È il conformismo evoluzionista a frenare la ricerca
Quando Jerry Fodor ed io stavamo scrivendo il nostro libro, Gli errori di Darwin (pubblicato in America, ora in uscita da Feltrinelli), sapevamo che avrebbe provocato un vespaio. E infatti sosteniamo che il neodarwinismo, cioè una spiegazione dell'evoluzione del vivente centrata sul processo di selezione naturale, è nettamente superato. Dal momento che questa teoria è ancora considerata dalla maggioranza dei biologi il fulcro di una concezione genuinamente scientifica dell'evoluzione, non ci stupiamo delle stroncature già ricevute, alcune addirittura velenose e talvolta sguaiate, per esempio quella dell'evoluzionista americano Michael Ruse sul «Boston Globe» e quella del genetista italiano Guido Barbujani sul «Sole 24 Ore». Assai gradite e non attese sono state, invece, le recensioni positive (sul «Guardian», «Sunday Times» e «Scotsman Five Star Reviews») e in Italia (Nicoletta Tiliacos sul «Foglio» e Roberto de Mattei sul «Giornale»). Una civilissima ma anche robusta tirata d'orecchie mi è stata personalmente data da Luigi Luca Cavalli-Sforza («Repubblica»), decano dei genetisti ed evoluzionisti italiani, di cui mi onoro di essere amico da molti anni e che tanti considerano a giusto titolo un maestro. Voglio subito precisare che Fodor ed io riteniamo Darwin uno dei massimi scienziati di ogni tempo, pochi gli stanno a petto per inventiva teorica, scrupolo sperimentale e onestà intellettuale. Però sono successe tante cose nel frattempo, comprese quelle che Cavalli-Sforza, il genetista e filosofo della New York University Massimo Pigliucci (in una sua stroncatura del libro su «Nature») e i filosofi americani Ned Block e Philip Kitcher (in una stroncatura sulla «Boston Review») giustamente citano. Si tratta di processi diversi dalla selezione naturale e da tempo riconosciuti tali, come l'effetto della fluttuazione casuale nelle varianti dei geni, detta «deriva genetica», le mutazioni neutrali, né favorevoli né sfavorevoli, e la selezione naturale limitata dalla densità (quando, cioè, essere in troppi a portare un tratto biologico inizialmente favorevole lo rende sfavorevole). Ma vi è di più, veramente ben di più, come raccontiamo nella prima parte del libro, basata su circa duecento lavori specialistici, tanto che illustri biologi come Eugene Koonin (del National Institute of Health di Bethesda), Carl Woese (Università dell'Illinois), e Lynn Margulis (Università del Massachusetts), ma non solo questi, hanno concluso e detto a chiare lettere che la teoria della selezione naturale è decisamente superata. Nel nostro libro trattiamo un buon numero di questi processi, che non hanno niente a che fare con la selezione naturale. Perfettamente naturali, assai complessi, ma non dovuti alla selezione naturale. Con tutto il rispetto, mi permetto, quindi, di dissentire dall'affermazione di Cavalli-Sforza: «Non c'è biologia senza selezione naturale e non c'è evoluzione senza selezione naturale». Vorrei essere più preciso. Nessuno si potrebbe sognare di dire che la selezione naturale non esiste e che non ha alcun ruolo nelle trasformazioni nel tempo di alcuni (solo alcuni) tratti biologici nelle popolazioni di viventi. Il punto oggi centrale è che si tratta di un processo assai marginale nella comparsa di specie nuove e nella spiegazione di moltissimi tratti biologici, lungo tutto l'albero dell'evoluzione.
Per brevità, cito solo due esempi, spero chiarissimi. Le oltre centinaia di specie di scolopendre esistenti hanno tutte, senza eccezioni, un numero dispari di paia di zampe (15, 21, 23, 27, 29, 41, 43, 101, 191). Come ha sottolineato Alessandro Minelli (Università di Padova), massimo studioso italiano di quell'approccio all'evoluzione chiamato Evo-Devo, cioè l'evoluzione considerata inscindibile dal processo di sviluppo dell'embrione, è impensabile che questo dato sia spiegabile mediante la selezione naturale e l'adattamento. Le scolopendre potrebbero certo vivere e riprodursi con un numero pari di paia di zampe. Si tratta di vincoli strutturali interni, non di selezione naturale. Tanto che alcuni mesi fa Minelli, con dei colleghi brasiliani, ha pubblicato la sbalorditiva scoperta, in Brasile, di una specie piuttosto recente di scolopendra che ha, sì, un numero di paia di zampe doppio rispetto alle specie più prossime in linea di discendenza, ma pur sempre un numero dispari. Duplicata, ma non proprio. La spiegazione sta nella dinamica dei vincoli strutturali interni e non nella selezione naturale.
L'altro esempio è una specie di meduse (Tridpedalia cystophora) trovata nel mare di Santo Domingo, che ha ben quattro gruppi distinti di occhi, per un totale di ben 24 occhi globulari, ciascuno esattamente simile agli occhi dei vertebrati, quindi anche ai nostri, con tanto di bulbo oculare, lente, cornea e retina. Il bello è che non esiste un cervello capace di ricevere quelle immagini, potenzialmente nitidissime, né un nervo ottico per veicolarle. Inoltre, il piano focale della lente di ciascun occhio non si trova sulla retina, bensì oltre la retina. Un'ulteriore sfida, questa, a qualsiasi nozione di funzionalità e di origine evolutiva dovuta all'adattamento. Tutto quello che questo massiccio apparato visivo può fare, quindi, è solo segnalare il livello di luminosità (chiaro o scuro), funzione che nelle altre numerosissime specie di meduse è svolto da banali foto-recettori immensamente più semplici. Il noto studioso di Evo-Devo Gerhard Kirschner (Università di Harvard) ha detto che, nel caso di questa medusa, l'evoluzione è proprio impazzita. Eppure, si è potuto mostrare in dettaglio ed esaurientemente che questi organi complessi, del tutto inutili, provengono dalla duplicazione ripetuta di un preciso gene, l'antenato dei geni che nei vertebrati presiedono alla formazione degli occhi. Le cause interne sono chiare, mentre il ruolo delle pressioni ambientali, cioè della selezione naturale, è nullo. Assai stranamente, questi geni sono anche presenti, però inattivi, nel riccio di mare, che ovviamente non ha occhi. Quindi, come hanno giustamente sottolineato il biochimico ed evoluzionista Michael Sherman (Università di Boston) e il più noto studioso e divulgatore di Evo-Devo, il premiato Sean B. Carroll (Università del Wisconsin), la comparsa di nuove forme di vita non (mi permetto di sottolineare questo non) è dovuta alla comparsa di geni nuovi, ma a una diversa regolazione di geni molto spesso preesistenti. Molti casi come questi giustificano la crescente marginalizzazione della selezione naturale come spiegazione delle forme animali e dei processi evolutivi.
Concludo con gli effetti nefasti del neodarwinismo in un campo di cui mi occupo professionalmente: le basi biologiche e l'evoluzione del linguaggio. Assai giustamente, e molto garbatamente, Cavali-Sforza mi fa presente che di genetica ne sa molto più di me. Sul linguaggio, però, le posizioni si invertono. I fenomeni linguistici cui allude Cavalli-Sforza (piccoli cambiamenti cumulativi, differenze graduali tra lingue diverse, eliminazioni di parti superflue) sono ben reali, ma non sono centrali. Proprio come abbiamo visto che una biologia ora emergente mette a fuoco le strutture interne di base e i processi di organizzazione interni, la linguistica di stampo generativo mette a fuoco strutture sintattiche interne e profonde similitudini tra lingue storicamente non correlate e geograficamente lontane. Proprio come una stessa banca di geni è rimasta costante lungo centinaia di milioni di anni di evoluzione, dando luogo a specie molto diverse attraverso le diverse regolazioni interne dell'attività di tali geni, e attraverso mutazioni, così le circa seimila lingue diverse oggi esistenti hanno tutte un fondamento comune, una sorta di pannello mentale fisso, con poche scelte possibili. Le differenti strutture sintattiche si riconducono tutte a posizioni diverse su questo pannello con circa venti interruttori (chiamati parametri). Niente, proprio niente rende l'organizzazione sintattica del giapponese più funzionale in quelle isole e la diversa organizzazione dell'inglese più funzionale in quelle altre isole. La chiave di volta è ovunque un vasto, ma non infinito e non graduale, repertorio fisso di possibilità. Infatti, anche il linguaggio è un tratto con fondamenta biologiche e non stupisce una certa somiglianza tra il meccanismo che genera il repertorio delle lingue e quello che genera il repertorio delle forme viventi. Vi sono linguisti che rifiutano di ammettere questo quadro teorico e sperimentale, pur ampiamente consolidato, proprio in nome di un neo-darwinismo basato sulla incrollabile fiducia che il linguaggio debba essere spiegato attraverso la selezione naturale, per piccoli cambiamenti progressivi, dettati dalla sua utilità per comunicare e dal suo valore adattativo. Spostare il perno delle spiegazioni sulle strutture interne e sui vincoli interni è la tendenza attuale, sia in biologia sia nel tipo di linguistica cui alludo qui. Tutti siamo impegnati nel lungo sforzo di capire come stanno le cose nel mondo della vita e della mente. I meccanismi genetici ed evolutivi della selezione naturale, sottolineati da Cavalli-Sforza e dai nostri illustri «stroncatori» sono reali e certo pertinenti. Pertinenti ma, si sta scoprendo, non più centrali e dominanti come si pensava ancora ieri.
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Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini sono gli autori del libro «What Darwin Got Wrong» (Farrar, Straus and Giroux). Il saggio esce in Italia per Feltrinelli il 21 aprile con il titolo «Gli errori di Darwin» Piattelli Palmarini è docente di Scienze cognitive all'Università dell'Arizona; Jerry Fodor, scienziato cognitivo e filosofo del linguaggio nato a New York, insegna presso la Rutgers University, nel New Jersey.
La polemica: sul «Corriere della Sera» se n'è occupato il 23 marzo Telmo Pievani. Poi Piattelli Palmarini ha esposto la sua posizione in un'intervista su «Repubblica» del 29 marzo. Sullo stesso quotidiano è intervenuto in difesa di Darwin Luigi Luca Cavalli-Sforza, il 6 aprile, mentre contro Darwin si è schierato Roberto de Mattei sul «Giornale» del 3 aprile. Una recensione polemica verso gli autori, a firma di Guido Barbujani, è apparsa il 4 aprile sul «Sole 24 Ore». Da segnalare inoltre un articolo di Andrea Lavazza su «Avvenire» (1°aprile). E gli interventi apparsi sul «Foglio» (30 marzo, 1 e 2 aprile). All'estero importanti recensioni sono uscite su «Nature», «The Guardian», «The Sunday Times», «Boston Review», «Times Literary Supplement».
«Corriere della sera» dell'9 aprile 2010