C'è una parola che, forse, può essere la traccia guida del pontificato  di papa Benedetto: "Seguimi". Cinque anni fa l'ha pronunciata, e  ripetuta nove volte, il giorno dei solenni funerali di Giovanni Paolo  II. In primo luogo segna una continuità con il suo predecessore: e come  non potrebbe essere altrimenti avendo collaborato, per lunghi anni, con  il Papa da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma è  un verbo che indica anche il desiderio di accompagnare la comunità dei  credenti sulle strade del Vangelo; un "seguimi", dunque, che diventa  invito ad accompagnarlo sulle strade di un pellegrinaggio tra popoli e  città nel segno della fede, della speranza e della gioia.
"Seguimi" è  allora molto più di un verbo; diventa messaggio per un mondo in cui la  crisi, non soltanto economica, tende a rendere sempre più difficili le  relazioni interpersonali, la capacità di essere vicino all'altro nella  condivisione e nella solidarietà.
Papa Benedetto in questi cinque  anni di pontificato ha chiamato più volte i cristiani ad essere uomini  di questo tempo, ad impegnarsi per il bene comune, chiedendo anche una  nuova stagione di cristiani capaci di spendersi in politica. Come a  Cagliari; e a Cassino, quando ha manifestato la sua solidarietà per un  mondo del lavoro che deve fare i conti con disoccupazione, cassa  integrazione e crisi produttiva.
Proprio quel "seguimi", con il suo  doppio significato, pronunciato a pochi giorni dalla morte del suo  predecessore Giovanni Paolo II, lo pone subito lungo i binari di una  continuità che lo vede a Colonia per la Giornata mondiale per la  gioventù: è la prima Giornata senza Karol Wojtyla, che le ha inventate.  Con la generazione giovanile avrà un altro appuntamento agli antipodi,  in Australia. Sarà la giornata che metterà fine alle voci di coloro che  pronosticavano la conclusione di questi appuntamenti wojtyliani, o  almeno un loro drastico cambiamento. E nella sua Germania non poteva  mancare la visita alla Sinagoga della città, l'unica rimasta in piedi  delle nove esistenti prima del regime nazista e della seconda guerra  mondiale. Ed è tappa che prelude al viaggio in Polonia, nei luoghi cari a  Giovanni Paolo II; ma soprattutto è visita nel luogo dove la follia  umana ha cercato di annientare un popolo: Auschwitz. Una visita che  assume un valenza del tutto particolare. Dirà: non potevo non venire qui  come uomo, come tedesco, come Papa. "Prendere la parola in questo luogo  di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha  confronti nella storia, è quasi impossibile - ed è particolarmente  difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla  Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può  restare soltanto uno sbigottito silenzio che è un interiore grido verso  Dio: perché Signore hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto  questo?". Un silenzio che ha un duplice significato: "Ci inchiniamo  profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di  coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte"; e poi,  silenzio che "diventa domanda di perdono e di riconciliazione, un grido  al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa".
Omaggio ai  sei milioni di vittime della Shoah, è anche il viaggio in Israele,  2009, con la tappa simbolo del mausoleo dell'Olocausto, Yad Vashem.  Chiede perdono al popolo di Israele con le parole di Giovanni Paolo II.  Ma soprattutto definisce inaccettabile e intollerabile la posizione di  chi, tra gli uomini di Chiesa, nega o minimizza la Shoah. Riferimento  esplicito alle posizioni espresse dal vescovo della Comunità di  Lefebvre, Williamson. Una polemica alimentata anche dal "Motu proprio"  che toglieva la scomunica ai vescovi scismatici della Comunità di Econe.
Il  viaggio in Terra Santa ha un inizio in un altro luogo simbolo, il Monte  Nebo, da dove Mosè ha guardato la terra promessa, senza poterla  raggiungere. Anche Benedetto XVI, come già Giovanni Paolo II, dal Monte  Nebo guarda la valle del Giordano. Gerusalemme, i luoghi della Bibbia  sono sotto i suoi occhi. Si è definito pellegrino come milioni di  pellegrini che hanno attraversato la Terra Santa. Come i suoi due  predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Pellegrino con un  messaggio di dialogo, di pace, di riconciliazione da consegnare a questi  popoli. Otto giorni tra Giordania e Israele. Per parlare ai fedeli  delle tre religioni che riconoscono Abramo come padre comune. Per  parlare ai due popoli divisi come quel muro che il Papa attraversa  andando a Betlemme.
Pellegrino di dialogo perché le religioni siano  capaci di costruire ponti di dialogo. Pellegrino di pace, perché i due  popoli possano vivere in due Stati in sicurezza e rispetto l'uno  dell'altro. Il suo è un messaggio che dice no alla violenza, al  terrorismo. E quel muro che separa e divide, accresce l'odio. Chiede ai  popoli della Terra Santa di superare incomprensioni e diffidenze, che  nel tempo hanno allontanato e non avvicinato i popoli. Due popoli e due  Stati.
Il viaggio in Israele, ma soprattutto quelli in Turchia e  Giordania, sono anche appuntamenti per rinsaldare un dialogo con il  mondo islamico. A Ratisbona, nel suo discorso al mondo universitario  Benedetto XVI citava una frase dell'imperatore Bizantino Manuele II  Paleologo in un dialogo con un dotto arabo a proposito della diffusione  dell'Islam. La frase, che sottolineava l'uso della violenza, ritenuta  offensiva per la sensibilità dei credenti musulmani ha provocato  violente reazioni nel mondo islamico. Ma quel testo, ha precisato lo  stesso papa Benedetto, non esprimeva il suo pensiero; per questo  rinnovava l'invito a un dialogo franco e sincero. Dialogo raccolto da 38  teologi con una lettera, cui hanno successivamente aderito altri 100  esponenti islamici.
In quella "lectio magistralis", intitolata "Fede,  ragione e università", il Papa esprimeva la convinzione che le  religioni sono contrarie ad ogni forma di imposizione violenta della  fede, evidenziando, altresì, la convinzione che agire contro la ragione  sia in contraddizione con la natura di Dio.
Un pontificato che si è  mosso lungo i binari di un rinnovato impegno ecumenico, basti ricordare  l'incontro con il Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, o  il dialogo con il mondo anglicano, o con i luterani: proprio di poche  settimane fa è la visita alla Christuskirche di Roma.
Un'ultima  pagina, per la tristissima vicenda degli abusi sessuali compiuti da  sacerdoti nei confronti di minori. Polemiche e critiche sono giunte  soprattutto dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall'Austria,  dall'Irlanda, in seguito alla pubblicazione di alcuni rapporti che  denunciavano numerosi casi. Proprio alla Chiesa d'Irlanda, Benedetto XVI  ha rivolto una lettera pastorale nella quale ha scritto di "condividere  lo sgomento e il senso di tradimento" per questi atti criminali.  Rivolgendosi ai sacerdoti e ai religiosi il Papa ha usato parole dure,  forti: "Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e  dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente,  come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti. Avete perso la  stima della gente dell'Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui  vostri confratelli".
Forse è proprio nella scelta del nome,  Benedetto, che troviamo l'idea di pontificato di papa Ratzinger, che ha  detto, il 27 aprile 2005, di volersi mettere sulle orme del suo  predecessore, nella numerazione, Benedetto XV, "coraggioso e autentico  profeta di pace": "Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a  servizio della riconciliazione e dell'armonia tra gli uomini e i popoli,  profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto  dono di Dio, dono purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e  costruire giorno dopo giorno con l'apporto di tutti".
Fabio  Zavattaro
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