di Vittorio Sabadin
L’allarme causato dall’eruzione del vulcano islandese, che ha avuto come conseguenza il blocco dei voli su quasi tutta l’Europa, è stato ampiamente esagerato da modelli matematici imprecisi e da computer che hanno elaborato dati non supportati da alcuna prova scientifica. Passata l’emergenza che ha causato gravi disagi a milioni di persone e 1,7 miliardi di euro di danni (li pagheremo con le nostre tasse, sotto forma di rimborsi statali alle compagnie aeree), gli esperti ricominciano a ragionare con maggiore calma. E non tutti sono convinti che la decisione di chiudere gli scali sia stata quella giusta.
La confusione che ha regnato per una settimana nei centri di controllo era tale che i computer di Eurocontrol (l’agenzia che gestisce il traffico aereo europeo) segnalavano la presenza di cenere vulcanica solo in due ampie zone dell’Oceano Atlantico, mentre quelli del servizio meteo inglese e del centro di controllo Nats, che coordina migliaia di voli intorno alla Gran Bretagna, affermavano che la nube nera aveva invece coperto ampie zone dell’Europa.
Anche i possibili danni ai motori, causati dall’impatto con ceneri già ampiamente disperse nell’atmosfera, è stato esagerato dai modelli matematici: alcune compagnie, come Klm e British Airways, hanno effettuato test in volo, senza riscontrare danni ai propulsori. Secondo Aage Duenhaupt, portavoce di Lufthansa, «quello che i nostri piloti hanno verificato in quota non corrispondeva per nulla a quello che ci avevano detto i computer».
Se le inchieste in corso confermeranno quanto sta emergendo, dovremo concludere che non è stata la natura selvaggia a piegare il nostro mondo tecnologico. E’ stata anzi l’eccessiva fiducia che riponiamo nella tecnologia a causarci gravi danni. Non sarebbe la prima volta. Molti sospettano ad esempio che la grande crisi economica che stiamo attraversando sia stata favorita lo scorso anno dalla perdita di controllo sugli algoritmi che ormai governano quasi tutte le operazioni finanziarie.
Banalmente, gli algoritmi sono un elenco di passi da compiere in un determinato ordine per ottenere il risultato che si desidera. Anche una ricetta di cucina o il libretto di istruzioni del telefonino sono a loro modo algoritmi. Al London Stock Exchange quasi il 50% degli scambi è ormai gestito da supercomputer che eseguono i passi necessari per ottenere il risultato da sempre più desiderato: fare molti soldi. Negli equity markets americani l’80 per cento delle operazioni non vede più coinvolti esseri umani, se non i «quantities analysts», brillanti laureati in Fisica o in Matematica che i gestori si contendono per progettare algoritmi sempre più intricati.
George Dyson, figlio del fisico quantistico Freeman, ha scritto un saggio per cercare di spiegare da un punto di vista matematico l’ultima crisi economica. E’ arrivato alla conclusione che «i mercati non sono mai stati tanto automatizzati: siamo in balìa di un sistema finanziario basato su operazioni così complesse da poter essere eseguite unicamente da macchine».
La dipendenza dai computer non riguarda però solo i grandi sistemi, ma caratterizza ormai le più semplici azioni della nostra vita quotidiana. Il «Financial Times» ha dedicato giorni fa una pagina a come le applicazioni della Apple per l’iPhone o per l’iPad stiano cambiando il mondo e il nostro modo di vivere: ce ne sarà una per ogni necessità che riusciamo a immaginare e il nostro piccolo computer portatile ci darà tutte le risposte che vogliamo. Questo facile accesso alla conoscenza sta facendo in modo che la conoscenza stessa non sia più indispensabile al singolo individuo, sia che si tratti di giudicare gli effetti di una eruzione vulcanica che di movimentare miliardi di dollari in Borsa. Persino gli studenti stanno scoprendo che non vale la pena di fare tanta fatica per imparare a memoria quando è morto Napoleone: se mai un giorno avranno necessità di saperlo, lo chiederanno con il telefonino a Wikipedia.
Molti studiosi ritengono che i computer non facciano alle persone tutto il bene che si pensava. Alcuni, come Howard Rheingold, autore del libro «The Virtual Community», sospettano che stiano dando origine a una nuova specie umana, dotata di sistemi neuronali diversi e totalmente dipendente dalla tecnologia. Lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov pose al primo punto delle sue leggi sulla robotica l’imperativo che una macchina intelligente non possa recar danno a un essere umano. Forse è necessaria una legge analoga anche per i computer.
La confusione che ha regnato per una settimana nei centri di controllo era tale che i computer di Eurocontrol (l’agenzia che gestisce il traffico aereo europeo) segnalavano la presenza di cenere vulcanica solo in due ampie zone dell’Oceano Atlantico, mentre quelli del servizio meteo inglese e del centro di controllo Nats, che coordina migliaia di voli intorno alla Gran Bretagna, affermavano che la nube nera aveva invece coperto ampie zone dell’Europa.
Anche i possibili danni ai motori, causati dall’impatto con ceneri già ampiamente disperse nell’atmosfera, è stato esagerato dai modelli matematici: alcune compagnie, come Klm e British Airways, hanno effettuato test in volo, senza riscontrare danni ai propulsori. Secondo Aage Duenhaupt, portavoce di Lufthansa, «quello che i nostri piloti hanno verificato in quota non corrispondeva per nulla a quello che ci avevano detto i computer».
Se le inchieste in corso confermeranno quanto sta emergendo, dovremo concludere che non è stata la natura selvaggia a piegare il nostro mondo tecnologico. E’ stata anzi l’eccessiva fiducia che riponiamo nella tecnologia a causarci gravi danni. Non sarebbe la prima volta. Molti sospettano ad esempio che la grande crisi economica che stiamo attraversando sia stata favorita lo scorso anno dalla perdita di controllo sugli algoritmi che ormai governano quasi tutte le operazioni finanziarie.
Banalmente, gli algoritmi sono un elenco di passi da compiere in un determinato ordine per ottenere il risultato che si desidera. Anche una ricetta di cucina o il libretto di istruzioni del telefonino sono a loro modo algoritmi. Al London Stock Exchange quasi il 50% degli scambi è ormai gestito da supercomputer che eseguono i passi necessari per ottenere il risultato da sempre più desiderato: fare molti soldi. Negli equity markets americani l’80 per cento delle operazioni non vede più coinvolti esseri umani, se non i «quantities analysts», brillanti laureati in Fisica o in Matematica che i gestori si contendono per progettare algoritmi sempre più intricati.
George Dyson, figlio del fisico quantistico Freeman, ha scritto un saggio per cercare di spiegare da un punto di vista matematico l’ultima crisi economica. E’ arrivato alla conclusione che «i mercati non sono mai stati tanto automatizzati: siamo in balìa di un sistema finanziario basato su operazioni così complesse da poter essere eseguite unicamente da macchine».
La dipendenza dai computer non riguarda però solo i grandi sistemi, ma caratterizza ormai le più semplici azioni della nostra vita quotidiana. Il «Financial Times» ha dedicato giorni fa una pagina a come le applicazioni della Apple per l’iPhone o per l’iPad stiano cambiando il mondo e il nostro modo di vivere: ce ne sarà una per ogni necessità che riusciamo a immaginare e il nostro piccolo computer portatile ci darà tutte le risposte che vogliamo. Questo facile accesso alla conoscenza sta facendo in modo che la conoscenza stessa non sia più indispensabile al singolo individuo, sia che si tratti di giudicare gli effetti di una eruzione vulcanica che di movimentare miliardi di dollari in Borsa. Persino gli studenti stanno scoprendo che non vale la pena di fare tanta fatica per imparare a memoria quando è morto Napoleone: se mai un giorno avranno necessità di saperlo, lo chiederanno con il telefonino a Wikipedia.
Molti studiosi ritengono che i computer non facciano alle persone tutto il bene che si pensava. Alcuni, come Howard Rheingold, autore del libro «The Virtual Community», sospettano che stiano dando origine a una nuova specie umana, dotata di sistemi neuronali diversi e totalmente dipendente dalla tecnologia. Lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov pose al primo punto delle sue leggi sulla robotica l’imperativo che una macchina intelligente non possa recar danno a un essere umano. Forse è necessaria una legge analoga anche per i computer.
«La Stampa» del 22 aprile 2010
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