Secondo l’università americana John Hopkins, tutte le Ong internazionali e nazionali messe insieme rappresentano la quinta economia del pianeta, con un bilancio annuale, per le sole emergenze dovute a catastrofi naturali e conflitti armati, di sei miliardi di dollari offerti dai governi e di altre centinaia di milioni di dollari donati dai privati. La Croce Rossa Internazionale stima che al momento in ciascuna delle maggiori situazioni di crisi operino in media un migliaio di Ong e circa 10 diverse agenzie Onu.
Questi dati sembrano la confortante documentazione della generosità umana ben indirizzata e utilmente messa a frutto finché non si legge L’industria della solidarietà, il libro scritto da Linda Polman, una nota giornalista free lance olandese, docente di giornalismo presso l’Università di Utrecht. Vi si scoprono, raccontate da una professionista accreditata, sprechi, improvvisazione, protagonismi di operatori umanitari irresponsabili, cifre gonfiate sull’entità di un problema per ottenere più finanziamenti, concorrenza tra le Ong per aggiudicarsi l’attenzione dei mass media e quindi i fondi dei governi e degli organismi internazionali, rapporti più che approssimativi su spese e risultati conseguiti.
Tuttavia, se si trattasse solo di questo, si potrebbe continuare a pensare che, ciononostante, le Ong svolgono una indiscutibile funzione positiva, insostituibile e irrinunciabile, e quindi che le disfunzioni e le distorsioni, per tante che siano, non devono minimamente mettere in discussione l’attuale sistema degli aiuti internazionali perché sarebbe come buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Ma Linda Polman affronta anche altri problemi che sollevano seri interrogativi sull’esito stesso delle attività umanitarie svolte in zone di guerra e che peraltro sono ben noti a tutti coloro che si occupano a vario titolo delle emergenze causate dai conflitti.
Tra quelli descritti dall’autrice, vi è il fenomeno dei cosiddetti refugee warriors, i combattenti che si mescolano e si nascondono tra i civili accolti nei campi per profughi e sfollati. Si tratta di una tattica abituale al punto che – scrive Linda Polman – «secondo alcune stime, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti dei campi profughi del mondo sono refugee warriors che tra un pasto e un trattamento medico portano avanti le loro guerre».
Un caso particolarmente grave si è verificato nei campi allestiti a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo orientale, per accogliere centinaia di migliaia di profughi dal Rwanda dopo lo scoppio della guerra civile che nella primavera del 1994 ha provocato la morte, secondo le stime governative, di 937.000 persone prevalentemente di etnia Tutsi in soli 100 giorni. A lasciare il paese inseguiti dall’esercito Tutsi erano gli Hutu, autori del genocidio, inclusi i militari e l’intera classe politica, che continuarono per qualche tempo il massacro dei Tutsi in patria e anche di quelli residenti in Congo, tornando ogni sera nei campi trasformati in quartieri militari sotto gli occhi degli operatori umanitari.
Ma ancora più preoccupante è la quantità immensa di denaro e di beni destinati alle popolazioni in difficoltà, seviziate, spogliate di ogni bene e messe in fuga dalle milizie contendenti, che in un modo o nell’altro – sotto forma di dazi per il transito dei convogli, di estorsioni, percentuali concordate, furti sistematici e via dicendo – finiscono invece sistematicamente nelle mani dei combattenti, i quali perciò dispongono di essenziali risorse per continuare a lottare e a infierire sui civili inermi. «Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali – spiega Polman – i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci» e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durate delle guerre. Nel gergo degli addetti al lavoro, questi accordi tra Ong e combattenti vengono definiti «shaking hands with the devil»: patti con il diavolo.
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