II  Regno di Cristo è vero ed esigente, tanto che è possibile, nella vita,  ascoltare «l'appello del Re» che chiama a combattere. La guerra si combatte anzitutto  nello spirito dell'uomo e ognuno deve «esercitarsi» per saper rispondere  e prendere parte alla santa battaglia. Poi il mondo intero diventa il  campo in cui si schierano decisamente «i compagni di Gesù». Così pensava, nel 1522, il  soldato convcrtito Inigo di Loyola, componendo a Manresa un testo di  Esercizi spirituali che avrebbe segnato profondamente la Chiesa nei  secoli a venire. Allora  egli immaginava che avrebbe combattuto la sua battaglia a servizio di  Cristo direttamente a Gerusalemme, la città del Re Crocifisso, caduta in  mano agli infedeli. Ed erano tempi in cui i Turchi - conquistata Rodi e cambiate in  moschee tutte le chiese in un solo giorno (quello di Natale) - si  dicevano sicuri di giungere a espugnare la stessa Roma. E se a Oriente la minaccia era  il Turco, in Occidente era Luterò. Ma a fermare Ignazio e i suoi amici era proprio  la Chiesa. L'Inquisizione  aveva messo gli occhi sopra il suo libro di Esercizi e Ignazio si era  fatto anche qualche mese di prigione preventiva. La sentenza era stata quella  temuta: a lui e ai suoi amici era proibito interessarsi di anime «finché  non avessero studiato di più, dato che non avevano studi di teologia». Così Ignazio comprese che egli  per primo doveva cominciare a obbedire: per servire Cristo, avrebbe  dovuto rimettersi a studiare, a tren-tasette anni! Latino, logica,  filosofia e teologia gli erano necessari per l'apostolato che si  prefiggeva. «E così  risolvette di andare a Parigi», la città universitaria più prestigiosa  del tempo, che contava trecentomila abitanti, quattromila studenti e  trenta collegi. Cominciò  a studiare latino in una casa dove lo insegnavano ai bambini di nove  anni. Nel 1529, nel  collegio di S. Barbara, iniziò filosofia, e qui ebbe la sorte di  dividere la camera con altri due studenti: uno originario della Savoia,  Pietro Favre, e uno navarrino, Francesco Xavier. Lontani dal supporlo,  erano tutti e tre incamminati alla santità. Il nuovo arrivato decise di conquistarseli. Pietro Favre non era difficile  da modellare. Francesco, invece, era - secondo Ignazio - «la più  selvaggia pasta di uomo che gli fosse mai capitata tra le mani». Aveva ventisette anni, era di  nobile famiglia, e studiava teologia, programmandosi accuratamente un  prestigioso futuro. Non  avendo molto denaro, si manteneva intanto agli studi, insegnando  filosofia. Pensava che, una volta divenuto maestro di Teologia, non gli  sarebbe mancato l'aiuto di un cugino - ch'era ritenuto il maggior  canonista del tempo — per intraprendere la carriera ecclesiastica. Intanto aveva chiesto al  castello natio che gli inviassero tutta la documentazione per dimostrare  la sua antica nobiltà di sangue: doveva (e poteva) dimostrare di avere  almeno trentadue antenati nobili nell'albero genealogico, in modo da  poter sollecitare un posto nel Capitolo di Pamplona. Quando si vide capitare in  camera Ignazio, quel piccolo spagnolo già avanti negli anni che ancora  studiava e viveva d'elemosine, attorniato da amici originali come lui,  Francesco sorrise di disprezzo. E per parecchio tempo seppe dimostrarglielo:  «Non lo incontrava mai senza prendersi gioco dei suoi progetti e senza  mettere in ridicolo gli amici di Ignazio». Tanto più che c'era tra loro anche un'antica  rivalità: nel famoso assedio di Pamplona i fratelli di Francesco avevano  combattuto nel campo avverso a quello di Ignazio, perdendovi ricchezze e  libertà. Ma  paradossalmente proprio quel "mendicante" si mostrava un signore con  lui, prestandogli a volte del denaro con somma liberalità. E non solo:  per fargli fare bella figura, Ignazio mandava i propri amici a  frequentare le lezioni di filosofia tenute da Francesco. Voleva guadagnarlo a Cristo,  tanto più che proprio nel collegio di S. Barbara viveva allora un altro  studente di giurisprudenza, che spargeva le sue idee "protestanti" e  verso il quale Francesco provava qualche inclinazione: si chiamava  Giovanni Calvino. Ripetutamente  Ignazio ricordava a quel difficile compagno di camera la tagliente  parola di Gesù: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi  perde la propria anima?». A Francesco sembrava un tarlo che gli rodeva la coscienza.  Finché si accorse ch'era invece lo Spirito Santo che gli parlava per  bocca di Ignazio. Negli  anni a venire, Francesco non conoscerà frase evangelica più risolutoria  di questa, e sognerà di poterla proclamare anche in faccia ai re di  questo mondo. Scriverà  nel 1548: «Se ritenessi che il re [Giovanni III, del Portogallo] è  convinto dell'amore sincero che gli porto, gli domanderei una grazia,  tutta a suo vantaggio: che ogni giorno dedichi un quarto d'ora a  domandare a Dio nostro Signore di concedergli di capire e di sentire  sempre meglio, dentro di sé, questa parola di Cristo: "Che giova  all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?"». E di questa persuasione  Francesco farà la sua divisa e il suo principio pedagogico  nell'educazione di altri giovani religiosi e missionari. In quei primi tempi, dunque,  egli si lasciò lentamente penetrare dalla parola di Ignazio, fino a che  si operò in lui una vera conversione: un nuovo orientamento del suo io,  proprio in fatto di "sogni", di desideri e di fervore. Quando, il 15 agosto 1534,  alcuni compagni si unirono ad Ignazio, nella cappella sotterranea di  Montmartre, per fare voto di povertà, castità e obbedienza, Francesco  era del gruppo. Poi,  nelle successive vacanze, si immerse pienamente nel progetto della  "compagnia", sottoponendosi per quaranta giorni agli Esercizi  spirituali, sotto la guida dello stesso Ignazio. Fu allora che Francesco acquistò  quella totale disponibilità a lasciarsi usare da Gesù, suo Re e  Signore, in ogni maniera e in ogni forma che a Lui fossero piaciute. Disponibilità che Ignazio  chiamava "indiferencia", non nel senso di un apatico "lasciar fare", ma  nel senso sommamente contemplativo e attivo di chi non mette ostacolo  alcuno a un disegno amato che lo sovrasta da ogni parte. Era il 1535: Ignazio aveva poco  meno di quarantacinque anni,Francesco ne aveva quasi trenta, e altri  cinque compagni li affiancavano. Solo Favre era già diventato sacerdote, e già da  un anno tutti s'erano legati stabilmente a Dio e tra loro, non solo con  i tre voti ma anche con la promessa di recarsi in Terra Santa al  servizio del loro Signore Gesù. Se nel corso di un anno non fosse stato  possibile passare in Palestina, si sarebbero messi a disposizione del  Papa pronti a ogni suo cenno, per il «maggior servizio di Cristo». Nel 1537 tutti avevano  completato gli studi, come stabilito, ed erano in procinto di radunarsi a  Venezia per compiere assieme il loro voto di pellegrinare in Terra  Santa. Qualcun altro s'era aggiunto al gruppo e così Ignazio poteva  contare su «nove fratelli nel Signore». A Venezia attesero a lungo l'opportunità di  imbarcarsi e frattanto si misero a servizio di due ospedali della città,  dove erano ricoverati gli "incurabili" appestati di lue. Nella Chiesa, che offre sempre  nuove esperienze e nuove profondità, i «compagni di Ignazio e di Gesù»  esperimentarono, così, una nuova e inedita forma di carità e di ascesi  monastica: tutti i mesi di attesa (al principio, e poi sempre in  seguito) li passavano esercitando la carità negli ospedali o tra gli  emarginati. Inoltre - in pieno "rinascimento" - si immergevano  volutamente nelle più ripugnanti forme di ascesi, quelle più "medievali"  e per noi quasi inaccettabili. Francesco arrivò fino a lambire il pus  di un malato, per vincere la ripugnanza che provava. Lo scopo era assolutamente  nuovo: disporsi anticipatamente a tutti i disagi della missione;  prepararsi ad affrontare pericoli, avversità, repulsioni, malattie,  fame, freddo, calori intollerabili, interminabili nausee di mare,  compagnie squallide e immorali, sfinimenti, incomprensioni,  fallimenti... Se  riusciamo a immaginare una missione come quella che toccherà a Francesco  Saverio nelle sterminate terre dell'India, condotta senza nessun  sostegno e senza avere a disposizione nessuno di quei mezzi che oggi ci  sembrano ovvi (dalle veloci comunicazioni, alle medicine, ai mezzi di  trasporto, alle risorse economiche), riusciamo a capire un poco che tipo  di uomini occorressero per l'impresa. I «compagni» vi si prepararono con la necessaria  durezza verso se stessi, come ci si prepara a rischiare la vita. Dal Papa avevano intanto  ottenuto il permesso di farsi ordinare sacerdoti. Ma la situazione era mutata e  nessuna nave poteva più salpare: Venezia aveva dichiarato guerra al  sultano di Costantinopoli. Fu così che gli amici di Ignazio (che proprio in questa  occasione si attribuirono il nome di «Compagnia di Gesù») si divisero  per le città universitarie italiane di Padova, Ferrara, Bologna, Siena e  Roma. A Francesco  toccò Bologna. Vi esercitò il ministero con tanta intensa carità che lo  definirono «uomo di molti desideri e di molta preghiera». Dopo un anno, riconoscendo nella  persistente impossibilità di recarsi a Gerusalemme, una divina  indicazione, tutti si radunarono ai piedi del Papa per mettersi  totalmente a sua disposizione. E Ignazio, che aveva aspettato a celebrare la  sua prima Messa perché voleva farlo a Betlemme, la celebrò a S. Maria  Maggiore dove si conservava una reliquia del presepe. E poiché Roma — la loro nuova  Gerusalemme - proprio in quell'inverno fu scossa da una terribile  carestia, si diedero a curare orfani, poveri e moribondi, destando  l'ammirazione del popolo e dei cardinali. All'inizio erano chiamati "poveri preti di  Cristo", o semplicemente "Apostoli". Quando tornò la calma si diedero a sistemare le  questioni della Compagnia anche da un punto di vista canonico. Ma ormai  Francesco era già in mare e viaggiava verso le Indie. Il Papa aveva mandato i  "compagni" nelle città universitarie «per riformare la Chiesa», ma aveva  ceduto al Re del Portogallo che chiedeva quattro gesuiti per le Indie. Ignazio - che allora aveva solo  dieci confratelli - rispose al Re che, se gliene mandava quattro,  «gliene sarebbero rimasti soltanto sei per il resto del mondo» e quindi  gliene poteva inviare al massimo due. «Gliene restavano sei per il resto del mondo»: è  questa folle capacità di avere un piccolo seme e di pensare già in  termini mondiali a rivelarci il carisma del Fondatore. Ma i due che Ignazio designò per  le Indie non riuscirono a partire: uno s'ammalò e l'altro fu fermato  dal Re a Lisbona. Così restò disponibile soltanto Francesco Saverio, che  ricevette dal Papa il titolo di Nunzio Apostolico: rappresentante del  Pontefice «verso tutti i principi e signori dell'Oceano, delle province e  terre delle Indie, di qua e di là del Capo che si chiama di Buona  Speranza e delle terre vicine». In pratica gli era chiesto «di prendere possesso  di quasi tutta la quarta parte del mondo, per la Croce di suo Figlio».  Ed era un uomo solo.La scelta sembrò casuale, ma tutti i compagni  sapevano che era quello il più ardente desiderio del cuore di Francesco.  Racconta un  testimone: «Quando i padri percorrevano l'Italia, servendo negli  ospedali, il padre Francesco e il padre Laynez dormivano uno vicino  all'altro. Succedeva che il padre maestro Francesco, svegliandosi ogni  tanto, dicesse al compagno: "Gesù, come sono stanco! Sapete cosa  sognavo? Portavo sulle spalle un indiano e pesava così tanto che non  potevo trasportarlo"». Un altro compagno l'aveva udito esclamare e quasi gridare,  sempre nel sonno: «Ancora di più, ancora di più!». Da sveglio, Francesco  gli aveva poi spiegato: «Io vedevo nel sogno grandissime fatiche e  pericoli per il regno di Dio nostro Signore; eppure la sua grazia mi  sosteneva e mi animava a tal punto che non potevo trattenermi da  domandarne ancora di più». «Mas! Mas!» («Di più! Di più!») divenne così il grido, il  programma di Francesco, che non gli consentirà più di fermarsi. Sua caratteristica sarà sempre  quella di procedere oltre quando un'iniziativa o un progetto si sono  appena appena consolidati, fino a raggiungere l'estremo confine della  terra. Francesco,  che morirà a quarantasei anni, avrà in tutto dieci anni di tempo,  durante i quali realizzerà tre missioni (una sulle coste indiane della  Pescheria, una nelle Molucche - Celebes e Nuova Guinea - e una in  Giappone): missioni che richiederanno due anni ciascuna. Passerà in  viaggio il resto del tempo, percorrendo - spesso con mezzi di fortuna -  più di centomila chilometri. Circa tre anni li passerà per mare e uno  viaggiando per terra. Sbarcò sulla spiaggia di Goa, capitale delle Indie portoghesi,  nel maggio del 1542, dopo una navigazione durata più di un anno. Gli avevano raccomandato di  viaggiare e presentarsi con tutte le comodità e con il seguito e le  vesti dovuti al suo rango di Nunzio Pontificio. Rispose: «Intendo da me stesso  lavarmi la biancheria, occuparmi del mio pentolino, e servire gli altri:  e con questo spero di non perdere di autorità». E subito fu sua decisione  radicale quella di considerarsi missionario in azione, in ogni istante  della sua vita. È  importante comprendere bene il senso di questa espressione. Francesco  non fu mai un missionario in attesa di raggiungere la sua postazione.  Se, ad esempio, doveva restare in nave per un anno, quell'anno e quella nave e quei  compagni di viaggio (anche se si trattava di marinai ubriaconi,  pervertiti e bestemmiatori) erano la sua missione, notte e giorno. Tutti coloro che lo  attorniavano erano o i suoi fedeli o i suoi pagani, di cui si sentiva  responsabile davanti a Dio. Si curava della catechesi, del rinnovamento morale, della  preghiera; preparava malati e morenti all'incontro con Dio, anche se  doveva farlo quand'era lui stesso febbricitante o in pericolo di vita. Lo stesso avveniva durante i  lunghi viaggi per terra, nei villaggi dove sostava, con i viandanti che  incontrava. Francesco  non era mai in viaggio verso la sua missione: era sempre in missione. E se nella zona dove giungeva  c'era un lebbrosario o una prigione o un ospedale, questi erano sua terra di  missione, a costo di farsi un giaciglio di fortuna ai piedi del letto  degli infermi. Organizzava  scuole di catechismo per i principianti, anche se poi doveva  raccogliere il suo pubblico suonando un campanello per le strade;  preparava celebrazioni e preghiere, e si estenuava nell'amministrazione  dei sacramenti, soprattutto nelle confessioni. Appena aveva un momento libero,  era capace di farsi vedere nelle taverne o dove si giocava a dadi e a  carte, e prendeva perfino parte al gioco, pur di conquistare qualcuno. L'espressione di san Paolo: «Mi  sono fatto tutto a tutti», era per lui un programma di vita su cui non  transigeva mai. Con  i ricchi che lo disprezzavano, usava la tattica di autoinvitarsi a  pranzo (e non si poteva dir di no a un Nunzio Pontificio, per quanto  apparisse zotico e malridotto): e un pranzo gli bastava per  affascinare i suoi  ospiti... Non aveva certo dimenticato le sue nobili origini e la sua  formazione parigina. Si sentiva inviato ugualmente ai pagani incolti e idolatri, ai  poveri schiavi senza speranza, ai ricchi e potenti musulmani, e ai  cattolici portoghesi che lo facevano arrossire per la loro indegna  condotta e per la terribile contro-testimonianza che opponevano alla sua  predicazione. Su  questi ultimi dava un giudizio terribile, scrivendo così a un  confratello portoghese: «Non permettete a nessuno dei vostri amici di  venire nelle Indie con incarichi e uffici del Re, perché di essi si può  dire a giusto titolo: "Siano cancellati dal libro dei viventi e non  siano annoverati tra i giusti". Per quanto abbiate fiducia nelle loro  virtù, se non sono stati confermati in grazia come gli apostoli, non  sperate di vederlifare quello che devono... Tutti seguono la strada  dell'"io rubo, tu rubi". E sono stupito nel vedere come coloro che  arrivano trovino subito tanti modi, tempi e participi di questo  disgraziato verbo "rubare"». Di temperamento naturale Francesco era violento e  intransigente con se stesso e con gli altri, ma anche capace di grande  delicatezza. Era  quasi duro soprattutto con i suoi confratelli che cominciavano ad  affluire, perché era loro responsabile; da essi perciò esigeva una  dedizione simile alla sua e un'obbedienza superiore a ogni indugio. Quando scriveva a Roma,  raccomandava ad Ignazio che non avessero paura di essere molto rigidi e  severi nella formazione delle nuove reclute: rigidi nell'ascesi, severi  nell'obbedienza. Senza  ciò un missionario non poteva dedicarsi davvero alle anime. Il suo primo territorio di  missione - in senso proprio - fu nell'estremità meridionale della  penisola indiana, tra pescatori di perle, gente umile e sempre  sfruttata, costantemente depredata da governanti cristiani e da pirati  musulmani. Giunse  tra di essi con un bagaglio che consisteva in un breviario, alcuni  paramenti sacri e un paio di stivali. La maggior parte di quei poveretti eli cristiano  aveva solo il battesimo, che era stato loro impartito anni prima da  alcuni sacerdoti portoghesi. Francesco non comprendeva la loro lingua;  aveva, sì, degli interpreti incerti, ma si accorse che la trasmissione  era più di danno che di aiuto. E così si fece preparare una traduzione  scritta delle principali preghiere e formule di catechismo.Dicono che Dio gli desse a volte  la grazia di capire e farsi capire, al di là delle insufficienze  linguistiche. Certo è che egli stesso disse: «I poveri mi fanno capire  senza interpreti i loro bisogni e io, vedendoli, li capisco senza  interpreti. Per le cose più importanti non ho bisogno di interpreti». Le sofferenze erano quelle  previste, anzi più gravi ancora: a volte gli toccava attraversare mari  di fango, a volte affondava nella neve, altre volte percorreva terreni  infuocati, sopportando privazioni e pericoli d'ogni genere. Quando non  doveva affrontare briganti, predatori, pirati, cannibali, c'erano le  bestie selvagge e i serpenti velenosi. E, in certi casi, ci si metteva  anche il demonio. Francesco  ammetteva: «Le sofferenze sono tali che per nulla al mondo oserei  affrontarle, nemmeno per un solo giorno». Ma le affrontava lietamente  per il suo Signore Gesù. E c'era poi la pena continua di non poter mai comunicare agevolmente: e quel dover imparare  sempre nuove lingue e dialetti (ogni isola un dialetto), sentendosi  sempre come un bambino che deve cominciare tutto da capo. E, ancora, lo attanagliava un  persistente senso di inutilità: quante giornate in cui si doveva restare  immobili per il capriccio dei venti o si era squassati da immani  tempeste! Mesi in  preda a un continuo mal di mare, mesi in attesa che giungesse un  vascello o che ne partisse uno. Se Francesco voleva fare un po' di conti, si  accorgeva che un giorno su due della sua vita era praticamente inutile,  affidato al caso. Ma  quando una giornata si annunciava vuota o perduta, egli si diceva:  «Inutile angustiarsi, il Signore vuole questa giornata tutta per sé», e  la passava in preghiera. Quando, invece, era sopraffatto dal lavoro, pregava la notte,  per lunghe ore. Gli  riusciva quello che riesce soltanto ai Santi: la sua preghiera notturna  diventava il suo sonno, e il suo sonno diventava preghiera notturna. Dicevano di lui che «durante il  giorno apparteneva totalmente agli uomini, la notte apparteneva  totalmente a Dio...». Passava, dunque, gran parte della notte in preghiera e quegli  indigeni, che faticavano a capire le idee, capivano quanto dovesse  essere bella e profonda quella preghiera estatica in cui lo  sorprendevano quando, a volte, lo spiavano attraverso le fessure della  sua capanna. Gli  chiedevano allora di pregare soprattutto sui malati, e attendevano la  guarigione. Dio spesso si commuoveva, e i miracoli accadevano con  magnifica sovrabbondanza. «E vero, maestro Francesco, che avete risuscitato un bambino  nelle isole Comorin?», gli chiedevano poi nella capitale gli amici  incuriositi da certe chiacchiere che si spandevano a macchia d'olio.  Francesco arrossiva o sorrideva... Ma non si curava solo di catechismo o di  preghiere: quand'era necessario organizzava perfino la resistenza alle  torme dei saccheggiatori che periodicamente giungevano a depredare e  distruggere Intanto  Dio gli maturava nell'anima una comprensione nuova di che cosa fosse  nella Chiesa il mistero dell'unità e della comunione. Era quasi sempre solo.  All'inizio aveva contato sulla corrispondenza e si era quasi affidato a  quest'ultimo legame che gli era rimasto.Prima di partire aveva chiesto a  un confratello: «Scrivetemi tutto lungamente su due o tre fogli di  carta... Vi supplico, fratelli carissimi, di scrivermi a lungo su tutti i  membri della compagnia perché, dal momento che in questa vita io non  spero più di vedervi "faccia a faccia", che almeno vi veda attraverso le  vostre lettere. Non rifiutatemi questa grazia... Quando ci scriverete  nelle Indie, parlate di tutti, uno per uno, dal momento che ciò avverrà  una volta sola all'anno e mandate una lettera che ci impegni a leggere  per otto giorni. Noi faremo lo stesso». Si era perfino illuso che attraverso la posta  gli potessero giungere direttive, indicazioni utili per il suo  apostolato: «Per  quanto riguarda la condotta che devo tenere con questi mori e pagani,  verso i quali vado, scrivetemi lungamente in proposito, per il servizio  di Dio nostro Signore. Spero, infatti, che il Signore mi farà capire per  vostro mezzo la condotta da adottare qui per convertirli alla santa  fede in Lui! Quanto agli sbagli che commetterò mentre aspetto la vostra  risposta, spero in Nostro Signore che le vostre lettere me li faranno  conoscere e mi aiuteranno a correggermi per l'avvenire». Presto capì che anche questo  tenue filo di comunione era destinato ad allentarsi. Erano tempi in cui  un corriere da Roma al Giappone richiedeva quasi quattro anni, per  l'andata e il ritorno, ... se i venti erano favorevoli! Così le prime lettere che egli  ricevette furono quasi le ultime, e Francesco se le strinse al cuore  anche fisicamente: «Per non dimenticarvi mai», scriverà il 10 maggio  1546, «per conservare di voi un ricordo continuo e speciale, per mio  grande conforto, fratelli miei carissimi, sappiate che ho ritagliato i  vostri nomi dalle lettere da voi spedite, i nomi scritti dalle vostre  stesse mani, e li ho uniti ai voti della mia professione. Per la  consolazione che ne provo, li porto sempre su di me». Si firmava: «II vostro fratello e  figlio più piccolo». Dopo quattro anni lo raggiunse finalmente una lettera di  Ignazio. La lesse in ginocchio e rispose: «Mio vero Padre, tra le tante  consolanti e sante parole contenute nella lettera, ho letto queste  ultime: "Tutto vostro, senza che mai io possa dimenticarvi, Ignazio".  Queste parole le ho lette con le lacrime e con lacrime le scrivo...». Dopo la morte di Francesco, in  un sacchetto che egli portava sempre attaccato al collo, i confratelli  trovarono i ritagli delle loro firme e quella di Ignazio, e la formula  della professione religiosa. Ed anche questa è una novità assoluta nell'assimilazione del  mistero cristiano. La  Chiesa conosce da sempre l'esperienza eremitica e monastica nella quale  alcuni cristiani restano immobili e solitali nel suo cuore, e tuttavia  raggiungono gli estremi confini della terra ed entrano in comunione con  tutti i popoli. Così è successo alla carmelitana Teresa di Lisieux. E conosce anche l'esperienza  missionaria nella quale altri cristiani si disperdono fisicamente in  tutte le contrade del mondo ed entrano in contatto con tutte le genti e  tuttavia vivono in una assoluta ed eremitica solitudine contemplativa  col loro Dio. E così accadde appunto al nostro Francesco Saverio. Per questo Teresa e Francesco  sono ambedue "patroni delle missioni" e potrebbero essere, ugualmente  bene, ambedue "patroni della vita contemplativa". Francesco era "solo in mezzo al  mondo" e, tuttavia, era sempre in comunione con la sua amata  «Compagnia». «Le  mie ricreazioni, in questo paese, consistono nel riandare con la memoria  molto spesso a voi, fratelli carissimi», scrive all'inizio. E più tardi: «Questa presenza  in spirito, incessante, che conservo in me, di tutti i membri della  Compagnia è più vostra che mia, nel senso che sono certamente i vostri  sacrifici, le preghiere che fate per me a produrre in me il ricordo...  Siete voi, miei carissimi fratelli in Cristo, a imprimere nella mia  anima la memoria continua di voi stessi». E ancora: «Vi porto impressi nell'anima.  Desidero vedervi». E,  alla fine, concludeva persuaso: «Abbiamo vissuto sulla terra separati  gli uni dagli altri per amore Suo...». La mistica della comunione ecclesiale lo  avvolgeva da ogni parte, ed egli si sentiva sempre più immerso in quella  caratteristica «Compagnia di Gesù» che gli era stata vocazionalmente  donata. Scriveva:  «Se mai io dimenticassi la Compagnia, si paralizzi la mia destra...». Tra Teresa di Lisieux, la  claustrale che vive sola nella sua cella spiritualmente unita ai suoi  fratelli missionari, e Francesco Saverio, il missionario che vive solo  in mezzo al mondo, sempre aggrappato alla "compagnia" dei suoi fratelli,  non c'è più alcuna distanza vocazionale: ambedue si trovano totalmente  immersi nella comunione della loro Chiesa, e totalmente soli  nell'abbandono al loro Dio. Ed ambedue sono completamente avvolti da una realistica  clausu-ra: uno sulle rive di un'isola sperduta in faccia alla Cina,  l'altra nel suo ignoto Carmelo di Normandia. Dopo un soggiorno di due anni  tra i pescatori di perle, detti Paravi, Francesco passò all'altra costa,  quasi interamente abitata da pirati, dove battezzò più di diecimila  persone in un mese. Il  metodo che egli usava era senz'altro sbrigativo e, agli occhi nostri,  non molto dialogico. Il battesimo era preceduto da una sola lunga  catechesi sulle principali verità di fede e di morale e  dall'insegnamento delle preghiere fondamentali. Seguiva, quindi,  l'assegnazione del nuovo nome, e la cura di bruciare pagode e idoli. Solo, in seguito, Francesco si  preoccupava che venissero inviati altri missionari per la normale e  paziente costruzione e conduzione delle comunità cristiane. Metodo discutibile quanto si  vuole: resta il fatto che le cristianità fondate da Saverio sono quelle  rimaste più tenacemente attaccate per secoli al cristianesimo, in  condizioni quasi impossibili. Dicono che, ai tempi della conquista olandese,  verso il 1650, i ministri protestanti provarono a staccare quelle  popolazioni dal cattolicesimo, ma che il Re dei Paravi li fermò subito,  dicendo loro: «Cominciate a fare tra noi tanti miracoli quanti ne fece  il santo padre Francesco, e poi vedremo!». Nel 1545, dopo aver organizzato la prima  missione nel sud-est delle Indie, Francesco passa nella lontana isola di  Celebes: le esperienze e lo stile di vita ripercorrono quanto ha già  operato in India. L'anno  dopo è nell'arcipelago delle Molucche, tremilacinquecento km più in là,  dove i portoghesi hanno gli ultimi avamposti, ai confini del mondo  conosciuto. Prende  queste decisioni senza avere alcuna possibilità di consigliarsi con  alcuno. È talmente solo che deve scegliere in base alla «consolazione  intcriore» che Dio gli fa sentire in cuore, quando si muove nella  direzione giusta. Anche  in questi casi egli «esercita il suo spirito», come gli ha insegnato il  suo padre Ignazio. Poi  si spinse ancora oltre, verso le isole del Moro, dove tra tanti pagani  c'erano anche alcuni vecchi cristiani che i musulmani avevano costretti  all'apostasia. Erano isole così temute che nessuno voleva con-durvelo,  anzi era stata diramata la proibizione di prestargli piroghe o qualsiasi  altro aiuto. Ottenne  un passaggio a forza di pianti. Fece tre volte naufragio, passò tre giorni su un relitto  in balia delle onde, e poi dovette starsene nascosto nella foresta per  sfuggire alle ricerche dei musulmani. Quando più tardi potè raccontare ai suoi  confratelli qualcosa di quell'epica avventura, scrisse incredibilmente: «Queste isole abbondano di  consolazioni spirituali. Tutti i pericoli, le fatiche, se si accettano  volentieri per Dio, sono feconde di sante gioie: gioie tali che, in  pochi anni, a forza di piangere, si perderebbe la vista degli occhi. Non  ricordo di essere mai stato così felice: non sentivo più le sofferenze  del corpo, e intanto andavo continuamente da un'isola all'altra,  circondato da nemici o da amici diffidenti, attraverso una terra che non  offriva rimedi contro le infermità, senza nulla di ciò che può  conservare o proteggere la vita. Queste isole piuttosto che Isole del  Moro dovrebbero chiamarsi Isole della speranza di Dio». Tornò in India per cercare di  convincere i rappresentanti della corona portoghese a prendersi cura di  quelle lontane terre dove dei cristiani soffrivano, ma trovò che essi  non si prendevano cura nemmeno eli quelli più vicini: continuavano a  opprimere le popolazioni indigene e ostacolavano i missionari in mille  modi. Scrisse,  allora, una lunghissima e dettagliata lettera al Re del Portogallo con  parole di fuoco: «Se Vostra Altezza, quando andrà davanti al tribunale  di Dio, fosse accusato dalle mie lettere, non potrà scusarsi dicendo di  non conoscere la situazione». E dopo alcuni giorni, in un'altra lettera gli  annuncia: «Me ne andrò in Giappone per non perdere più tempo come in  passato». E conclude: «Vostra Altezza si tenga pronta, perché i reami e  le signorie passano e finiscono. Sarà una cosa nuova, mai successa a  Vostra Altezza, il vedersi privato nell'ora della morte dei suoi reami e  signorie, per altri reami dove sarà per Lei cosa nuova ricevere comandi  e - Dio non voglia! - essere "mandato" fuori dal Paradiso». Gli avevano detto che il  giapponese era "un popolo saggio" - tanto che la dimora del Re era  circondata di Università -, disponibile naturalmente alla fede cristiana  e in attesa solo d'essere evangelizzato. Gli avevano raccontato che in  quella terra esistevano monaci simili a quelli cristiani e che c'erano  perfino degli idoli che somigliavano ai nostri santi. Decise, dunque, di tentare la  santa avventura. Non gli sfuggivano certo i pericoli a cui andava  incontro. Ma ormai Francesco aveva un solo criterio d'azione, quello che  un tempo lo stesso Ignazio gli aveva raccomandato: «Coloro che vogliono  appartenere alla nostra Compa-gnia devono allontanare da sé tutti i  timori che impediscono loro di avere fede, speranza e fiducia in Dio». La "fiducia" è la tipica  "carità" dell'apostolo. Scrisse: «Tutti i miei amici sono stupiti nel vedermi  intraprendere un viaggio tanto lungo, mentre io sono ancora più stupito  nel vedere la loro poca fede. Da Goa al Giappone ci sono mille e  trecento leghe e forse più. Non potrò mai descrivere la grande  consolazione che provo pensando a questo viaggio a causa dei molti e  gravi pericoli di morte, delle violente tempeste, dei fondali e dei  pirati: è già una buona cosa quando su quattro navi due si salvano. Per  quanto mi riguarda andrò certamente in Giappone, visto tutto quanto ho  sentito nella mia anima, anche se fossi sicuro di incontrare pericoli  ancora maggiori di quelli in cui sono incorso nel passato, talmente  grande è la speranza in Dio nostro Signore che la fede si diffonderà in  queste terre». Si  imbarcò su una giunca cinese, comandata da un certo Pirata, un idolatra  che continuava a offrire sacrifici ai suoi idoli e si muoveva secondo i  loro strani responsi. A Francesco sembrava d'essere in balia di Satana,  ma, nonostante tutto, Dio gli concesse di sbarcare a Kagoshi-ma, un  villaggio molto a sud. Ma era del tutto impotente: per comunicare doveva affidarsi a  un neofita giapponese che si era portato dietro dall'India, con l'aiuto  di un piccolo e discutibile catechismo che erano riusciti a tradurre  assieme in quella strana lingua. I bonzi, ai quali si rivolgevano, erano cortesi e  insieme ironici, e si irritarono quando Francesco cominciò a  rinfacciare loro le ipocrisie e i vizi in cui molti erano immersi,  dietro una facciata di devozione. Le conversioni erano rare e difficili.  Francesco  insisteva per raggiungere la capitale e incontrare l'imperatore, ma il  signore del luogo temporeggiava, cercando il modo di servirsi di quegli  stranieri. Le  schermaglie durarono un anno. Finalmente Francesco e il catechista  riuscirono a partire per la grande città di Yamaguchi. Ma anche qui la  loro predicazione - soprattutto quella in tema di moralità (Francesco  spiegava ai giapponesi che certi vizi molto diffusi in quelle terre li  rendevano «più sporchi del maiale e peggiori dei cani») - non era  destinata a renderli popolari. Riuscirono a raggiungere la capitale, ma non  l'imperatore perché era tempo di disordini, rivoluzioni e congiure, e  l'imperatore, vecchio  e incapace, era asserragliato nel suo palazzo in rovina. Tornò a Yamaguchi e, poiché  aveva capito che i giapponesi disprezzavano messaggeri che si  presentavano poveramente conciati, si fece arrivare dall'India vesti e  doni principeschi, tra cui un orologio che suonava le ore, un  archibugio, una spinetta a corde, alcuni occhiali. Si presentò in abiti  di seta come un grave e saggio ambasciatore, con palanchino e scorta. Tra l'altro Francesco comprese  che non poteva limitarsi a parlare di fede e di morale e cominciò a  sfoderare tutta la sua antica cultura parigina, discutendo anche di  comete, di fenomeni celesti, di saggezza... E vennero le prime conversioni, poche ma  fruttuose. Tuttavia  capì che l'impresa era più ardua di quanto non avesse immaginato: ci  volevano missionari che fossero anche «Maestri in arte» (cioè: in  filosofia e scienze) e soprattutto (questo è più tipicamente  "saveriano") bisognava spingersi più lontano ancora, cioè bisognava  partire dalla Cina. I  giapponesi, culturalmente dipendenti da quell'antico impero, alle  verità annunciate da Francesco obiettavano: «Se quel che tu dici è vero,  come mai in Cina non ne sanno nulla?». E decise, conseguentemente, di organizzare una  missione in Cina. Tornò  in India e qui lo raggiunse la notizia che Ignazio l'aveva nominato  Superiore Provinciale della nuova Provincia Indiana della Compagnia. Restò a Goa solo tre mesi:  prese le prime importanti decisioni, designò un vice-provinciale, poi  ripartì, convinto che il compito primo di un Superiore è quello di  rendersi conto personalmente delle situazioni più difficili. Per preparare il viaggio in  Cina in forma di ambasciata del Re del Portogallo, e per vincere ogni  resistenza, fece uso per la prima volta di tutti i suoi poteri di Nunzio  Pontificio. Riuscì  solo a farsi sbarcare privatamente nell'isoletta di Sancian, a poca  distanza da Canton, terra di contrabbando, con la compagnia di un servo  malabarese e un ragazzo cinese convcrtito, Antonio, che avrebbe dovuto  fargli da interprete. Era inverno, i mercanti disertavano l'isola, e Francesco non  poteva più contare sull'aiuto di nessuno, ma aspettava ancora un  mercante cinese che gli aveva promesso di farsi vivo per il 19 novembre  di quel 1552. Nell'ultima  lettera scritta da Saverio sull'isola, in un postscriptum, si legge:  «Aspetto ogni giorno un cinese che deve venire da Cantori a prendermi». Francesco se ne stava nella sua  capanna di paglia, contemplando alternativamente l'orizzonte lontano e  un crocifisso che gli avevano messo accanto. Quando la data fissata  passò senza che nessuna barca comparisse all'orizzonte, egli, stremato  dalla fame e dal freddo, e tutto solo, capì che la morte era ormai  vicina. Sulle sue  labbra tornavano le preghiere che aveva imparato da fanciullo e che, di  nuovo, recitava nella lingua materna. E forse, mentre era tanto solo e già morente,  ripensò a quel sogno che aveva, a volte, accarezzato: percorrere le aule  delle università d'Europa e chiamare infuocatamene alla missione tutti  quei giovani studenti e professori che «avevano più scienza che carità».  Aveva sognato un  popolo di giovani universitari, capaci di accogliere l'invito di Cristo e  di risponderGli animosamente: «Mandami dove vuoi, magari anche in  India!». Invece  pochi sentivano quel fuoco che ardeva nelle sue povere ossa malate. Morì così, tutto proteso a una  missione immensa che non aveva potuto nemmeno cominciare, il 3 dicembre  1552. Ma su quella  sponda abbandonata, già batteva il cuore della Chiesa.
DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
BIOGRAFIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO. Di Antonio Maria Sicari
(1506-1552)