DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il cammino verso ciò che inizia

di Silvia Guidi

Un pellegrinaggio a piedi, una visita a un santuario, o accettare di dedicare un pomeriggio o un'intera giornata ad "allenare lo sguardo" lungo le tappe di uno dei Sacri Monti che punteggiano il Nord Italia, è qualcosa che si fa, non qualcosa che si pensa. Sembra ovvio ma non è un dettaglio irrilevante; anzi, è probabilmente la caratteristica che rende proprio questo "camminare verso una meta" uno degli antidoti pedagogicamente più efficaci alla tendenza all'astrazione anaffettiva (soprattutto in materia religiosa) tipica della nostra epoca.
"Nello snervante comodo della vita moderna la massa delle regole che danno consistenza alla vita si è spappolata - scriveva all'inizio del Novecento Alexis Carrel in Riflessioni sulla condotta della vita - la maggior parte delle fatiche che imponeva il mondo cosmico sono scomparse e con esse è scomparso anche lo sforzo creativo della personalità. La frontiera del bene e del male è svanita, la divisione regna ovunque. Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità".
Traducendo il linguaggio scientifico di Carrel, giovanissimo Nobel per la medicina nel 1912, e sostituendo la parola ragionamento con "dialettica in funzione di un'ideologia" otteniamo un ritratto piuttosto fedele del nostro tempo, figlio del cogito cartesiano, in cui molto spesso invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolarla secondo le coerenze di uno schema fabbricato a priori dall'intelligenza. Di ragionamento in ragionamento, quasi insensibilmente si finisce per privilegiare un'idea già presente alla mente rispetto all'osservazione insistente, tenace, non sempre "comoda" del fatto reale.
Una trappola intellettuale tanto più raffinata quanto più insidiosa, quella dell'ideologia, non certo esclusiva del ventesimo secolo ma antica come l'umanità (dal peccato originale in poi): ego quid sciam quaero, non quid credam scriveva Agostino nei Soliloquia comprendendo la necessità di smascherare le premesse di un equivoco pericoloso. Se infatti sappiamo una cosa possiamo dire anche di pensarla, ma sant'Agostino ci avverte che non è vero il contrario; spesso concediamo troppo privilegio a questo pensare, per cui senza rendercene conto - o addirittura giustificandolo come un atteggiamento dettato da onestà intellettuale - proiettiamo sul fatto ciò che ne pensiamo.
Un pellegrinaggio, breve o lungo che sia, implica una decisione iniziale, una fatica da affrontare, una meta da raggiungere. Ciò che muove è la bellezza e l'importanza della meta, non solo l'attrattiva del viaggio (l'opposto speculare di quello che siamo abituati a leggere sulle agende radical-chic, sulle guide di viaggio, nei reportage degli scrittori più noti, nei testi delle canzoni che ci troviamo a canticchiare sovrapensiero, "ciò che conta è la strada, non la meta").
"Mettiti in marcia e non ti spaventare; raramente emerge il meglio di noi durante un pellegrinaggio" ripeteva spesso don Divo Barsotti ai suoi ragazzi con il suo consueto pragmatismo cristiano: un paio di scarpe scomode o i postumi di un eritema solare privano il cammino di qualsiasi facile poesia. Durante la strada spesso ci scopriamo distratti, facilmente annoiati, molto meno "magnanimi" del previsto; insieme alla stanchezza arriva l'insofferenza per i compagni di viaggio e fanno capolino le lamentazioni e i "chi me l'ha fatto fare". Per questo la meta non è un optional, ma è ciò che determina il "vale la pena" del viaggio; è solo un traguardo veramente desiderabile che sostiene la tensione del camminare, anche quando le scorte dell'entusiasmo iniziale sono esaurite. Proprio le difficoltà della strada e le brutte sorprese su di sé in cui ci si può imbattere svelano "il nostro feroce bisogno di essere salvati" come amava dire Barsotti, traducendo in linguaggio cristiano l'esperienza degli "scorticati", del filosofo rumeno Emil Cioran, "coloro che pensano a partire da ciò che li ferisce".
Ferisce il dolore, la delusione di essere più piccoli, smarriti e deboli del previsto, ma anche la delectatio victrix di immagini che, inaspettatamente, descrivono i trasalimenti e i desideri più veri del proprio cuore. "Quando mi è stato proposto il tema di questa mostra mi sono chiesto, con preoccupazione, se avrei avuto il tempo di realizzarla, visto che avrei dovuto salire ogni Sacro Monte, come un insolito pellegrino gravato dal peso della tecnologia - confessa Pier Ilario Benedetto nella prefazione al suo libro fotografico Natività nei Sacri Monti - ma la luminosità che mi accoglieva rendeva il lavoro sorprendentemente facile. La Natività era spalancata in un senso generale di allegria che sprigionava dall'aria e dalla natura, dalle cappelle bianche in mezzo all'erba, dai barbagli di sole che cadevano tenui dagli abeti, dal silenzio pacificato che cantava oltre le grate delle celle. In questo modo sono stato accompagnato verso ciò che inizia, sia essa una vita come nel caso della Natività di Maria, Gesù o Francesco, sia la strada che quella vita sta per intraprendere. Momenti che sanciscono una rottura da un prima a un dopo, che nulla più ha a che fare con il tempo che è stato".



(©L'Osservatore Romano - 26-27 aprile 2010)