Permettetemi di iniziare con un episodio verificatosi nei primi tempi dopo il Concilio. Il Concilio aveva aperto per la Chiesa e la teologia ampie prospettive di dialogo, soprattutto con la sua Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma anche con i Decreti sull'ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Nuovi temi si aprivano, e nuovi metodi divenivano necessari. Per un teologo, che voleva essere all’altezza dei tempi e aveva un concetto giusto della sua missione, appariva come ovvio, innanzitutto lasciare per un momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con tutte le energie ai nuovi problemi, che da ogni parte si ponevano.
In quell’epoca io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.
I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.
Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo.
Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l'altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?
La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell'essere con.
Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l'essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell'agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente.
Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io... (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo.
Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia.
Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente.
In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito ... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152).
Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167).
Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale.
Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione.
Per concludere vorrei ancora soltanto toccare l’altra questione, che abbiamo incontrato all'inizio delle nostre riflessioni: quella che riguarda il come della fede. In Paolo si trova in proposito una parola singolare, che ci potrà aiutare. Egli dice che la fede è un’obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento, alla quale siamo stati consegnati (Rom6,17). Si esprime qui in fondo il carattere sacramentale dell’atto di fede, l’intimo legame fra confessione di fede e sacramento. È propria della fede una “forma di insegnamento”, dice l’apostolo. Non la inventiamo noi. Non ci viene come un’idea dal di dentro di noi, ma come una parola dal di fuori di noi.
È in certo qual modo parola dalla parola, noi veniamo “consegnati” a questa parola, che indica nuove vie al nostro pensiero e dà forma alla nostra vita. Questo “essere consegnati” ad una parola che ci precede si realizza attraverso la simbologia di morte dell’immersione nell’acqua. Ciò ricorda la frase precedentemente citata, “Io vivo, ma non più io”; ricorda che nell’atto della fede si compiono morte e rinnovamento dell’io. La simbologia di morte del battesimo unisce questo nostro rinnovamento alla morte ed alla resurrezione di Gesù Cristo.
Questo essere consegnati alla parola che ci ammaestra è un essere consegnati a Cristo. Non possiamo accogliere la sua parola come una teoria, come si apprendono ad esempio formule matematiche e opinioni filosofiche. La possiamo apprendere solo nella misura in cui accettiamo la comunione di destino con lui, e questa la possiamo attingere solo laddove egli stesso si è legato permanentemente con gli uomini in una comunione di destino: nella Chiesa. Usando il suo linguaggio chiamiamo questo processo dell'essere consegnati “sacramento”. L’atto di fede non è pensabile senza il sacramento.
A partire di qui possiamo però capire la costruzione letteraria concreta del Catechismo. Fede, così abbiamo udito, è essere consegnati ad una forma di insegnamento. In un altro passo Paolo chiama questa forma di insegnamento professione di fede (cfr. Rom10,9). Qui emerge un altro aspetto dell’evento della fede: la fede, che come parola viene a noi, deve diventare di nuovo parola anche presso di noi stessi, in quanto nello stesso tempo si esprime la nostra vita. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è privata, ma è pubblica e comunitaria. Da parola diviene innanzitutto concezione, ma deve anche continuamente da concezione diventare parola ed azione.
Il Catechismo indica le diverse forme di confessione della fede, che ci sono nella Chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di fede formulate da Concili, professioni di fede formulate da Papi (192). Ciascuna di queste professioni di fede ha il suo significato specifico. Ma l’archetipo della professione di fede, sul quale tutti gli altri si fondano è la professione di fede battesimale. Laddove si tratta della catechesi, cioè dell’introduzione alla fede e alla vita nella comunione di fede della Chiesa, si deve partire dalla professione di fede battesimale. Ciò avviene fin dai tempi apostolici e doveva pertanto essere anche la strada del Catechismo. Esso svolge la fede a partire dalla professione di fede battesimale. Appare così chiaramente in quale maniera vuole insegnare la fede: catechesi è catecumenato. Non è una semplice lezione di religione, ma il processo del donarsi e del lasciarsi donare alla parola della fede, nella comunione di destino con Gesù Cristo.
È proprio della catechesi l’itinerario interiore a Dio. Sant’Ireneo dice in un passo, a questo proposito, che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita. La catechesi dovrebbe anche essere sempre un processo del genere di assimilazione a Dio, poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza.
“Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole”, ha scritto Goethe a commento di un detto di Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il che cosa ed il come della fede sono strettamente legati. In tal modo diventa ora visibile anche la dimensione morale dell'atto di fede: esso implica uno stile di esistenza umana, che non produciamo da noi stessi, ma che apprendiamo lentamente attraverso l’immersione del nostro essere immersi nel battesimo, nel quale continuamente Dio agisce in noi e nuovamente ci attira a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiano, nel quale noi non siamo soltanto attori, ma sempre, anzi, addirittura in primo luogo ricettori, in una ricezione, che significa trasformazione.
Non è quindi per mania di archeologismo che il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a partire dalla professione di fede battesimale della Chiesa di Roma, dal cosiddetto Simbolo apostolico. In esso si manifesta piuttosto la vera natura dell’atto di fede e così la vera natura della catechesi come un esercitarsi ad esistere con Dio.
Così, appare anche che il Catechismo è totalmente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come la ha intesa il Vaticano secondo. Infatti il Simbolo è innanzitutto, come abbiamo visto, professione di fede nel Dio trino, che si sviluppa dalla formula battesimale ed è ad essa legata.
Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento.
Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo dell’unica verità, che è Dio stesso – l’amore che muove il sole e l'altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII,145).
trascrizione della riflessione tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano, il 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è apparso sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, dal titolo La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73