DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’importanza di un aggettivo per uscire dal moralismo Luca Doninelli

Usiamo le parole senza l’esperienza di cosa significano. ecco come un dialogo con la mamma illumina il richiamo del papa

«Non si dica più “ha mentito, è umano; ha rubato, è umano”. Questo non è il vero essere umani. Essere umani vuol dire essere generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza, essere a immagine di Dio». Queste parole pronunciate dal Papa, così semplici, così ovvie, mettono un po’ di paura. Che bisogno c’era di dirle? Sarebbe come dire che il fuoco brucia, o che l’acqua bagna. Eppure hanno suscitato scandalo in tante persone. Mi trovo a parlarne con mia madre. Anche secondo lei le parole del Papa sono eccessive. Perché? Perché - dice - anche sbagliare è umano: errare humanum est. Anzi: una persona che non sbaglia appare meno umana.
Qualcuno ricorderà lo sceneggiato Uccelli di rovo, che parlava di un prete che si innamorava. Non ricordo se alla fine questo prete gettasse o meno la tonaca alle ortiche, ma so che lo sceneggiato fu un grande successo perché mostrava, finalmente, che “un prete è anche un uomo”. Prima, evidentemente, non lo sapeva nessuno...
Scherzi a parte, sarebbe il caso di uscire dal moralismo, e la prima causa del moralismo è che usiamo le parole senza fare l’esperienza del loro significato. Tutti sappiamo che l’acqua bagna e il fuoco scotta, perché ne facciamo esperienza. Su ciò che è “umano”, invece, è notte fonda.
Mi torna, allora, in mente il grande esempio di don Giussani rispetto al tema della libertà. Per conoscere il senso di questa parola, disse, dobbiamo partire dall’aggettivo, “libero”, e domandarci quando ci siamo sentiti pienamente liberi. È così che si impara il senso delle parole e il loro uso (spero che gli insegnanti elementari usino ancora questo metodo, del resto così fondamentale anche per un romanziere).
A mia mamma, che difende l’umanità dei peccatori, rispondo che nessuno mette in dubbio l’umanità del peccatore: è che la nostra malafede ci fa passare d’un tratto dall’umanità del peccatore a quella del peccato.
«Dimmi un po’ - le dico -. L’anno scorso quelli della tua banca hanno cercato di appiopparti un prodotto finanziario già scaduto. Se non te ne accorgevi per tempo perdevi diverse migliaia di euro. Bene, ti sei sentita trattata con umanità?». È stata costretta a rispondermi di no. «E quando una nota società pubblica ti ha scippato un bel po’ di soldi solo perché non sapevi che ti spettavano?». Anche qui ha risposto di no.
In altre parole: l’esperienza ha detto di no, mentre il ragionamento astratto, finto-buonista, che ci avvolge tutti, vorrebbe dire di sì.
Il punto, se mai, sta negli aggettivi positivi. Se rubare e mentire non è umano, per essere umani non basta evitare di rubare e di mentire. Occorre «essere generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza, essere a immagine di Dio».
Chi spinge in là il proprio orizzonte, cercando di realizzare più che può la propria umanità, sa però che è impossibile stare all’altezza di questo ideale. Chi, per esempio, mette mano a una grande impresa, sia essa la traversata di Colombo o il poema di Dante o la fondazione di un’università, sperimenta di più la propria fragilità, il proprio nulla, la difficoltà dell’impresa, la sua sproporzione rispetto alle nostre deboli braccia.
E capisce meglio di quanta grazia ha bisogno un uomo per poter vivere degnamente la vita di tutti i giorni.
È a questo, secondo me, che ci richiamano le parole del Papa.

© Copyright

Tracce N.3, Marzo 2010