da Tempi del 13 aprile 2010
Il pagliaccio fa la seconda capriola sopra il cemento consumato del campo da pallacanestro, la parrucca di riccioli biondi rischia di cadere. Ma la piccola folla di bambini ancora non sa esattamente da che parte guardare. Più interessanti dei due clown che si stanno esibendo sono i fucili mitragliatori della sessantina di soldati brasiliani della Minustah in mimetica e giubbotto antiproiettile che affollano quest’area di Waf Jeremie, la più malfamata e la più falcidiata dal terremoto di tutte le baraccopoli di Port-au-Prince. I loro anfibi incutono soggezione. Gli occhiali a specchio suscitano desideri illegittimi.
Alla televisione avete visto i grandi crolli del Centre Ville: la cattedrale, il palazzo presidenziale, la sede dell’Onu. Forse ricordate l’apocalisse di Leoganes, cittadina non grande che ha avuto il 98 per cento di edifici distrutti o inagibili. Ma a sollevare il numero delle vittime all’ordine delle centinaia di migliaia (230 mila l’aleatoria cifra ufficiale) sono stati gli invisibili sfasci negli slum. Dove i mattoni traforati si usano eccome, ma tenuti insieme con cemento di sabbia marina che si sfarina come niente e appoggiati al suolo senza fondamenta. Sono venuti giù, a pioggia o tutti insieme con la parete, e hanno ucciso astanti e abitanti.
A Waf Jeremie i caschi blu non entrano mai. Ci entra solo la polizia haitiana alla caccia di qualcuno dei quattromila criminali evasi dalle prigioni a causa del terremoto. Ogni volta sono sparatorie dove a rimetterci sono soprattutto passanti e bambini. Oggi i brasiliani sono qui per consegnare generi alimentari donati dal governo cinese: una pratica borsa di rafia con dentro quattro razioni di noodles (specie di tagliatelle di riso), quattro scodelle di plastica, un pacchetto di biscotti. Le donne (gli uomini non sono ammessi alle distribuzioni di generi alimentari, i mitra sono lì anche per evitare che se lo dimentichino) non sanno che da più di un’ora stanno facendo la coda per questa miseria. I brasiliani, che non sono stupidi, per pompare un po’ lo show hanno installato anche uno stand con un parrucchiere per uomo e una clinica dentistica volante. Fra due ali di caschi blu a mitra spianato arriva un pulmino con dentro una delegazione dell’ambasciata cinese. Scendono giù una decina di persone in camicia bianca e pantaloni beige. Non si capisce se sorridono o cosa, perché davanti alla bocca hanno quasi tutti la mascherina.
Sorride invece, amaramente, suor Marcella Catozza, francescana di Busto Arsizio (nella foto che dobbbiamo al sito dell'ONLUS Key La che ne sostiene l'opera) che in questo posto svolge opera missionaria da cinque anni. Un volto mistico su un corpo brevilineo da lottatrice: «Domani la gente sarà molto agitata. Sperando che le cose non finiscano male stasera. Però la differenza tu l’hai vista, vero?». La differenza è che giusto poco fa, a duecento metri dal posto dove i cinesi hanno convocato la loro recita, 150 bambini hanno pasteggiato a riso e fagioli cucinati dai volontari haitiani dell’associazione Kay La di suor Marcella dopo una mattinata di scuola informale animata da un ragazzo francese, una giovane italiana e due suore americane. E non c’è stato bisogno nemmeno di un poliziotto scalcinato. Intanto sulla strada che va al molo che dà il nome al quartiere due suore spagnole e una volontaria americana stanno facendo visite pediatriche nell’ambulatorio di fortuna che suor Marcella ha riaperto con l’aiuto di Regione Lombardia sotto una tenda, essendo pericolante l’edificio che prima del terremoto l’ospitava, e mezzo chilometro più in là il dottor Fabio, un oncologo e consulente sanitario milanese, in un’altra tenda ambulatorio si occupa anche degli adulti. La sera torna a casa un po’ stralunato ripassando la lista dei casi statisticamente dominanti: infestazioni di parassiti intestinali, infezioni delle vie urinarie, patologie respiratorie, infezioni e micosi ginecologiche, malattie veneree: e pensare che le haitiane sono belle come dee, e i giovani uomini come dèi.
La professionalità dei missionari
A suor Marcella si devono anche le cinquanta tende che la Protezione civile italiana ha installato sul posto dopo aver ripulito l’area e posato ghiaia grossa per la prevenzione di allagamenti: in ognuna vivono due famiglie di terremotati scelti fra i più svantaggiati. Le due cucine da campo si devono ai militari italiani della Cavour e ai Vigili del Fuoco. E adesso gli ambulatori, la mensa e le attività educative per i bambini conosceranno giorni radiosi perché Avsi e Terre des Hommes, Ong presenti ad Haiti da prima del terremoto, li trasformeranno in interventi di salute pediatrica e di lotta alla malnutrizione infantile. Ogni giorno Marcella e gli altri volontari e missionarie stranieri entrano a Waf Jeremie senza neanche una pistoletta, perché la gente li conosce e si fida: da quando cinque anni fa la religiosa è venuta qui e ha cominciato a parlamentare coi capi delle bande, si è guadagnata la fiducia di tutti.
Parc Bobi e Place Fierté sono due delle centinaia di tendopoli sorte in Haiti per dare riparo a 1 milione e 300 mila senzatetto. La cifra aumenta ad ogni nuova scossa di terremoto e anche perché la distribuzione di aiuti attira i residenti delle zone più povere, anche se le loro dimore sono rimaste in piedi. Nonostante il fenomeno, unico nella storia del Terzo Mondo, di 500 mila persone che dopo il terremoto sono tornate nei distretti rurali dai quali erano emigrate in città (solo i khmer rossi in Cambogia finora erano riusciti a produrre una contro-migrazione, coi noti metodi).
Dieci anni di presenza
Le due tendopoli suddette si trovano a Cité Soleil, quartiere-comune della capitale che ha fatto la storia recente di Haiti: da lì venivano i famigerati Tonton Macoutes, sicari al servizio della dinastia dei despoti Duvalier, e ancora lì hanno dominato le Chimères, le bande armate al servizio del presidente populista Aristide, oggi esule in Sudafrica. L’ultima volta che in questi posti sono entrate truppe americane è stato nel 1994, quando Bill Clinton mandò i marines per restaurare l’allora popolarissimo Aristide, deposto dai militari. È successo nuovamente il 31 marzo 2010, quando il generale a tre stelle Visot è entrato con una dozzina dei suoi prodi prima nell’una e poi nell’altra tendopoli e ha chiesto di parlare con… Marino Contiero, logista di Avsi. La voce che l’associazione italiana tiene le chiavi della più tumultuosa bidonville della capitale deve essersi sparsa dopo che la Protezione civile italiana, la Regione Lombardia, l’Unicef e il Programma alimentare mondiale (Pam) si sono appoggiati su di essa per fare affluire tende, medicine, generi alimentari e materiale didattico che sono andati a chi più aveva bisogno. Pam e Unicef l’hanno scelta come partner di un progetto di quattro mesi per la lotta contro la malnutrizione infantile, nel corso del quale saranno distribuiti 413 quintali di alimenti. Avsi s’è costruita la sua credibilità e libertà di movimento a Cité Soleil in dieci anni di presenza con progetti rivolti ai giovani, dalla formazione professionale alla mediazione dei conflitti fra le bande che controllano e agitano allo stesso tempo il quartiere. Persino alcuni capibanda hanno deciso di cambiar vita, e oggi li si riconosce in mezzo al personale locale dei progetti.
«La nostra sicurezza sono le opere»
Visot, affabilissimo coi suoi tratti afro-ispanici, pone tantissime domande, e alla fine fa la sua offerta: «Visto che pagate 500 dollari alla settimana per l’acqua, sareste d’accordo se noi vi offrissimo di rifornire gratis i serbatoi a Parc Bobi?». Marino ha mangiato la foglia e sorride: la base del generale confina con quella tendopoli, gli americani hanno studiato di fare un gesto di buon vicinato accertandosi prima di tutte le possibili controindicazioni. Accetta la proposta con mille ringraziamenti e un solo appunto: «Per noi è meglio se non venite come avete fatto oggi, ad armi dispiegate. La nostra incolumità non è legata a un dispositivo di sicurezza, ma alle cose che facciamo con questa gente».
Vacanze di Pasqua nelle tendopoli
I volontari amici di suor Marcella e le dottoresse degli ambulatori di Avsi nelle tendopoli alloggiano, insieme ad altri volontari italiani e a religiose ispaniche, presso il seminario dei padri scalabriniani, quartiere Croix de Bouquet. Un’oasi di civiltà e di speranza circondata da un mare di bisogno, rovina e confusione. Qui tutti i giorni si vedono arrivare container dall’Italia e dagli Stati Uniti carichi di ogni genere di aiuti. Rapidamente vengono svuotati e altrettanto rapidamente il materiale raggiunge luoghi di bisogno effettivo come un proiettile che colpisce il bersaglio. Perché a reggere la barra qui è il padre Giuseppe Durante, 35 anni di missione 15 dei quali in Haiti. Tanti aiuti e tanti volontari affluiscono qui perché c’è la certezza che nulla verrà sprecato, grazie alla saggezza e al know-how dei missionari che sono presenti da una vita.
Le notti alla missione sono percorse dagli eccessi bronchitici e dalle corse al bagno di medici, infermiere e suore da ambulatorio: prendersi cura dei terremotati non è senza un prezzo. Chiedetelo a Raffaella Pingitore, a Clotilde Manzoni e a chi le ha incontrate. Attorno a un tavolo Carlo, giovane ingegnere romano, Piero, perito elettrotecnico della Bergamasca, e Filippo, suo ex collega catanese trapiantato a Milano, scherzano con Alessandro Caretti, logista dell’Associazione Protezione civile A2A, sullo sbrego che attraversa il suo polpaccio sinistro. Hanno rinunciato alle vacanze di Pasqua in famiglia per venire qua a installare pannelli solari del valore di 30 mila euro per sostituire l’antiquato impianto elettrico alimentato dai diesel. La ferita è solo l’ultima di una serie di disavventure: perquisizioni in aeroporto, notti dentro a un camion alla frontiera fra Haiti e Repubblica Dominicana, acrobazie tecniche per supplire alla mancanza di attrezzature in loco. Nel 2004 erano stati nello Sri Lanka post-tsunami a riparare impianti e linee elettriche nella zona tamil. Anche allora a subire i dispetti dei militari singalesi e a beccarsi la dissenteria. Nonostante questo nessuno rimpiange di essere andato là e poi di essere venuto qua. Perché gli italiani, quando vogliono, fanno così.