
una coda ordinata e trasformando un
vago ricordo di pinguedine in un six
pack ab che esibisce con orgoglio in
pose da guru sulle sue poltrone erotiche.
Uno che Pietrangelo Buttafuoco
adorato infilerebbe subito nel catalogo
dei sopravvalutati, ma che adesso
non si sa bene come prendere per via
di quel titolo, sciaguratissimo in
quanto pubblico omaggio alla madre
da poco scomparsa e per questo ancor
più ostico e urticante per chi fin
dalle elementari si è abituato ai versi
di Ungaretti: “Ricorderai d’avermi
atteso tanto / e avrai negli occhi un
rapido sospiro”, e agli occhi lucidi di
commozione delle mamme quando li
recitava nelle occasioni canoniche. A
dire il vero, c’è stato pochi giorni fa
anche un collega che ha spiegato alla
propria famiglia, madre in testa come
ovvio, lo scontro Berlusconi-Fini
con toni che non si userebbero nemmeno
con un lattante e che per contro
chiarivano nulla, ma si tratta di
episodi così minimi e deprimenti da
non fare nemmeno casistica.
Come invece sia stato possibile scivolare
da temi trattati magari per
sommi capi ma pur rilevanti in un’ottica
formativa come il razzismo alle
declinazioni del metacrilato con
identico, acritico autocompiacimento,
è qualcosa che attiene presumibilmente
alle stesse motivazioni che, all’opposto,
spingono centinaia di persone
a ingoiare manciate di lombrichi
vivi negli show dei record o a rivendicare
orgogliosamente la propria
incapacità a svolgere il lavoro
per le quali sono state chiamate quasi
fosse una bandiera di purezza intellettuale
o una prova di raffinata
autoironia, secondo quanto sta sperimentando
in questi mesi un amico
pregato dai vertici della propria
azienda di affiancare senza troppo
parere un altro sopravvalutato pubblico
e che giustamente, dopo qualche
mese di sberleffi e acidità, si domanda
per quale motivo debba aggiungere
al doppio incarico anche il
ludibrio del beneficiato. “Che vuoi, la
gente si sente rassicurata, a sentirsi
spiegare cose che sa già o che crede
di sapere” dice Frédéric d’Agay, consultato
sul tema in quanto erede di
Antoine de Saint-Exupéry e che sulla
mitologia del “Petit Prince” e del suo
delicato, inflessibile intento educativo,
ha costruito negli anni un piccolo
impero: “Si sente uguale ad altre migliaia
di presunti mediocri e, pur di
ottenere questa piccola sicurezza, è
disposta pure a farsi dare del cretino,
pagando. Nelle librerie qui a Parigi i
libri per i nuls si vendono come des
petis pains, anzi, come le lattine di
conserva di pomodoro a cui assomigliano:
roba fatta in serie da semiesperti
o da celebrità televisive che
fanno della non specializzazione la
propria leva di marketing”.
I più sofisticati, come Fabio Fazio,
hanno addirittura adottato la strategia
del dummy vivente e interagiscono
con i propri interlocutori simulando
ingenuità e candori da fanciulli
evangelici. Che per raggiungere un
tale effetto si renda necessaria una
squadra nutritissima di autori e l’abilità
direttiva e interpretativa del presentatore
stesso è un particolare che
lo spettatore può anche intuire ma
che, in fin dei conti, non è affatto interessato
a verificare, come già sapeva
Corrado e ha teorizzato Mike Bongiorno,
geniale ideatore delle proprie
gaffes. Ergersi un gradino sotto
la media è la migliore strada per il
successo, lezione che il Pd non ha imparato
mai e i leghisti benissimo,
giacché ognuno si trova con una “trota”
senza speranze accademiche da
sistemare nel proprio giro di conoscenze.
E qui si torna a bomba alla
questione educativa e a quel vibrante
invito a lasciare il paese così avaro
di riconoscimenti alla preparazione
che il direttore generale della
Luiss, Pierluigi Celli, ha spedito di
recente dalle colonne di Repubblica
al proprio figlio laureando e che pare
riportare la prassi educativa ai
tempi di David Copperfield e di Vamba,
quando l’umiliazione dell’allievo
sembrava un passaggio obbligato dell’apprendimento,
ma con la variante
inopinata, ben più crudele di quella
generica burletta dei dummies, di
mettere nel ruolo del maestro il padre.
Volendo squadernare il cahier
delle opportunità mancate e delle
frustrazioni future, sarebbe bastato a
Celli chiedere di ripubblicare quella
meravigliosa summa delle virtù adulte
che è il “Se” di Rudyard Kipling,
uno che di merito non riconosciuto si
intendeva a sufficienza considerata
la sua formazione a cavallo fra la tradizione
indiana e quella inglese e la
sua sostanziale estraneità a entrambe.
Invece il direttore generale ha
composto di suo, mettendo senza
dubbio in imbarazzo quel figlio laureando
“in tempo e bene”, molto di
più di “quello che tua madre e io ci
aspettassimo”: un inciso disgraziato e
che ha suscitato nei lettori un inevitabile
sentimento di solidarietà per
quel ragazzo che in effetti sì, dovrebbe
proprio andarsene quanto prima,
magari non in Inghilterra dove la
consequenzialità Eton-Trinity College
(che significa un fiume di denaro
speso da genitori abbienti o la doppia
umiliazione di essere un borsista
con le pezze al culo in mezzo a una
banda di snob) è l’unica in grado di
garantire un lavoro passabilmente
certo, certo non in Francia dove si
entra e si esce dall’Ena solo con l’appoggio
giusto, ma certamente da una
famiglia che dubitava fosse in grado
di prendere uno straccio di laurea in
questo paese così poco meritocratico
e per questo lo ha tenuto qui fino a
oggi, senza mandarlo a studiare all’estero
come a rigor di logica avrebbe
dovuto fare per dargli qualche chance.
Via, subito, anche perché di mancata
meritocrazia italiana parlava già
Leopardi e dunque Celli, che fra l’altro
ha ricoperto a lungo cariche pubbliche,
avrebbe dovuto saperlo.
E dire che dodici anni fa, quando
Ben Jelloun, il bestsellerista che tanto
piace alle signore per via dello
sguardo vellutato e dei modi gravi,
diede alle stampe quel suo pamphlet,
un po’ conte philosophique di matrice
volterriana, un po’ parabola, sembrò
a tutti l’evoluzione un po’ forzata
ma non disprezzabile dei “Vangeli
per ragazzi” che si trovavano sotto
l’albero natalizio dell’infanzia, accanto
al moralismo dell’Hector Malot di
“Senza famiglia”, alla “Piccola Dorritt”
dickensiana e alle collane “Que
sais-je?”, parenti strette dei Bignami,
che avrebbero guidato i primi passi
all’apprendimento del francese e della
sua storia, insieme con i verbi irregolari
del Nouveau Becherelle sempre
lì, a portata di mano fino a quando
non si avesse avuto ragione di
quei micidiali participi passati. Affettuosamente
paternalistico, di certo,
ma sempre nell’alveo di un corretto
rapporto fra maestro e allievo, improntato
cioè al reciproco rispetto, e
questo senza citare Platone perché di
questi tempi a evocare discepoli e
mentori non si sa mai come può andare
a finire e forse la Scuola di Atene
non è l’esempio più adatto.
La verità è che, comunque vada,
praticando l’approccio “non intimidatorio”
che è il furbo sottotitolo alla
collana dei dummies, non a caso accompagnata
dai fumetti consolatori
della University Graphics, puntutissima
fabbrica di talenti di Palo Alto, o
quello fustigatorio di Creakle, il ruolo
dell’educatore è pur gramo, e i risvolti
del proprio impegno carichi di
incognite, anche se non ci si trova a
dover soddisfare le necessità informative
di un’intera generazione incapace
di trovare una pur minima soddisfazione
nei risultati di uno studio
costante e puntuale.
Prendi Fénélon e il suo “Télémaque”:
per quel delizioso raccontino
sulle avventure del figlio di Ulisse alla
ricerca del padre che il futuro arcivescovo
di Cambrai aveva dedicato
ma mai consegnato al duca di Borgogna
di cui era stato precettore e che si
sposava, si vide pubblicato a tradimento
dal proprio copista, le copie sequestrate
da Louvois, il temibile capo
della polizia di Louis XIV che vi aveva
letto insieme alla corte delle accuse
al proprio operato, e quindi ripubblicato
nei Paesi Bassi come alfiere
di libertà, mentre a Versailles Madame
de Maintenon faceva fuoco e fiamme
credendosi ritratta nelle vesti un
po’ succinte e parecchio intriganti di
Astarbea, regina di Tiro e avvelenatrice
di spicco, che in una corte non
ancora dimentica dell’affaire des poisons
e delle trame della marchesa di
Brinvillers, andata al patibolo una decina
di anni prima trascinando nella
propria rovina un’ala consistente di
Versailles, era il peggior lasciapassare
possibile. Se Fénélon riuscì a ottenere
e a conservare l’agognata porpora
fu grazie all’adesione al pietismo
in cui praticavano sia Madame de
Maintenon sia, a intermittenza e facendo
molta attenzione a mantenere
rapporti cordialissimi con il Vaticano,
il re Sole, e già questo dovrebbe dirla
lunga sui vantaggi di affidarsi esclusivamente
ai propri meriti.
Non troppo diversamente è andata,
a sua insaputa però, a Saint-
Exupéry, di cui il 21 aprile è stata
battuta all’asta un’infatuatissima,
poetica lettera scritta fra dicembre
1939 e aprile 1940 a una certa miss
Lawton, signorina senza dubbio energica
conosciuta durante un breve soggiorno
a New York (“Molte cose mi
toccano in voi. Una di queste senza
dubbio è la vostra sicurezza”) e più
volte paragonata alla propria totale
assenza della stessa (“Io sono probabilmente
un eterno bambino prodigio.
Attraverso i deserti del silenzio.
Viaggio nei miei pensieri”): del suo
“Piccolo Principe” e dell’educazione
sentimentale, ma soprattutto morale,
che offre con tanta grazia, viene fatto
quotidianamente strame da ciarlatani
della psicologia e della difesa femminile
a oltranza, tanto che verrebbe
voglia di chiedere ai D’Agay se non si
possa scovare fra le carte dello zio
aviatore qualche appunto che, ricucito
e messo in bella copia, renda giustizia
alla povera volpe, restituendole
il suo ruolo di educatore sperimentale
e non di vittima dell’abbandono
maschile quale non è.
Probabilmente fece bene Mark
Twain a infilare la seguente prefazione
alle sue “Avventure di Huckleberry
Finn”, che Ernest Hemingway
considerava giustamente come il caposaldo
della letteratura americana
moderna: “Avviso. Chiunque cercasse
di trovare in questa narrazione dei fini
sarà perseguito legalmente; quelle
che cercassero di trovarvi una morale
saranno esiliate; quelle che cercassero
di trovarvi una morale saranno
giustiziate”. La logica su cui s’è costruito
il marketing dei dummies, dei
nuls, delle figlie e delle madri sempliciotte,
delle cene dei cretini ma senza
catartico ribaltamento dei ruoli fra gli
impiegatini beoti alla Pignon e i ricchi
editori Brochant nasce da qui:
senza lo stesso spirito, purtroppo.

© Copyright Il Foglio 24 aprile 2010

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